Armin Wegner, il giusto tedesco che documentò il genocidio degli armeni (Corriere della Sera 13.06.16)

Nella risoluzione del parlamento di Berlino, che il due giugno ha riconosciuto e condannato il genocidio degli armeni, suscitando la irritata reazione turca con il ritiro dell’ambasciatore, ci sono alcuni passaggi che non sono stati messi in luce. Il clamore della crisi diplomatica con la Turchia ha infatti posto in secondo piano i brani della risoluzione in cui il Bundestag condanna fermamente la collaborazione tedesca con il governo dei “giovani turchi” di Ali Pascià, che tra il 1915 e il 1916, accusando la minoranza armena di collaborare con i nemici russi nelle zone di frontiera, attuarono quelle marce della morte che portarono allo sterminio di un milione e mezzo di armeni, vecchi uomini donne bambini innocenti condotti sino ai confini del deserto siriano e poi abbandonati al loro destino, a marciare verso il nulla con l’unica prospettiva di una morte certa. In questa situazione disperata, che ricorda l’Olocausto degli ebrei, non furono poche le madri che abbandonarono i propri figli ai bordi di una strada o in una letamaia, nella speranza che qualcuno li trovasse e li salvasse, o addirittura scelsero il suicidio assieme all’intera famiglia.
Questa storia sempre attuale e la risoluzione del parlamento tedesco richiamano alla mente la figura di Armin Wegner, un prussiano di nobile famiglia al quale Gabriele Nissim ha dedicato la biografia uscita da Mondadori “La lettera a Hitler” (pagine 304, euro 20). Come dice il titolo del libro, Armin Wegner, nel 1886 a Elberfeld e morto ultranovantenne nel 1978 a Roma, nel 1933 aveva avuto il coraggio di scrivere una lettera a Hitler in difesa degli ebrei. Un testo straordinario, che si può leggere in apertura del volume di Nissim, in cui lo scrittore tedesco spiegava al leader nazista per quale motivo fosse sbagliata la persecuzione degli ebrei. Un popolo che tanto aveva dato alla costruzione della civiltà germanica, non solo con le opere di filosofi, musicisti, poeti, ma con le imprese di grandi industriali e con la passione sinceramente patriottica di tanta gente comune.
Pochi mesi dopo aver scritto la lettera, ufficialmente per le sue posizioni pacifiste e “antipatriottiche”, Wegner ricevette la visita della polizia politica che lo torturò e poi lo rinchiuse in prigione.
Questo atto di coraggio non comune è valso ad Armin Wegner un posto tra i giusti dello Yad Vashem di Tel Aviv.
Ma c’è un altro episodio, altrettanto importante nella vita di questo giornalista scrittore filantropo, che risale agli anni della prima guerra mondiale e riguarda proprio lo sterminio degli armeni, documentato dal giovane Wegner attraverso una serie di reportage fotografici.
Sin da giovane di tendenze pacifiste, Armin Wegner aveva scelto di partecipare alla Grande Guerra come ufficiale di sanità. Venne destinato alla sesta armata del feldmaresciallo von der Goltz che avrebbe visto morire di tifo petecchiale: “Da dieci giorni il Feldmaresciallo è ammalato di febbre petecchiale. L’ho assistito per una settimana, sentivo le sue braccia tremanti sulle mie”. Anche Armin contrasse la febbre tifoidea ma ne uscì miracolosamente e questa esperienza gli diede la forza di non voltarsi dall’altra parte quando nella pianura della Cilicia si trovò davanti alla “fiumana di profughi armeni che dal passo del Tauro e dell’Amano si dirigevano verso il deserto in un percorso assurdo che non aveva nessuna meta”.
Il cuore gli si strinse ancora di più quando vide “ragazzini e ragazzine di ogni età, abbandonati, ridotti come animali, affamati, senza cibo o pane, privi del minimo aiuto umano, stretti l’uno all’altro e tremanti per il freddo della notte trattenevano nelle loro mani congelate un pezzo di legno nel vano tentativo di riscaldarsi. Piangevano a dirotto. I loro capelli gialli di urina scendevano sulla fronte, sui loro visi c’era uno strano fango di lacrime e sporcizia. I loro occhi di fanciulli erano come impenetrabili, scavati dal dolore e benché guardassero muti davanti a sé, sembravano portare sul volto il più amaro rimprovero verso il mondo. Era come se il destino avesse collocato all’ingresso di questo deserto tutti gli orrori della terra”. Armin Wegner non si limitò a descrivere in lettere come questa a un’amica suora l’orrore che vedeva, ma cominciò a scattare foto e a documentare per i posteri il genocidio armeno.
L’ordine per tutti i militari, turchi e tedeschi, ma anche per i civili, era di far finta di nulla, di ignorare quella fiumana dolente. L’interesse di Armin invece cresceva, al punto che cercò senza successo di adottare uno di quei bambini destinati a sicura morte. Le autorità si insospettirono e il giovane ufficiale tedesco venne degradato, chiamato a occuparsi delle mansioni più umili e pericolose, come l’assistenza ai profughi malati di colera.
Una volta rientrato in patria, Wegner non denunciò subito in pubblico l’orrore. Attese la fine della guerra e l’avvento della repubblica di Weimar per organizzare una serie di conferenza in cui utilizzava le sue foto e le immagini che aveva chiesto ad altri conoscenti per denunciare il massacro del popolo armeno. Il ritardo nella denuncia e l’uso anche di foto non sue, costarono ad Armin la doppia accusa di opportunismo e di plagio. In realtà lo scrittore prussiano stava svolgendo una straordinaria opera di informazione che nel 1968 gli avrebbe fruttato l’invito in Armenia e il titolo dell’Ordine di San Gregorio l’Illuminatore.
Armin Wegner nel 1921 aveva avuto il coraggio di testimoniare a difesa di Soghomon Tehlirian, l’armeno che aveva ucciso in un attentato a Berlino Mehmet Alì Pascià e, soprattutto, nel 1919 aveva scritto una lettera al presidente americano Woodrow Wilson in cui lo invitata a interessarsi del problema nazionale armeno.
Nella “Lettera a Hitler” Gabriele Nissim racconta anche la vita privata di Wegner: diventato scrittore di notevole successo, sposò la scrittrice e giornalista ebrea Lola Landau, da cui ebbe una figlia, Sibylle. Non volle rinunciare, nella Germania nazista, al suo essere tedesco di un altro tipo, figlio dell’Illuminismo. Un atto di orgoglio che gli costò l’allontanamento dalla moglie Lola che scelse dopo vari tentativi di resistenza alla barbarie avanzante di rifugiarsi con la figlia in Palestina. Wegner, anche per il fatto di aver sposato un’ebrea, da cui divorziò nel 1939, non rimase in Germania. Si rifugiò a Positano, dove incontrò una ceramista di origine polacca, cattolica ma di padre ebreo, Irene Kowaliska, da cui avrebbe avuto un figlio, Misha.
Le ascendenze ebraiche di Irene non passarono inosservate alla polizia politica fascista diventata sempre più occhiuta dopo l’emanazione delle leggi razziali nel 1938. La politica della razza stava mettendo di nuovo in pericolo la felicità famigliare di Armin, che si decise ancora una volta a mandare una delle sue lettere. Il 7 dicembre 1938 scrisse una lettera a Benito Mussolini, perorando la causa di Irene, sottolineandone le origini polacche, la religione cristiana e la bravura artistica. Era una lettera del tutto diversa da quella scritta a Hitler cinque anni prima. Si rivolgeva a Mussolini chiamandolo “onorevole, maestro e Fuhrer”. “Non solo per questa artista – scriveva Armin a Mussolini – ma anche per la mia ammirazione verso l’artigianato italiano, rivolgo a Lei queste mie righe”. Righe che evidentemente piacquero al capo del fascismo: Mussolini diede l’ordine di lasciare in pace la famiglia di quello scrittore tedesco.
Armin non abbandonò mai l’Italia, sino alla morte a Roma, nel 1978.
Dino Messina

Vai al sito