Sulle tracce di mio padre (Internazionale 03.01.19)

Mio padre si chiamava Setrak. Era nato a Karputh, verosimilmente in un secolo che aveva solo otto anni e non manifestava ancora segni di follia. La sua famiglia faceva parte della comunità armena di Anatolia che all’epoca contava due milioni di anime. Mio padre è fuggito dal suo villaggio in una sera di aprile del 1915, dopo che un’orda di soldati, di gendarmi e di ausiliari curdi – i tchété che hanno assillato le nostre notti d’infanzia – ha invaso la fattoria in cui viveva una famiglia di trenta persone.
Questa gente viveva di poco, ma diversi testimoni affermano che si trattava di persone accoglienti, sempre pronte a offrire un tetto e un pasto ai viandanti che si guadagnavano il pane quotidiano in cambio di qualche giornata di lavoro. Preparare delle forme di sterco di vacca facendole seccare per il focolare dell’inverno era un’attività che occupava tutti permanentemente. Quattro mesi di neve con una temperatura che scendeva a dieci gradi sotto lo zero, e delle estati così calde da far spaccare i muri di argilla, paglia e sassi.
La casa aveva un tetto piatto, e il piccolo Setrak aveva scoperto il piacere di giocare con le palle di neve, perché ai bambini era affidato il compito di liberare il tetto dalla neve. Setrak raccontava anche di quando, durante l’estate, sguazzava nello stagno con una zucca secca legata in vita a mo’ di boa. Quel mondo si è dissolto in qualche ora. La casa era abituata alle incursioni di uomini in divisa che venivano a prelevare imposte particolarmente gravose per le famiglie armene, e che portavano via anche pecore e marmellate per migliorare il loro rancio. Come pure delle monete d’oro: di oro si parlava molto, e solo ora ne ho finalmente capito l’importanza.
Pietà filiale, passaggio obbligato di un lutto, bisogno tardivo di vedere se il sangue dei massacri si è essiccato? Non ho una risposta unica, ma ho sentito un bisogno imperioso di percorrere l’Anatolia, come se fosse arrivato il momento di calcare il suolo di questa terra misteriosa. E nelle città ho visto quest’oro grondare dalle vetrine dei gioiellieri. L’oro che tutti i contadini compravano con il ricavato del raccolto e che sotterravano nel punto più remoto della loro casa o in fondo al pozzo, in previsione dei giorni bui. Quel giorno del 1915 gli adulti hanno pensato di placare il furore dei gendarmi offrendogli le loro ricchezze. Ma neanche questo bastava: obbedivano ad altri ordini e avevano una missione ineludibile da portare a termine. Setrak è salito sul tetto e da una botola ha visto lo sterminio di tutti i suoi, i sussulti di suo padre, il cranio fracassato a colpi di pietre.
In quel momento il bambino è diventato adulto. Ha capito l’atmosfera pesante e i mormorii delle donne, le paure delle ultime settimane sulla piazza del mercato dove i turchi portavano alla cintura i loro lunghi pugnali ricurvi e guardavano gli “infedeli” con occhi sospettosi. È fuggito per un vagabondaggio che gli avrebbe fatto capire cosa sono il terrore, la fame, l’odore della morte, le zanne ferine. Per giorni? Per settimane?
Lingua morta
All’aeroporto di Elazig si respira un’aria di campagna, c’è molta gente che continua a occuparsi delle proprie faccende in tutta tranquillità. Un’ostinazione che già rimpiango mi ha spinto a compiere da solo questo strano pellegrinaggio. Pensavo che mi sarei fatto capire, mescolando le lingue, che avrei trovato un vecchio cicerone armeno che mi avrebbe raccontato la storia del mio villaggio. La realtà s’impone sempre in modo brutale: né in questi luoghi né altrove in Anatolia c’è ancora un’anima viva che parli la lingua che il potere dei Giovani Turchi (movimento riformista e ultranazionalista) ha ostinatamente e metodicamente cancellato, a partire dal 24 aprile 1915.
La città nuova si estende come un lungo nastro che percorre la vallata. Dovrò proprio far pace con questa sensazione di cantiere permanente, con i tondini di ferro che spuntano dappertutto, con le strade dissestate, e la polvere che avvolge tutto. Già in aereo le donne anziane coperte dal velo e le ragazze vestite secondo la moda occidentale mi avevano fatto ricordare che mi trovavo in un altro continente. Però questi uomini… Hanno un che di familiare.
Mi sembra di essere uno straniero che arriva troppo tardi per seppellire le sue illusioni
La forma dei loro baffi è indice, a quanto pare, del loro impegno politico. Di loro ho sempre sentito dire che erano nostri nemici.
A parte qualche frase di cortesia, non parlo il turco. Ma è una lingua che mi è familiare, che riconosco anche se non la capisco. Era la lingua segreta degli adulti, riservata a raccontare le sciagure dalle quali si volevano proteggere i bambini. Quanto all’autista del mio taxi che ha vissuto per alcuni anni in Germania, la nozione di quartiere armeno gli è oscura quanto il linguaggio dei semafori.
A parte l’eleganza dei minareti, l’esotismo dei negozi di “fotocopi”, gli “ambulans”, la “polis” e le cabine di “telefon”, la città trasuda noia non appena ci si allontana dall’opulenza del mercato che trabocca di legumi e di frutti estivi. Melanzane, peperoni, montagne di menta, angurie, ciliegie, albicocche e nespole (che chiamavamo yeni dugna): la cucina, i gusti e gli odori che mi pervadono mi stanno facendo rituffare nella mia Little Armenia di Marsiglia, dove gli esuli dell’Anatolia hanno ricreato i loro villaggi perduti. A dire il vero, e questo nonostante la familiarità dell’ambiente, non mi sento per niente a mio agio, oppresso dal fatto di assomigliare a un turista senza storia in quei luoghi dove la mia immaginazione riesce a scovare solo qualche piccolo frammento della barbarie passata.
Dismisura
Ci siamo lasciati alle spalle la città senz’anima per arrampicarci verso le alture della mitica Karputh. Karputh che mi hanno sempre descritto come un punto d’incontro importante per gli intellettuali armeni, una città dove un tempo si viveva in pace con i turchi in un paesaggio ricco di vigneti, di allevamenti di bachi da seta e di frutteti. Un luogo dove si dividevano le seterie, le fabbriche di tappeti, dove i conciatori di pelli vivevano fianco a fianco con gli artigiani che lavoravano il rame. Dai racconti dell’infanzia di Setrak mi sono fatta un’immagine smisurata del suo borgo. Mi raccontava della cinquantina di città e villaggi che erano legati al suo paradiso perduto dell’infanzia, delle sessanta chiese, dei nove monasteri. Karputh e la sua popolazione di quarantamila armeni che potevano disporre di novanta scuole.
La catena del Tauro svetta all’improvviso sul nostro orizzonte e la cittadella in rovina si staglia sull’alto delle montagne. La fattoria della mia famiglia si doveva trovare da quelle parti, avevo coltivato il sogno che un giorno mi sarei trovato sotto il tiglio a chiacchierare con i nipoti dei curdi, del tutto ignari delle spoliazioni.

Le sorgenti dell’Eufrate nella regione di Erzurum, Anatolia sudorientale, 1997. (Rainer Drexel)
Con la pianta dei luoghi tra le mani il tassista si addentra nelle stradine, ma le immagini impresse nella mia immaginazione si sfilacciano e le ricche abitazioni annidate ai piedi della scarpata scompaiono. Nella parte più bassa ci sono ancora i resti delle case in rovina, invasi dalle erbacce, dai papaveri che fanno venire la tristezza, dalle lucertole che s’infilano dappertutto. E grandi fosse che squarciano il paesaggio morto. La Karputh dei miei sogni è scomparsa. E con lei il prestigioso collegio dell’Eufrate che immaginavo simile al mio liceo, le missioni protestanti, la chiesa.
Mi sono seduto ai piedi della montagna per impregnarmi del paesaggio dei miei, stringere tra le mani le foglie lanuginose del cotogno, inebriarmi del colore dei melograni, ritrovare il profumo degli alberi di fico. E mi sembra di essere uno straniero che arriva troppo tardi per seppellire le sue illusioni. Devo guardare ancora i noci e gli olivi, riscaldare le mie mani sulle pietre coperte di muschio. Tracce di un ambiente che i miei hanno guardato, calpestato sotto i loro piedi. Forse Setrak
si sarà arrampicato su uno di quegli alberi, un po’ meno alto, in questa luce stranamente provenzale. È là che i bambini giocavano nelle loro capanne? Nella vallata la costruzione di una diga ha sconvolto tutto il paesaggio, e i contadini che si sono arricchiti con i terreni espropriati si sono fatti costruire delle abitazioni di quattro piani, degli “apartman” di tipo cittadino.
Fifty-fifty
Il tassista ha finalmente compreso la mia ricerca e si ferma davanti a delle case dove non risuonano voci, ma io non oso varcarne la soglia. Brilla solo l’immagine del televisore, annunciato dalle parabole che ricoprono i tetti piatti di quest’immutabile architettura di terra. Alcuni giovani vengono verso di noi. I Geld, i “soldi” tedeschi, i gesti, i segni tracciati sul suolo, ma soprattutto il ricordo dei racconti ascoltati con scetticismo, mi fanno capire che per loro io sono uno di quegli armeni che hanno in tasca i punti di riferimento, una mappa, un albero, un pozzo che indica dove è sepolto il tesoro.
Attraverso gesti punteggiati dalle parole “fifty-fifty”, mi fanno capire che si può fare a metà, che loro sono abituati a trattare con i Kharpertsi di Los Angeles, eredi delle grandi famiglie che avevano introdotto la fotografia e la stampa nell’Impero ottomano.

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