Standart. Reportage dalla prima triennale d’Armenia (2) (Atribune 06.08.17)

Prosegue fino al 30 settembre la prima edizione di Standart, triennale armena d’arte contemporanea curata da Adelina Cüberyan von Fürstenberg. Ieri vi abbiamo raccontato delle due mostre allestite nella capitale Yerevan, oggi invece siamo a Gyumri. Dove batte il cuore pulsante del progetto.

Se vuoi vedere com’era Yerevan prima dell’intervento dei sovietici, allora devi andare a Gyumri”. Questo ripetono gli armeni quando raccontano del Liberty che connotava l’architettura della capitale. E buona parte del centro cittadino di Gyumri lo conferma.
Ma qui non c’è stato un terremoto devastante nel 1988, dopo quello altrettanto spaventoso del 1923? Quello che vediamo è una ricostruzione posticcia, improntata al “dov’era com’era” di italica memoria? In realtà gli edifici d’inizio Novecento hanno resistito al sisma, mentre a crollare sono stati principalmente quelli costruiti dagli Anni Sessanta, causando la morte di circa un quarto della popolazione di quella che dal 1924 si chiamava Leninakan.

IN VIAGGIO VERSO GYUMRI

Gyumri dista circa 120 chilometri dalla capitale Yerevan ma spesso non sono sufficienti due ore per raggiungerla: lo stato delle strade in Armenia è pressoché disastroso e l’economia del Paese non è certo florida. E tuttavia, un lungo tratto della M1 è punteggiata da alacri lavori per realizzare la seconda carreggiata: chilometri e chilometri di uomini e mezzi. I conti non tornano. La risposta viene dopo aver chiesto lumi a chi in Armenia ci vive, dalla nascita o per lavoro: quella superstrada è finanziata dalla Cina, che la offre a costo zero, e nel secondo tratto – dove ci sarà bisogno di viadotti e gallerie – impiegherà anche manodopera specializzata. A che pro? Certo, da qui passa il gas, quello che scalda l’intera Europa. Ma in realtà la Cina è interessata ad altro: allo spazio, e quindi a ottenere visti, migliaia di visti, per farci vivere una piccolissima fetta dei propri cittadini – numeri esigui per il gigante asiatico, ma enormi per un Paese che ha tre milioni scarsi di abitanti.
L’Armenia cambierà rapidamente ancora una volta, dunque, a causa di una colonizzazione vellutata. Intanto è un Paese in pieno fermento, perennemente sulla soglia, sempre in viaggio. E Gyumri, città che diede i natali a Gurdjeff, non è che la tappa di un viaggio ideale verso il Monte Ararat, verso il Monte Analogo di cui narra René Daumal e che presta il titolo a questa prima edizione di Standart, triennale armena d’arte contemporanea. 

Alcune ceramiche delle sorelle Aslamazyan, Gyumri. Photo credits Arpine Haroyan
Alcune ceramiche delle sorelle Aslamazyan, Gyumri. Photo credits Arpine Haroyan

LE SORELLE GIRAMONDO

Il Monte Analogo è una parabola on the road, una crasi fra Platone e Jules Verne. Si capisce dunque perché la curatrice Adelina Cüberyan von Fürstenberg abbia scelto di allestire una delle mostre in un museo aperto nel 1987 e dedicato a Mariam (1907-2006) ed Eranuhi Aslamazyan (1910-1988). Non tanto o non solo per la qualità di alcune delle loro opere (certi dipinti, certe ceramiche) quanto per l’incredibile mobilità di questa coppia che, fra gli Anni Trenta e Cinquanta, passò dall’Africa all’India, dalla Cina alle Americhe.
Se al pianterreno del museo sono le sorelle a occupare la scena in solitaria, al piano superiore le loro opere accolgono una serie di video e film che hanno come filo conduttore più o meno esplicito il viaggio – inteso non come raggiungimento della meta ma come ricerca di sé, in pieno stile daumaliano.
Così è per … Uma história que eu nunca esqueci… (2013/2015) di Rosana Palazyan, racconto in forma di ricamo dell’esodo che la nonna dell’artista fu costretta a compiere, da Konya alla Grecia e poi fino a Rio de Janeiro. La morte come trapasso è raccontata in chiave surreale da Murali Nair in The Crossing (2008), mentre il passaggio dall’infanzia all’età adulta e poi ai propri figli è incarnata in La Mangue (2008) di Idrissa Ouedraogo. E ancora, il virulento avvicendarsi delle emozioni si affianca a una forsennata esplorazione della città in The Accordion (2010) di Jafar Panahi, mentre Jia Zhang-Ke racconta di come il turismo possa (debba?) essere frustrato in quanto negazione di ogni autenticità del viaggio (Black Breakfast, 2008).

Riccardo Arena, Āshkhārhātzūytz, 2017. Serguey Merkurov Musuem, Gyumri
Riccardo Arena, Āshkhārhātzūytz, 2017. Serguey Merkurov Musuem, Gyumri

SCRITTURA, VIAGGI E MAPPE

Un tempo si chiamava Alexandropol, la seconda città dell’Armenia. Prima di essere Gyumri, poi Leninakan e poi di nuovo Gyumri. Qui, dal 1998 al 2012, si è tenuta una biennale prodotta dal Center for Contemporary Art. Ora Standart colma un vuoto, che ben si percepisce dalla vivacità della vita culturale di questo piccolo centro vicino al confine turco.
Il cuore della neonata triennale è allestito al Sergey Markurov Museum, aperto nel 1984. Qui espone il gruppo di artisti – affiatato come ormai di raro è dato vedere – che hanno trovato il loro epicentro a Villa Kars, luogo magico voluto da un italiano, giunto a Gyumri in qualità di medico dopo il terremoto del 1988 e qui rimasto. In aprile si sono radunati la prima volta, insieme alla curatrice, per una settimana di discussioni intorno al Monte Analogo. Poi il ritorno in estate, ognuno secondo i propri tempi e le proprie modalità, ma con un palpabile spirito di gruppo. “Non è una mostra impiantata, non è una mostra OGM”, sottolinea Adelina von Fürstenberg. Questa condivisione d’intenti si palesa nei temi che percorrono le opere, fatta salva l’autonomia espressiva di ognuno degli artisti. Tre sono le direttrici più evidenti, che si incrociano con naturalezza: la scrittura, la mappa, il viaggio.
La scrittura connota le opere di Giuseppe Caccavale, che si concentra sul Viaggio in Armenia di Ossip Mandel’stam, ne ricopia i versi – sui muri, in libri d’artista –, se ne appropria per poi restituirli liturgicamente alla natura, alla natura dei luoghi stessi cantati dal poeta. Maria Tsagkari prende spunto da un racconto di Novalis, anch’esso incompiuto come quello di Daumal, che narra della ricerca di un piccolo fiore blu; quegli stessi – su quali basi negarlo – che ora costellano il soffitto a cassettoni della veranda del museo. Mikayel Ohanjanyan si ispira invece all’epopea di Pokr Mher: blocchi di basalto sono tagliati, incisi a mano con un messaggio scritto su di essi, riassemblati e tenuti stretti da cavi d’acciaio. Anche qui, la scrittura è tensione, comunicazione resa incerta e assimilata dopo lunghi sforzi. Diventa scrittura nel senso proprio del termine quando è fatta propria al punto da essere quasi un’invenzione individuale, come d’altronde è l’alfabeto armeno, creato nel 405 dal monaco Mesrop Maštoç.

Al confine tra scrittura e viaggio sono i lavori di Ayreen Anastas & Rene Gabri. Uno storyboard fitto di appunti fa da pendant a un video che racconta una deriva iniziata da un villaggio vicino a Yeghegnadzor e proseguita per piccoli e piccolissimi centri armeni. Una vera e propria ascesa l’hanno invece compiuta Marta Dell’Angelo e Gohar Martirosyan, salendo su una delle cime dell’Aragats (montagna maestosa, costretta a fungere da surrogato dell’Ararat) sulle orme di un antico rito, il monosandalismo: il video Tararà racconta questa sublim-azione di coppia, con piedi nudi che affondano nella neve e si feriscono sulle rocce, con una leggerezza però che sa di danza. La medesima danza che è necessaria per attraversare il collage praticabile che Dell’Angelo firma in una sala del museo, mentre torna a collaborare con un artista armeno (Aleksey Manukyan) nella performance One whistle 100 Dram, vendita di fischietti ricavati da ghiande (tradizione nostrana) o semi di albicocche (tradizione armena): perché, parafrasando Guénon, gli epifenomeni cambiano, la sostanza resta.
Al crocevia fra le tre tematiche stanno i lavori presentati da Benji Boyadgian: l’artista israeliano è stato, insieme a Riccardo Arena, il più tenace nello scoprire il territorio armeno, concentrandosi non tanto sui magnifici monasteri quanto sulle rovine più antiche, preistoriche. Da qui è nata una serie di disegni che “mescola differenti eredità archeologiche”, ci ha raccontato Boyadgian, “per mostrare la futilità di ogni epoca”. Allo stesso modo, le due sculture, con specchi, lenti e ossidiana, conducono su false piste interpretative: il fine è, in piena coerenza con il fine di Daumal, riconoscere se stessi.
Quanto alle mappature, anche in questo caso il medesimo approccio ha condotto ad esiti assai differenti l’uno dall’altro: Aleksey Manukyan ha lavorato con la tecnica del frottage, trasformando ampie porzioni di decorazioni murali in teorici francobolli, macro-micro-cartografie urbane; Thibault De Gialluly ha invece reso irriconoscibile la propria mappatura, intersecando fino all’inintelligibilità i layer di cui è costituita. Ma la ricchezza maggiore di dettagli è fornita da Riccardo Arena, che dispiega in tre dimensioni la topografia mistica del Monte Analogo e ne ricava una sequenza di disegni e fotografie, sculture e rocce, mappe astronomiche e tori minoici: lui pure ha viaggiato a lungo in Armenia e ha colto nel profondo il messaggio interrotto lasciato da René Daumal – l’interminabilità della ricerca della vetta.

– Marco Enrico Giacomelli

www.standart-armeniatriennale.net

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