Storia degli armeni, di Aldo Ferrari e Giusto Traina (Treccani 16.03.21)

Lo storico latino Tacito (Ann., 13.34.2) definiva gli armeni «gente di dubbia lealtà» in virtù della posizione, geograficamente e dunque (in un certo senso di conseguenza) psicologicamente di frontiera tra il mondo romano e quello partico che essi occupavano, facendo uso di una terminologia che altre fonti ‒ greche come latine ‒ avrebbero a più riprese impiegato per parlare, non a caso, degli ebrei e più tardi dei cristiani. Un paio di millenni dopo, pianificandone lo sterminio su scala europea al momento di invadere l’URSS, Hitler avrebbe riproposto il paragone, tranquillizzando i propri luogotenenti circa l’opposizione delle altre potenze al trattamento che i nazisti si proponevano di riservare alla popolazione ebraica facendo loro notare che, a nemmeno trent’anni di distanza, nessuno si ricordava (e – fatto assai più importante – a nessuno interessava) degli armeni.

Tanto la storia millenaria quanto le vicende estremamente travagliate che hanno segnato il destino della (delle) comunità che con tale storia si sono identificate così come l’inesistenza – fino a tempi assai recenti – di uno Stato a fronte di una popolazione tanto gelosa quanto orgogliosa delle proprie tradizioni giustifica la scelta da parte della comunità scientifica di studiare il passato dei popoli d’Armenia e di Israele più che quello dei rispettivi Paesi (intesi nel senso di comunità geopolitiche), ed aiuta dunque a comprendere come mai il recente volume curato da Giusto Traina e Aldo Ferrari (due insigni studiosi, specialisti rispettivamente dell’evo antico e di quello moderno, uno sotto il profilo storico, l’altro sotto quello linguistico e letterario, di questo popolo) si intitoli, a buon diritto Storia degli armeni.

Dal momento infatti che, con le eccezioni del regno Pakraduni (giunto al termine nel 1118 d.C.), della cosiddetta prima repubblica (1918-1920), di quella sovietica e dell’attuale Stato indipendente, la storia millenaria della cultura armena non ha mai conosciuto qualche cosa di anche lontanamente comparabile a un’autonomia territoriale iuxta propria principia, l’intento primario degli autori è stato comprensibilmente quello di offrire al pubblico italiano (nel territorio della cui repubblica, ad oggi, sono insediati – e perfettamente integrati – all’incirca 3.000 esponenti di questo ricco e interessantissimo mondo) un profilo allo stesso tempo informato e autorevole ma accessibile e sintetico (200 pagine corredate di numerose illustrazioni e carte) delle vicende di una cultura e di una lingua i cui portatori hanno saputo attraversare, se non indenni certamente con uno straordinario spirito di abnegazione e resilienza, la storia di regni e imperi, dall’Assiria a Stalin.

Il posizionamento dei territori ancestrali armeni, incuneati nel Caucaso lungo uno snodo di importanza cruciale tra Turchia, Iran e Russia, è stato nel corso dei secoli croce e delizia della popolazione in esso insediata: in ragione dell’interesse strategico essi funsero non di rado da catalizzatore dell’attenzione delle superpotenze dell’epoca in virtù del proprio ruolo a cavaliere tra più mondi, cerniera tra Oriente e Occidente e dunque avamposto fondamentale di qualsiasi potere dalle ambizioni egemoniche nella zona. Essi furono però allo stesso tempo costantemente esposti al rischio di venire sacrificati (e con essi la popolazione ivi insediata) sull’altare della geopolitica euroasiatica (da Roma alla NATO), con conseguenze nefaste per uomini e donne i quali, forse per lo meno dall’ascesa del califfato (capp. 7 e 8, pp. 71-90) hanno dovuto fare di necessità virtù, sviluppando (ancora una volta in sorprendente analogia con il popolo ebraico) doti non comuni di diplomazia, spirito di adattamento e mobilità che ne hanno allo stesso tempo garantito il successo nei Paesi di emigrazione (l’elemento diasporico è infatti una costante della storia degli armeni), ma anche, paradossalmente, un punto debole facilmente sfruttabile in chiave xenofoba (al mito della «plutocrazia giudaica» si potrebbe dunque affiancare, ed è stato fatto, quello di una «plutocrazia armena»).

Una recensione non dovrebbe mai proporsi di riassumere (dunque banalizzandolo) il contenuto di un libro, e ciò tanto meno nel caso – come questo – in cui il volume in questione risponda al genere letterario del profilo di storia (politica, culturale, letteraria o di altro genere). Varrà tuttavia la pena sottolineare che, nel ripercorrere le vicende del popolo armeno (meno di 30.000 km2 per neanche 3 milioni di abitanti tra le montagne del Caucaso – da Erodoto a Puškin e Lermontov terra per eccellenza di, per quanto nobili e fieri, barbari), Traina e Ferrari riescono nella non banale impresa di condurre il lettore in viaggio attraverso letteralmente i cinque continenti, seguendo le orme di religiosi, mercanti, uomini di guerra e intellettuali che riuscirono a conquistare non di rado con le sole arti della cultura e della competenza diplomatica, spazi di manovra notevolissimi dagli Stati Uniti a Manila e dall’Iran all’Australia.

Inquadrando «dall’interno» la storia armena in un contesto storico e geopolitico quanto più ampio possibile, attirando costantemente l’attenzione del lettore sulle interazioni delle formazioni statali armene con i propri vicini senza con questo perdere di vista le logiche peculiari della storia di questo popolo, il volume assolve così al meritorio compito di orientare tanto la comunità scientifica quanto il pubblico interessato alla storia di questa regione del mondo, a torto per lungo tempo relegata ai margini, verso un’ottica autenticamente globale alle vicende della comunità di destino armena e dei suoi luoghi di memoria, come del resto si addice a un popolo che, come argomentato persuasivamente da Lori Khatchadourian nel suo splendido Imperial Matter (2016), si è sempre dimostrato pervicacemente in grado ‒ dai «delegati» ritratti sulle scalinate dell’apadāna ad Anastas Mikojan ‒ di giostrarsi tra i confini degli imperi che sull’Armenia nel corso dei secoli avanzarono pretese egemoniche e i centri decisionali di essi senza mai perdere del tutto il proprio potere di influenza. Escaping without leaving, nelle parole della studiosa, sopravvivendo con coraggio e dignità tanto a prove immani quanto, fatto notevole, a molti di quegli stessi imperi che si illusero di averne domato la resistenza. Con buona pace di Hitler (e di Erdoğan) la memoria dell’Armenia e degli armeni è ancora lungi dallo svanire, ed è anche per questo motivo che non è tempo perso conoscerne (meglio) la storia.

A. Ferrari – G. Traina, Storia degli armeni, Bologna, il Mulino, 2020, pp. 223

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