Armenia: nidi di gru e melanzane ripiene (unimodno 26.07.19)

Il treno notturno Tbilisi– Yerevan è parcheggiato solerte al binario tre. Lo staff fuma in cerchio sul marciapiede reso umido dalle piogge. Attese. Il macchinista esamina con noncuranza il biglietto, mi indica distrattamente la cuccetta: uno spazio ridotto caratterizzato da quattro brandine in legno grezzo poste a castello, qualche coperta ed un tavolino pieghevole d’acciaio. Sbadigli e chiazze di marmellata sulle lenzuola. La locomotiva scricchiola, borbotta, esita e infine schizza via con un colpo assordante e metallico.  Macina chilometri attraverso rocce, polvere ed ampie vallate che si perdono al circolo massimo.

L’Armenia: una terra ancora in grado di regalare tracce autentiche di passato, quel misto di nostalgia e freschezza che rende un viaggio avventura. Lande secche di abili mercanti, crocevia del passato.  Situato tra Russia, Turchia, Asia, Medio Oriente ed Europa, il paese risente fortemente dell’influsso culturale dei paesi vicini pur mantenendo un’identità compatta. L’Armenia si è sviluppata maggiormente attraverso l’architettura, la scultura, la religione ma anche attraverso la musica, caratterizzata dal suo strumento più tipico, il Duduk. Simile ad un flauto, ma con un suono più struggente. Il proprietario di una piccola bottega vicina al centro di Vardenis, la scorsa estate, mi ha riferito che nel campo letterario assumono ancora grande importanza le fiabe, i proverbi ed i racconti popolari, tramandati di anno in anno da numerosi nuclei famigliari. È invece Avag, 63 anni, che ora, nella calura mattutina, narra un passo “altrove” districandosi tra venti parole in inglese e tanti schizzi abbozzati. “Il nome originario dell’Armenia era Haya, divenuto poi Hayastan, traducibile come <<la terra di Haik>>. Secondo la leggenda Haik era un gran condottiero e discendente di Noè, che stando alla tradizione cristiana è antenato di tutti gli armeni. Haik si stabilì ai piedi del monte Ararat, partì poi per assistere alla costruzione della Torre di Babele. Ritornando a casa sconfisse il re assiro Nimrod presso il lago di Van, nell’attuale Turchia” racconta l’uomo guardando lontano.

Il termine Armenia fu coniato dai popoli confinanti a partire dal nome della più potente tribù presente nel territorio. Gli armeni, appunto. Fonti precristiane riportano invece la derivazione dal termine Nairi, “terra dei fiumi”, che è l’antico nome della regione montuosa del paese. Le colline corrose dal vento caucasico ipnotizzano, cullano nell’uniformità del paesaggio. Malgrado la spiritualità galoppante, non vi è alcun fiume. Tum tututum. Il cielo è effimero come il tempo. Instancabile viaggiatore.

Dal finestrino si vedono tante cose. Case grezze in legno e mattoni. Oche e mucche nella stalla costruita a due passi dall’uscio domestico. Le carcasse dei pulmini sovietici abbandonate ai lati della strada, arenaticome mostri terrestri senza anima. Famiglie in viaggio a bordo di vecchie macchine scassate colme di angurie e meloni. Le ruote anteriorifaticano a toccare terra visto il peso complessivo della ciurma. Gli oleodotti neri, anch’essi, corrono via veloci nelle vallate. Le gallerie in cui i vagoni si infilano sono buchi artigianali scavati nella roccia nuda, priva di lampioni o luminarie. Ogni ripartenza è uno sferragliare di tubi, ingranaggi, rotaie cigolanti, mani frenetiche che salutano dalla banchina. Il mezzo partito ieri notte dal cuore della vicina Georgia è composto da otto carrozze, quattro per la prima classe e quattro per la seconda. Ad attendere i passeggeri, nell’ultima carrozza, ci sono nientedimeno che due cuoche burbere e schive, intente a mangiare un piatto di melanzane ripiene.

Nel centro del tavolo svetta una moca di caffè caldo e fumante.Quando gli spazisi riducono i convenevoli cadono lenti come piume. Svetlana, una russa dalle guance rosse, imbandisce la tavola di Khorovadz e Madzun, teneri Baklava a chiudere il lauto pasto. Sulla sinistra, gonfie nuvole e sporadici raggi di sole dipingono il cielo di uno spento color grigio verde, mentre il treno scivola via nella notte che velocemente cala. Il fascino dei viaggi lenti.  Superiamo cimiteri in marmo, fabbriche abbandonate invase dai nidi della gru: animale che qui assume un forte significato migratorio legato alla diaspora del popolo armeno. Gli scompartimenti sono inondati da canzoni tradizionali trasmesse da un paio di piccole casse acustiche in legno d’ebano. Il Caucaso saluta il treno notturno con un abbagliante tramonto sul mar Nero, che funge da sfondo ad un ponte diroccato su cui mucche e tori brucano la poca erba rimasta. Ad un passo dal confine turco un giovanissimo venditore di pannocchie si aggira tra i camion fumanti, spingendo un carretto illuminato da una lampada ad olio. Passato e presente. Vecchio e nuovo. 

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