Torino, i segreti degli orafi armeni Mevlat: «Nostra la bacchetta d’oro di Von Karajan e certi anelli massonici» (Corriere 14.06.23)

«Bisogna trasmettere al gioiello quello che si sente dentro di sé con il proprio cuore, la propria mente e la propria passione».
Questo principio, che va ben al di là della sola tecnica del cesello, insegna Edmondo, orafo artigiano con il fratello Adruni, agli allievi della Fondazione Ghirardi di Torino che è la più antica scuola di settore d’Italia, nata agli albori del 1900. Per i due fratelli Mevlat, laboratorio-negozio e luogo di insegnamento sono a pochi passi, fra via Barbaroux e via San Tommaso, ma la loro storia professional-familiare ha origini assai più esotiche e levantine e inizia sul Bosforo, fra le volute del Gran Bazar di Istambul.

«Il nostro papà Berc a tredici anni era già a bottega da un grande orafo e presto si è messo in proprio e si è affermato nell’artigianato dei gioielli». Mevlatyan, si chiamava prima di nascondere il suffisso armeno del cognome, quando, nel post Atatürk, la sua comunità è ritornata ad essere una minoranza cristiana perseguitata. «Così i nostri genitori hanno abbandonato la Turchia per Torino, dove già abitava un parente prete. Era il 1963 e qui hanno trovato subito accoglienza e acquisito la cittadinanza in pochi anni».

Adruni aveva cinque anni, Edmondo è nato qui. «Avevamo casa e laboratorio in via XX Settembre e il papà riceveva i clienti in un piccolo vano che avevamo acquistato sulla strada e che era stata la nicchia di una statua della Madonna. Una Madonna che ci ha protetti e, ad attività avviata, anche noi, dopo il servizio militare, abbiamo seguito le orme e gli insegnamenti paterni». La clientela è varia e affezionata, perché i Mevlat danno la stessa attenzione a chi li cerca per realizzare sofisticata gioielleria con i preziosi e a chi chiede manufatti in ottone per un piccolo gruzzolo. Li caratterizzano ascolto del cliente per gioielli su misura e creatività artigianale che li fa esprimere pienamente nella propria arte.

Talvolta le commissioni sono singolari, come quando al padre, nel suo laboratorio torinese, venne chiesto di realizzare una bacchetta d’oro per Herbert Von Karajan. «Ci richiedono anche decorazioni massoniche», confida — mostrando un anello con triangolo e compasso — Adruni che ha anche la passione e il talento per la magia, ma non quella esoterica, bensì la prestidigitazione. Forse perché richiede anch’essa abilità manuali, attenzione per i particolari e precisione.

Bulini, pantografi, laminatoi, bilance, piccole saldatrici e lucidatrici sono sullo sfondo di vetrine dove fanno mostra di sé bracciali, pendenti, orecchini e collane dalle delicate decorazioni. A quale creazione sono più legati i fratelli dalle mani d’oro? Il maggiore al primo realizzato: una spilla ottenuta con i materiali avanzati da un lavoro del padre. Il minore a un anello richiesto da una cliente ispirandosi a un sofisticato modello di Tiffany. E poi ci mostrano una mezzaluna aurea finemente cesellata dal papà, da tempo scomparso, di fattura e motivi decorativi ancora decisamente orientali.

La prospettiva di settore pare loro buona: «Dopo anni, il lusso sta ritornando a Torino, la gente spende di più». E poi ci sarà Cartier. «Siamo stati invitati a visitare il nuovo stabilimento e siamo molto contenti che possa offrire tanti posti di lavoro nell’oro e nei gioielli — commentano — anche se noi siamo tanto affezionati all’artigianato che mai abbiamo pensato di poter lavorare per altri». Non portano gioielli i fratelli Mevlat, solo una piccola croce ricavata dalla fede nuziale della madre, ma le loro mogli sanno sempre, nelle diverse occasioni, con quali bijoux uscire.

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