19 gennaio 2007 – 19 gennaio 2017 – In memoria di Hrant Dink a dieci anni dal suo assassinio

IN MEMORIA DI HRANT DINK

In occasione della decima ricorrenza del barbaro assassinio di Hrant Dink (19 gennaio 2007- 19 gennaio 2017) nel rendere omaggio alla memoria di questo grande intellettuale, che è stato “vittima delle verità”, riproponiamo di seguito il comunicato stampa pubblicato subito dopo la notizia del suo assassinio insieme all’ultimo articolo scritto da Dink e pubblicato post-mortem sul giornale da lui diretto.

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«Quello che voglio è vedere i turchi che parlano di quanto è successo. Bisogna che turchi e armeni inizino a dialogare.

C’è una sola strada percorribile ed è quella del dialogo. Sempre».

Hrant Dink


 

COMUNICATO STAMPA

Comunità armene in lutto per il barbaro assassinio del giornalista armeno Hrant Dink  19.01.2007

L’uccisione di un giornalista rappresenta sempre un fatto tragico, legato al tentativo dei criminali di limitare la libertà di parola e di pensiero.

L’assassinio di Dink, giornalista armeno in Turchia, assume ancora più tragica rilevanza se solo si considera il suo impegno da sempre profuso a favore del dialogo e della tolleranza.

Nato il 15 settembre 1954, dopo aver frequentato le scuole armene, si laureò in zoologia pur continuando a dedicarsi agli studi di filosofia.

Dal 1996 è stato direttore responsabile di Agos , giornale bilingue della comunità armena di Istambul, dalle colonne del quale si è sempre battuto per la ricerca del dialogo tra turchi ed armeni e tra Turchia ed Armenia.

Nonostante questo suo impegno, non è sfuggito alle mire del famigerato art. 301 del codice penale turco ed è finito sotto processo e condannato a sei mesi di prigione (con la condizionale) nell’ottobre del 2004 con l’accusa di “lesa turchicità”.

Il suo carattere mite è evidenziato dalle parole che pronunciò, a caldo, dopo la sentenza: “ se la mia condanna verrà confermata significherà che ho insultato questa gente e sarà un grande disonore per me restare nello stesso paese. Quello che è successo è inconcepibile”.

La sua morte è frutto della cultura dell’odio verso gli armeni che ancora resiste nelle frange estremiste della società turca; un odio alimentato dal potere di Ankara, da una mentalità ancora troppo nazionalista, da un orgoglio turco che non si piega  neppure davanti alle pagine più tragiche della storia come il genocidio degli armeni.

Ma l’assassinio di Dink è, purtroppo,  anche il frutto di quell’opportunismo politico, di quegli interessi economici, di quella indifferenza che alberga in taluni settori della società europea ed italiana.

Il Consiglio per la Comunità armena di Roma nel mentre piange Hrant Dink, si augura che il suo sacrificio non sia vano; che i suoi assassini siano prontamente assicurati alla giustizia, che il governo turco abbia la forza morale di condannare l’episodio e di cancellare immediatamente – logica risposta alla violenza – quel mostruoso art. 301 in nome del quale ogni giorno si celebrano processi…  e ora ammazzano persone.


 

“Sono come un colombo che si guarda sempre intorno, incuriosito e impaurito. Chissà quali ingiustizie mi troverò davanti. Ma nel mio cuore impaurito di colombo so che la gente di questo paese non mi toccherà. Perchè qui non si fa male ai colombi. I colombi vivono fra gli uomini. Impauriti come me, ma come me liberi.” Hrant Dink.

 

Ultimo articolo di Hrant Dink pubblicato su Agos una settimana prima della sue morte.

All’inizio il processo aperto contro di me dal procuratore capo di Sisli non mi aveva preoccupato. Non era il primo. Sono sotto processo a Urfa, dal 2002 per aver detto di non essere turco, ma armeno di Turchia. Mi hanno accusato di aver offeso l’identità turca. Quando sono andato a testimoniare a Sisli l’ho fatto senza troppa preoccupazione. Perché ero sicuro che ciò che avevo scritto non poteva essere male interpretato. Il procuratore, ho pensato, non crederà che io abbia voluto offendere l’identità turca. Sono stato rinviato a giudizio. Non ho perso la speranza. A chi mi accusava di aver insultato il popolo turco, ho detto che non avrebbe potuto gioire: non mi avrebbero condannato. Se fossi stato condannato avrei lasciato il paese. Gli esperti chiamati a giudicare i miei scritti hanno detto che non c’erano in essi elementi di offesa. Ero tranquillo: il torto sarebbe stato riparato, tutto sarebbe finito in una bolla di sapone. Ma così non è stato. Mi hanno condannato a sei mesi di carcere. La speranza che mi aveva accompagnato e sostenuto durante tutto il processo è crollata. Ma mi ha anche dato nuova forza. Prima della sentenza, al termine di ogni udienza venivano date in pasto all’opinione pubblica notizie false su di me. Dicevano che avevo dichiarato che il sangue dei turchi è avvelenato, mi dipingevano come nemico dei turchi. Queste cattiverie hanno cominciato a fare breccia nel cuore di tanti miei connazionali. Alle udienze adesso venivo aggredito dai nazionalisti, si inscenavano violente manifestazioni nei miei confronti. Ho cominciato a ricevere telefonate e mail di minaccia, a centinaia. Ma io continuavo a dire, pazienza, la decisione finale renderà giustizia di tutto ciò e saranno loro a vergognarsi. L’unica mia arma era la mia onestà. Ma mi hanno condannato. Il giudice aveva deciso in nome del popolo turco che avevo offeso l’identità turca. Posso tollerare tutto, ma non questo. Mi trovavo a un bivio: lasciare il paese oppure restare. Alla stampa ho detto che mi sarei consultato con i miei avvocati, che avrei fatto ricorso in appello e anche alla Corte europea per i diritti umani. Ho detto anche che se la condanna fosse stata confermata avrei lasciato il paese perché una persona condannata per aver discriminato suoi connazionali non ha diritto di continuare a vivere con loro. E’ chiaro che le forze profonde che operano in questo paese vogliono darmi una lezione. Così per aver detto alla stampa queste cose è stato aperto contro di me un nuovo procedimento penale. Mi hanno accusato di aver cercato di influenzare la corte d’appello. Mi vogliono isolare, far diventare un facile obiettivo. Mi processano perché, imputato, cerco di difendermi. Devo confessare che ho perso la mia fiducia nello stato turco e nella giustizia di questo paese. La magistratura non è indipendente, non difende i diritti del cittadino ma quelli dello stato. La condanna che mi è stata comminata non è stata pronunciata in nome del popolo turco, ma in nome dello stato turco. Abbiamo fatto ricorso. Il capo procuratore del processo di appello ha detto che non c’erano gli estremi per confermare la condanna. Ma il consiglio superiore ha deciso in maniera diversa. E anche in appello mi hanno condannato. E’ chiaro che mi vogliono isolare, indebolire, lasciare privo di difese. Hanno ottenuto quello che volevano. Oggi sono in tanti a pensare che Hrant Dink sia uno che insulta i turchi. Ogni giorno mi arrivano sull’email e per posta centinaia di lettere di odio e minacce. Quanto sono reali queste minacce? Non si può sapere. La vera e insopportabile minaccia, però, è la tortura psicologica cui mi sottopongo. Mi tormenta pensare che cosa la gente pensa di me. Ora sono molto conosciuto «Guarda, non è l’armeno nemico dei turchi?» Sono come un colombo che si guarda sempre intorno, incuriosito e impaurito. Che cosa diceva il ministro degli esteri Gul? E il ministro Cicek? «Suvvia, non esagerate con questo articolo 301. Quanta gente è finita in prigione?» Ma pagare è solo entrare in carcere? Signori ministri, sapete che cosa vuol dire imprigionare il corpo e la mente di un uomo nella paura di un colombo? In questo momento, così difficile anche per la mia famiglia, mi sento sospeso tra la morte e la vita. Ci sono giorni in cui penso di lasciare il mio paese, specie quando le minacce sono rivolte ai miei cari. Mi dicono che mi seguiranno se deciderò di andare, resteranno se deciderò di restare. Posso resistere, ma non posso mettere i miei cari a rischio. Ma se andiamo, dove andremo? In Armenia? Io che non tollero le ingiustizie, sarei forse più sicuro lì? L’Europa non fa per me. Tre giorni in occidente e il quarto voglio tornare a casa. Lasciare un inferno che brucia per un paradiso già confezionato? Dobbiamo cercare di trasformare l’inferno in paradiso. Spero che non saremo mai costretti ad andarcene. Farò ricorso alla Corte di Strasburgo. Quanto durerà questo processo non lo so. Ma mi conforta un po’ il fatto che fino al termine del processo potrò continuare a vivere in Turchia. Il 2007 sarà un anno molto difficile. Vecchi processi continueranno, nuovi processi si apriranno. Chissà quali ingiustizie mi troverò davanti. Ma nel mio cuore impaurito di colombo so che la gente di questo paese non mi toccherà. Posso vedere la mia anima nella titubanza di un colombo ma so che in questo paese la gente non osa toccare i colombi. I colombi vivono fra gli uomini. Impauriti, come me, ma come me liberi.


 

>> Foto di archivio della cerimonia del 26.01.2007 in memoria di Dink