Viaggio tra i disobbedienti Azeri – Compagni di scuola. Di Pietro Kuciukian (Gariwo 04.01.19)

Assistiamo nell’ambiente sociale a esplosioni di aggressività nelle parole e nei comportamenti, tanto che aleggia il pericolo che la conflittualità fatta propria dalla comunicazione politica diventi cifra delle relazioni tra vicini, tra amici, tra compagni di lavoro.

Proseguendo il mio viaggio tra i disobbedienti azeri, voglio aprire la pagina di come l’altro possa continuare ad essere un volto, e i “coscienziosi” avere la meglio al tempo del male. Si tratta di una testimonianza che riguarda compagni di scuola, giovani che condividono studio e divertimento, che guardano al futuro e non accettano che improvvisamente tutto un mondo possa crollare.

Victoria Akopian, una studentessa di un liceo di Sumgait, il 28 febbraio del 1988 viaggiava in autobus in gita scolastica assieme ai compagni di classe azeri. In città tante cose erano cambiate rapidamente nelle relazioni tra armeni e azeri. Ne avevano discusso in autobus e un’amica azera aveva interrogato Victoria sul suo stato d’animo, sulla paura, sull’incertezza che dominava la società. Le aveva poi chiesto esplicitamente se come unica armena, provasse inquietudine a stare con loro, tutti azeri. Victoria non aveva avuto nessuna esitazione: “Siamo tutti amici, non posso temervi”. Aveva tuttavia espresso preoccupazione per i racconti spaventosi messi in circolazione che riguardavano le crudeltà che gli armeni avrebbero compiuto contro gli azeri del Karabagh allo scopo di ricongiungere questa terra all’Armenia. Per Victoria si trattava di menzogne diffuse scientemente a livello politico per alimentare l’odio antiarmeno in Azerbaigian. A tarda sera, al rientro dalla gita scolastica, l’autobus improvvisamente si blocca. Una folla selvaggia circonda il mezzo e, all’urlo “Ermeni, ermeni”, cerca di salire sul mezzo. Tutti sono impauriti, anche i colleghi azeri di Victoria. Elchad Akhmedov, un giovane azero buono e onesto tenta di resistere, ma alla fine è costretto ad aprire la portiera del pullman. Salgono dei tipi loschi, visibilmente alterati, alla ricerca spasmodica di armeni. Un compagno azero di Victoria, Dima Vladimirov, estrae un coltello cercando di opporsi alla pressione della folla inferocita. Gli altri studenti, più lucidi, lo fermano. I compagni nascondono il sacco e il passaporto di Victoria e un membro del Komsomol, Gul-aga, consiglia Victoria di dire che è sua moglie Sveda. Irada, Aida e Leila investono gli assalitori con frasi oscene, inconcepibili per essere pronunciate da ragazze armene. È la salvezza. Victoria nella testimonianza resa alla fine dei massacri dichiarerà che il loro autobus è stato l’unico a passare indenne attraverso la folla inferocita e a raggiungere la sede del Komsomol. Gli amici azeri hanno reagito con prontezza, coraggio e determinazione e Victoria ha avuto la conferma che la sua fiducia nel valore dell’amicizia era fondata. Leila, Irada e Aida, le amiche azere di Victoria, hanno fatto di più: nella sede del Komsomol l’hanno nascosta nella stanza blindata che conteneva la cassaforte; da lì lei ha potuto telefonare ai parenti che l’hanno messa in guardia su quanto stava succedendo in città. Victoria è riuscita a rientrare a casa evitando gli assembramenti. “La mamma”, conclude Victoria, “mi ha mostrato una macchina nel cortile dove gli azeri avevano bruciato vivi degli armeni. Io sono stata difesa e salvata dai miei compagni azeri”.

Testimonianze che suscitano stupore carico di sofferenza, aprono domande che non sembrano avere risposta, ma che costituiscono un monito affinché non si sottovalutino i segnali inquietanti del venir meno o dell’indebolirsi dei valori di solidarietà, di amicizia, di buon vicinato.

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