Seborga, un albero di Natale per l’Armenia (Rainews 07.12.25)

Alto 11 metri, allestito all’ingresso del paese, l’albero di Natale inaugurato oggi a Seborga accoglie centinaia di lettere  scritte dai bimbi del principato per le famiglie rifugiate nella capitale armena di Erevan. Un ponte di solidarietà che ha visto impegnate scuole, associazioni e istituzioni.

Nel  servizio video Nina Dobler Menegatto principessa di Seborga; 
Flavio Giorni, organizzatore

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Arrestato arcivescovo armeno per reati legati alla droga; la Chiesa denuncia un arresto politico (Entrevue.fr 05.12.25)

Un alto funzionario della Chiesa Apostolica Armena è stato posto venerdì in custodia cautelare per due mesi, accusato di aver piazzato droga sui manifestanti sette anni fa. Il suo avvocato ha definito l’accusa infondata, mentre la Chiesa Armena ha condannato fermamente l’arresto, definendolo politicamente motivato.

Questo arresto avviene in un contesto di crescenti tensioni tra la Chiesa e lo Stato armeno. Diversi membri del clero sono stati arrestati negli ultimi mesi, alimentando le accuse secondo cui il governo starebbe cercando di indebolire l’influenza religiosa nel Paese, mentre l’Armenia cerca di avanzare verso un accordo di pace con l’Azerbaigian. La Chiesa, istituzione centrale dell’identità nazionale, critica regolarmente alcune decisioni del governo, in particolare dopo la sconfitta nel Nagorno-Karabakh.

Secondo l’avvocato del prelato arrestato, le accuse derivano da manifestazioni avvenute sette anni fa, sollevando dubbi sull’opportunità e la tempistica del procedimento giudiziario. La Chiesa ha denunciato le accuse come “persecuzione politica” e un “grave precedente” per la libertà religiosa.

Il Catholicos Karekin II, guida spirituale di tutti gli armeni, ha ribadito la solidarietà della Chiesa con i suoi leader e ha denunciato un clima “preoccupante” di pressione statale. Questa vicenda scoppia mentre il Paese si prepara a importanti negoziati diplomatici e attraversa un periodo di fragilità politica, aggravato dalle divisioni interne e dalle conseguenze del conflitto con l’Azerbaigian.

Per molti osservatori, questi arresti consecutivi rischiano di alimentare ulteriormente la sfiducia tra le istituzioni religiose e il governo, in un contesto in cui la coesione nazionale appare essenziale per il futuro politico e di sicurezza dell’Armenia.

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Un ospedale per gli armeni con padre Mario Cuccarollo e l’aiuto di Antonia Arslan (Corriere della Sera 04.12.25)

Svetta in mezzo al nulla, a 2040 metri di altezza sui monti a nord dell’Armenia, al confine con la Georgia, l’ospedale Redemptoris Mater di Ashotsk nella provincia di Shirak, punto di riferimento di circa 13 mila persone. A gestire questo piccolo miracolo tra steppa e montagne, circondato solo da qualche villaggio di pastori, è padre Mario Cuccarollo, vicentino, religioso camilliano, da oltre 35 anni in Armenia. Fortemente voluto da papa Giovanni Paolo II nel 1988 dopo il terremoto che devastò l’Armenia, l’ospedale di Ashotsk è oggi l’unica struttura sanitaria per l’intera regione.

Quel gesto di solidarietà del Papa avrebbe avuto vita breve senza l’impegno di una persona che si trasferisse lì a occuparsi dell’ospedale. All’epoca le autorità sovietiche accettarono la donazione del Vaticano, a patto però che l’ospedale venisse costruito agli estremi confini dell’Armenia, in un territorio povero e isolato. La direzione fu affidata ai padri Camilliani, che mandarono a Ashotsk padre Mario Cuccarollo. Il vicentino Cuccarollo accettò subito. «Il mio superiore mi disse: dammi una risposta in dieci minuti, il telefono – racconta – costa. Dissi sì. E partii. Non sapevo nemmeno dove fosse l’Armenia… Quando arrivai non c’erano strade né acqua corrente. Solo neve e povertà».

Il baluardo

La forza della fede e l’aiuto di tante persone, oltre a Cei e Caritas che contribuiscono a finanziare le attività dell’ospedale, hanno trasformato il Redemptoris Mater di Ashotsk in una struttura pulita e accogliente di 5000 metri quadrati dove lavorano 140 persone, unico baluardo a fornire assistenza sanitaria in tutta la zona. Una presenza rassicurante resa possibile anche grazie all’aiuto dei fondi dell’8 per mille. Tra chi sostiene l’infaticabile padre Cuccarollo e l’ospedale della steppa c’è la scrittrice di origine armena Antonia Arslan, tra le voci più autorevoli nel denunciare il genocidio armeno. Il suo romanzo best-seller La masseria delle allodole (Rizzoli) ha venduto milioni di copie in tutto il mondo ed è arrivato anche al cinema, con l’omonimo film dei fratelli Taviani.

Antonia Arslan ogni anno organizza a Padova al centro culturale «La Casa di Cristallo» un mercatino armeno, il ricavato va tutto all’ospedale Redemptoris Mater di Ashotsk in Armenia. «Sostengo padre Cuccarollo dal 2006, sono capitata – fa sapere la scrittrice Arslan – quasi per caso in quel luogo sperduto tra le montagne, durante un viaggio in Armenia con i fratelli Taviani, per un sopralluogo prima di girare il film. Ci siamo trovati davanti un ospedale arroccato tra le montagne, unica speranza per i villaggi della regione, ma anche riferimento sociale e di aggregazione del territorio. Abbiamo passato lì una giornata, siamo stati testimoni dell’incredibile lavoro di padre Cuccarollo e dell’ospedale».

«Cerchiamo di prenderci cura delle persone. Chi viene qui – dice padre Cuccarollo, oggi ultraottantenne – trova una porta aperta, sempre. Il nostro è un lavoro silenzioso, ma costante. Il Vangelo si annuncia anche solo restando accanto a chi soffre».Negli anni si sono moltiplicati i servizi e l’ospedale attualmente ha anche una maternità attrezzata, il pronto soccorso, 24 ambulatori che raggiungono i villaggi con piccoli presidi medici. Una sfida e una conquista in questa zona poverissima, dove il lavoro nei pascoli permette appena la sussistenza. Cura medica e attenzione umana, gli obiettivi di padre Mario.

Sacrificio e fede

All’inizio i religiosi erano tre, ma nel tempo è rimasto da solo a portare avanti questa missione: impegno quotidiano, sacrificio e fede, in una realtà dura e isolata. Il paesaggio a Ashotsk per gran parte dell’anno resta coperto di ghiaccio e neve, la temperatura in inverno scende a meno quaranta gradi.
La casa dove vive il sacerdote è la stessa del primo giorno in cui è arrivato, 35 anni fa, uno dei container utilizzati dagli operai che si occuparono della costruzione dell’ospedale. Sulla sua storia e sull’attività dell’ospedale è stato girato un docufilm, «Padre Mario alle periferie dell’Armenia».

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In Turchia una giornalista a processo per un articolo sul genocidio armeno, mentre il Primo Ministro armeno rinuncia a chiederne il riconoscimento (Korazym 04.12.25)

[Korazym.org/Blog dell’Editore, 04.12.2025 – Vik van Brantegem] – La giornalista turco Tuğçe Yılmaz, redattrice del quotidiano indipendente Bianet, è sotto processo dopo aver pubblicato un articolo intitolato Parlano i giovani armeni in Turchia: 109 anni di lutto continuo, che si concentra su come i giovani Armeni in Turchia percepiscono la propria identità, la storia della loro comunità e l’impatto duraturo del genocidio armeno sulle loro famiglie. In seguito alla pubblicazione, le autorità turche hanno avviato un’indagine penale ai sensi dell’articolo 301 del Codice penale turco, una disposizione spesso utilizzata per punire coloro che discutono del genocidio armeno o criticano le istituzioni statali.

Yılmaz è accusata di “aver insultato la nazione turca, la Repubblica di Turchia, gli organi e le istituzioni statali”. Il caso dimostra le continue restrizioni imposte ai giornalisti che affrontano questioni armene o contestano le narrazioni ufficiali in Turchia. La copertura mediatica della vita, dell’identità e della storia armena continua a incontrare seri ostacoli in Turchia. Chi scrive del genocidio armeno o delle discriminazioni subite dalle comunità armene diventa spesso bersaglio di gruppi nazionalisti. Anche un’informazione neutrale può innescare azioni legali. In Turchia, affermare fatti storici rimane un reato.

Allo stesso tempo, il governo del Primo Ministro armeno Nikol Pashinyan sta abbandonando la ferma posizione, che il Paese ha mantenuto a lungo sul riconoscimento del genocidio, incluso il rifiuto nel 2010 dei Protocolli di Zurigo negoziati da Serzh Sargsyan dopo che la Turchia aveva chiesto concessioni sul riconoscimento del genocidio armeno. Le dichiarazioni di Pashinyan illustrano questo cambiamento. In Svizzera, si è chiesto perché il riconoscimento abbia acquisito importanza solo negli anni Cinquanta, suggerendo una tempistica politica, piuttosto che lo sterminio documentato di un popolo, e dipingendo la questione come una questione di percezione armena. La sua successiva precisazione non ha modificato il messaggio, soprattutto perché le commemorazioni ufficiali spesso evitano di nominare i responsabili.

Il suo team ha rafforzato questa direzione in modo coerente. Il Ministro degli Esteri, Ararat Mirzoyan, ha affermato che il riconoscimento internazionale non è una priorità del Ministero, una posizione condivisa dal Deputato Arsen Torosyan, che ha sostenuto che il riconoscimento non dovrebbe essere affatto una priorità di politica estera. La stessa minimizzazione continua con il Deputato Vigen Khachatryan, che ha affermato che il genocidio appartiene al passato; con l’Inviato per le relazioni con la Turchia, il Deputato Ruben Rubinyan, che insiste sul fatto che le questioni storiche non dovrebbero ostacolare la normalizzazione con la Turchia, nonostante la Turchia abbia bloccato l’Armenia proprio per queste questioni storiche; con il Deputato Andranik Kocharyan, figura di spicco del partito al governo, si chiede se la cifra accettata di un milione e mezzo di vittime potesse essere maggiore o minore, usando un linguaggio che rispecchia le consuete tattiche di minimizzazione a lungo impiegate dai negazionisti.

Le conseguenze di questo cambiamento sono diventate visibili in parlamento, dove la maggioranza di Pashinyan ha respinto un disegno di legge che avrebbe criminalizzato la negazione e la giustificazione del genocidio.

Proprio mentre la Turchia persegue i giornalisti per aver riconosciuto la storia, il governo armeno si è rifiutato di difendere quella stessa verità nel proprio quadro giuridico.

La giornalista turca Tuğçe Yılmaz ha affermato che è stata accusata in seguito a una denuncia presentata da un nazionalista radicale che si opponeva a qualsiasi copertura mediatica che riguardasse il genocidio armeno. Ha osservato che l’indagine è stata avviata non a causa del contenuto delle interviste in sé, ma perché qualcuno si è opposto alla discussione pubblica dell’argomento. Ha affermato che il caso contro di lei è stato aperto “sulla base del programma di una persona radicale e nazionalista” che l’ha presa di mira per aver affrontato il genocidio armeno nei suoi reportage.

L’articolo 301 è stato uno degli strumenti giuridici più controversi della Turchia. Criminalizza “l’insulto alla nazione turca”, un’espressione spesso interpretata in senso lato dai pubblici ministeri. Nel corso degli anni, è stato utilizzato per mettere a tacere scrittori, storici e giornalisti che fanno riferimento al genocidio armeno o criticano le politiche statali.

Il caso più noto riguarda Hrant Dink, il giornalista armeno-turco che ha dovuto affrontare ripetuti processi ai sensi dell’articolo 301 per aver parlato apertamente del genocidio armeno. È stato assassinato nel 2007 dopo anni di pressioni legali e campagne d’odio. Anche altri scrittori, tra cui il Premio Nobel Orhan Pamuk, sono stati perseguiti ai sensi dello stesso articolo per aver riconosciuto il genocidio.

Sebbene la Turchia abbia rivisto l’articolo 301 nel 2008, richiedendo l’approvazione del Ministero della Giustizia prima di aprire un caso, rimane uno strumento utilizzato per scoraggiare il dibattito aperto. Le associazioni per i diritti umani sostengono da tempo che la legge è incompatibile con la libertà di parola e crea un clima di paura per i giornalisti che si occupano di storia armena o di questioni relative alle minoranze.

Le discussioni che coinvolgono i giovani Armeni in Turchia sono particolarmente delicate, perché le loro interviste riflettono spesso il retaggio persistente di traumi, perdite culturali e la pressione per evitare di discutere apertamente della loro storia. Articoli come quello scritto da Yılmaz hanno mostrato queste realtà, che alcuni circoli nazionalisti considerano una sfida alle narrazioni ufficiali.

Questo caso ha attirato l’attenzione dei difensori della libertà di stampa, che affermano che l’accusa riflette sforzi più ampi per limitare il dibattito su questioni storiche e relative alle minoranze. Anche il lungo rinvio della prossima udienza, fissata per il 21 aprile 2026, ha sollevato preoccupazioni, poiché i processi prolungati sono spesso utilizzati come metodo di pressione contro i giornalisti.

Yılmaz sostiene che il suo lavoro abbia semplicemente dato spazio ai giovani Armeni per parlare delle loro esperienze, qualcosa che, a suo avviso, non dovrebbe mai essere trattato come un reato. Yılmaz, che ha descritto la causa intentata contro di lei a causa del suo reportage come “un’intimidazione contro il giornalismo”, ha dichiarato: “Ho sempre cercato di essere la voce di coloro le cui voci non vengono ascoltate, comprese persone e animali”.

All’udienza presso il Secondo Tribunale Penale di Primo Grado di Istanbul, Yılmaz è stata rappresentata dagli Avvocati Deniz Yazgan; Batıkan Erkoç, dell’Associazione degli Studi di Comunicazione e Diritto; e Elif Ergin, dell’Unione dei Giornalisti Turchi (TGS).

All’udienza hanno partecipato giornalisti, esponenti della società civile e rappresentanti di organizzazioni per la libertà di espressione. Tra i presenti, Prof. Onur Hamzaoğlu, il rappresentante turco di Reporter Senza Frontiere Erol Önderoğlu, e il rappresentante turco del Comitato per la Protezione dei Giornalisti Özgür Öğret.

Nella sua difesa, Yılmaz ha dichiarato: “Il motivo per cui sono qui oggi è perché, come giornalista, ho esercitato la mia libertà di parola legalmente tutelata, solo per essere stata segnalata al Centro di Comunicazione Presidenziale” (CIMER). Ha suggerito che la denuncia fosse stata probabilmente presentata da una persona che si sentiva a disagio con la coesistenza di diversi gruppi sociali, forse con tendenze razziste, a causa del controverso argomento del genocidio armeno. Yılmaz ha anche discusso la tempistica del caso, osservando che il termine legale per presentare una causa era scaduto prima che il caso venisse portato in tribunale. Ha descritto le circostanze della sua detenzione, affermando: “Mentre tornavo a casa, sono stata fermata dalla polizia e ho trascorso una notte in stato di fermo con l’accusa di aver tentato la fuga. In seguito ho scoperto di essere monitorata da un sistema di riconoscimento facciale, come in un film poliziesco”.

Yılmaz ha sottolineato l’impatto dei colloqui di pace in corso con l’Armenia, sottolineando che il Primo Ministro armeno Nikol Pashinyan aveva recentemente visitato la Turchia su invito del Presidente e che erano in corso discussioni sull’apertura dei valichi di frontiera e sulla ripresa degli scambi commerciali tra i due Paesi.

Ha continuato: “Voglio chiarire che ciò che viene giudicato qui è la mia professione, che svolgo con entusiasmo e curiosità dal 2015. Poiché cerco semplicemente di migliorare la mia professione, credo che non ci siano basi legali per un’azione penale nei miei confronti ai sensi di un articolo così vago e controverso”. Riferendosi all’accusa rivoltale, Yılmaz ha dichiarato: “Non ho insultato nessuno. Al contrario, ho sempre ascoltato coloro che in questa società si sentono emarginati”. Ha concluso il suo intervento ricordando Hrant Dink, il giornalista che fu anche lui processato ai sensi dell’articolo 301 e successivamente assassinato. Yılmaz ha chiesto la sua assoluzione.

Successivamente, ha preso la parola l’Avvocato Deniz Yazgan. Ha iniziato citando un esempio riguardante le denunce del CİMER. “Se il mio vicino abusasse di sua moglie e lo segnalassi in forma anonima al CİMER, mi verrebbe risposto: ‘Questa è responsabilità della Procura. Per favore, presentate una denuncia alla Procura’”. Ha aggiunto: “Non posso denunciare la violenza di un uomo tramite il CİMER, ma con il concetto di ‘genocidio’, un termine che è stato dichiarato non costitutivo di reato attraverso innumerevoli assoluzioni e sentenze della Corte Costituzionale e della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, si possono ancora avviare indagini e intentare cause legali. Questo, per i giornalisti, equivale a una forma di persecuzione giudiziaria volta a intimidirli”.

Yazgan ha inoltre criticato i procuratori per la loro conoscenza della legge, sottolineando di essere a conoscenza delle restrizioni agli arresti e che la legge vieta di raccogliere dichiarazioni due giorni dopo un’incriminazione. “L’articolo 2 della Costituzione è chiaro: la Repubblica di Turchia è uno Stato di diritto. Questa continua serie di violazioni legali non sono in linea con l’ordine costituzionale. In questo Paese sono già stati pagati costi elevati a causa dell’articolo 301. Non vogliamo che vengano aggiunti nuovi costi”, ha affermato, facendo riferimento a decisioni storiche come Dink contro Turchia e Akçam contro Turchia.

L’avvocato Batıkan Erkoç ha sottolineato che il caso deve essere archiviato, perché è scaduto termine legale per l’avvio di un’azione legale. Ha spiegato che la tempistica del caso si basava su un rapporto della polizia, che non costituiva una base giuridica valida per l’avvio di un procedimento. Inoltre, Erkoç ha sottolineato che la petizione presentato tramite il CİMER era giuridicamente invalido. “La legge richiede una petizione con informazioni identificabili e una denuncia anonimo non può essere accettato. La legge specifica come devono essere redatte le petizioni, includendo nome, cognome, richiesta e indirizzo della persona che le presenta”, ha affermato.

Tuttavia, il giudice non ha accolto le eccezioni presentate dalla difesa e ha inviato il pubblico ministero di preparare un parere definitivo sul caso. Il pubblico ministero ha chiesto più tempo per la preparazione e il tribunale ha accolto la richiesta.

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Armenia e Azerbaijan: una rara occasione per la pace (Osservatorio Balcani e Caucaso 04.12.25)

Dall’incontro dell’8 agosto tra i leader di Armenia e Azerbaijan, Nikol Pashinyan e Ilham Aliyev, alla Casa Bianca insieme al presidente degli Stati Uniti Donald Trump, non passa settimana che non si verifichino sviluppi nei rapporti tra i due vicini, un tempo in guerra. Nonostante il testo di un accordo in diciassette punti per normalizzare le relazioni dopo oltre trent’anni di conflitto sia stato solo siglato in attesa di una firma ufficiale, lo slancio sembra evolvere nella giusta direzione.

L’unica questione irrisolta resta la modifica della Costituzione armena per rimuovere un controverso preambolo che rivendica un territorio all’interno dell’Azerbaijan, anche se l’attuale governo di Yerevan respinge tale interpretazione. Tuttavia, Baku teme che i futuri governi possano invocare quel preambolo, che fa riferimento alla Dichiarazione d’indipendenza del 1990.

Pashinyan, sostanzialmente favorevole alla riforma costituzionale, afferma che gli emendamenti proposti saranno sottoposti al voto popolare attraverso un referendum da convocare dopo le elezioni parlamentari del prossimo anno.

Ci sono anche altre questioni di grande importanza per creare una pace duratura, questioni che però non vengono affrontare nel cosiddetto trattato “sulla pace e l’istituzione di relazioni interstatali tra la Repubblica di Armenia e la Repubblica di Azerbaijan”, finalizzato a marzo. Secondo Pashinyan, da ormai più di ventidue mesi non si è verificato un solo incidente con scambio di colpi d’arma da fuoco transfrontalieri. Si tratta di uno sviluppo senza precedenti nella storia travagliata delle relazioni tra Armenia e Azerbaijan, che potrebbe creare un ambiente generale favorevole alla pace. Si moltiplicano anche gli incontri tra i cittadini armeni e azerbaijani.

Se in passato gli incontri, promossi da organizzazioni internazionali, si sono tenuti all’estero, ora vengono perlopiù organizzati bilateralmente, svolgendosi nelle due capitali, Yerevan e Baku. Le organizzazioni non governative locali e straniere che in passato hanno organizzato incontri pubblici e conferenze a Tbilisi continuano a farlo, anche se c’è chi lo nega. Tuttavia, una recente iniziativa bilaterale che ha coinvolto analisti regionali e rappresentanti della società civile in visita a Yerevan e Baku è senza precedenti.

A settembre, il co-direttore di un think tank azerbaijano ha partecipato ad un seminario organizzato dall’Assemblea parlamentare della NATO a Yerevan. Eventi analoghi sono stati registrati anche prima della guerra dei quarantaquattro giorni nel 2020. A ottobre, cinque cittadini azerbaijani, rappresentanti di alcuni think tank e media, sono volati direttamente a Yerevan da Baku con un aereo dell’Azerbaijan Airlines, per la prima volta in quattordici anni, per incontrare cinque colleghi della società civile armena. A novembre, questi ultimi si sono recati a Baku con un volo diretto della compagnia Fly One Armenia per proseguire il dialogo.

C’è chi ritiene che questo esempio virtuoso della cosiddetta diplomazia parallela possa fornire suggerimenti e feedback al processo ufficiale tra i due governi. Entrambi gli eventi hanno incluso anche brevi incontri con due alti funzionari governativi, nello specifico con Armen Grigoryan, segretario del Consiglio di sicurezza armeno, a Yerevan, e con Hikmet Hajiyev, consigliere del presidente azerbaijano, a Baku. L’iniziativa è stata denominata “Il ponte della pace” e in futuro dovrebbe coinvolgere le comunità di confine e i media. Gli incontri si sono svolti senza incidenti.

Questo però non significa che non ci sia stata alcuna opposizione. Prima della partenza della delegazione armena per Baku, i media di Yerevan hanno contestato il costo dei voli charter. I media armeni hanno criticato anche la partecipazione di due giornalisti e due analisti azerbaijani ad un altro seminario a Yerevan. Il governo armeno ha coperto le spese del pernottamento, esattamente come ha fatto il governo azerbaijano per i cinque delegati armeni alla fine del mese scorso. Parliamo però di cifre irrisorie rispetto alle decine di milioni di euro che ad oggi l’Unione europea ha messo a disposizione dei due paesi.

Dal 2012 al 2015, il Partenariato europeo per la risoluzione pacifica del conflitto in Nagorno-Karabakh (EPNK), promosso dall’UE, ha ricevuto 5,8 milioni di euro per progetti di cui la popolazione dei due paesi e persino alcuni ambasciatori occidentali non hanno mai saputo nulla. L’EPNK è stato operativo dal 2010 al 2019. Il processo attualmente in corso è più trasparente ed evidentemente sta dando i suoi frutti.

A novembre, le delegazioni di Armenia e Azerbaijan si sono incontrate a margine di un evento dell’Assemblea parlamentare dell’OSCE a Istanbul. Si prevedono altri incontri di questo tipo tra l’Assemblea nazionale di Yerevan e quella di Baku. Anche Alen Simonyan, presidente del parlamento armeno, ha dichiarato di voler visitare Baku. Sempre a novembre, le commissioni armena e azerbaijana per la delimitazione e demarcazione dei confini si sono incontrate a Gabala, in Azerbaijan. Il prossimo incontro si dovrebbe tenere in una città armena.

Ad ogni modo, i contatti – formali e informali – tra i rappresentanti dei due paesi testimoniano l’esistenza di una certa volontà politica di normalizzare le relazioni per preparare le popolazioni ad un eventuale accordo di pace. Non è però chiaro come le società stesse percepiscano questo processo, soprattutto considerando la contrarietà delle forze di opposizione in Armenia e degli ambienti dissidenti azerbaijani, attivi principalmente al di fuori della regione. Fino a poco tempo fa, sono stati proprio questi soggetti a ricevere gran parte dei finanziamenti dell’UE per incontri segreti tenuti all’estero.

Molti in Armenia semplicemente non credono che la pace sia vicina, data la recente storia di continui fallimenti. Forse per questo le ong continuano a portare avanti le loro attività. A novembre, quarantadue giovani provenienti da Armenia e Azerbaijan si sono incontrati a Tbilisi per sviluppare quella che definiscono una visione di pace e dialogo tra i due paesi. L’incontro è stato facilitato dalla ong LINKS Europe con sede all’Aja, che in passato faceva parte dell’EPNK. Si è trattato di un evento aperto e trasparente, con la partecipazione di alcuni ambasciatori occidentali e della Missione dell’Unione europea in Armenia (EUMA). C’è però ancora molto lavoro da fare.

In un sondaggio d’opinione condotto nel giugno di quest’anno dall’International Republican Institute (IRI) il 47% degli armeni si è detto favorevole ad un accordo di pace con l’Azerbaijan, il 10% è rimasto indeciso in attesa del testo del trattato, mentre circa il 40% si è opposto a qualsiasi accordo. Va sottolineato però che il sondaggio è stato effettuato prima della pubblicazione del testo completo dell’accordo, siglato e reso pubblico solo dopo la Dichiarazione di Washington dell’8 agosto.

Nel 2023, un sondaggio condotto in Azerbaijan ha rilevato che il 78,5% degli intervistati era a favore di un accordo di pace con l’Armenia. Da allora i dati non sono più stati aggiornati.

A sei mesi dalle elezioni parlamentari in Armenia, previste per il prossimo 7 giugno, tali sondaggi sono importanti, non solo per il futuro politico di Pashinyan, ma per ogni eventuale accordo di pace tra Armenia e Azerbaijan. In questo contesto, i governi e la società civile svolgono un ruolo fondamentale. I dettagli di qualsiasi trattato di pace e dei relativi accordi devono essere spiegati in modo approfondito ai cittadini di entrambi i paesi.

Inoltre, i risultati dell’attuale processo di normalizzazione devono essere tangibili e percepiti da tutti. Si può affermare che, per ora, la situazione sta evolvendo in questa direzione.

Il mese scorso, Baku ha revocato l’embargo sul transito di merci da e verso l’Armenia attraverso il territorio azerbaijano. Il grano russo e kazako è stato il primo prodotto a beneficiare della decisione. È probabile che sviluppi analoghi si verifichino nei prossimi mesi. Da notare che il prossimo vertice della Comunità politica europea (CPE) si terrà a Yerevan nel maggio del 2026, in concomitanza con l’inizio ufficiale della campagna elettorale in Armenia. Il processo di normalizzazione, con ogni probabilità, sarà tra i principali temi in agenda.

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Politica estera L’India soccorre l’Armenia (Iralia Oggi, 03.12.25)

L’India sta espandendo i legami militari con l’Armenia per rafforzare la propria influenza nella regione del Caucaso, dato che gli equilibri di potere creatisi nell’area ne mettono a rischio la sicurezza. I due paesi sono sul punto di stipulare un memorandum d’intesa nel settore della difesa per un valore compreso tra 3,5 e 4 miliardi di euro. Il fulcro di questo accordo sarà rivolto alla modernizzazione dei sistemi di difesa aerea, dei complessi missilistici e del potenziale di artiglieria dell’Armenia. Inoltre, potrebbe prevedere la vendita da parte dell’India di complessi missilistici terra-aria di nuova generazione Akash-Ng, caccia da guerra e missili ipersonici BrahMos.

Le motivazioni dell’India nel Caucaso

Per la superpotenza asiatica è fondamentale accreditarsi quale partner credibile a cui l’Armenia possa affidarsi per meglio attrezzare la sua difesa. Le ragioni sono molteplici: dopo la firma, avvenuta nell’agosto 2025, di un accordo di tregua duratura tra Azerbaigian ed Armenia, mediato dagli Stati Uniti, si è di fatto certificata la paternità degli azeri sul Nagorno Karabakh (un territorio parte, secondo il diritto internazionale, dell’Azerbaigian ma storicamente abitato da oltre 300mila armeni) e confermata a maggiore importanza di quest’ultimi sullo scacchiere internazionale rispetto all’Armenia.

Il dislivello di potere si è generato grazie alle maggiori capacità militari che gli azeri hanno dimostrato durante ogni conflitto combattuto con il proprio avversario fino ad imporgli la firma di un patto di non belligeranza in cui ha dovuto accettare considerevoli concessioni. Per l’India lo scenario descritto rappresenta un pericolo, dato che l’Azerbaigian sta acquisendo armamenti sofisticati dal Pakistan, con cui ha stretto ottimi rapporti diplomatici.

Quest’

La minaccia del Pakistan e l’indebolimento della Russia

Quest’ultimo rappresenta la maggiore minaccia esistente per la sicurezza indiana ed è dotato anch’esso di armamenti nucleari, sebbene esclusivamente tattici e non strategici. Gli accordi che con l’Azerbaigian ha sviluppato nel settore della difesa hanno visto il culmine nel mese di febbraio 2025: sono stati annunciati investimenti militari reciproci tra i due Stati per una cifra superiore ai 2 miliardi di euro.

L’India è consapevole che dietro la diplomazia apparentemente concentrata solo sulla cooperazione militare c’è la volontà pakistana di penetrare nella ridefinizione delle sfere di influenza del Caucaso. Questa sta avvenendo a seguito dell’indebolimento della Russia: complice le difficoltà economiche e militari riscontrate nel corso della guerra in Ucraina non è intervenuta in difesa dello storico alleato armeno quando lo stesso è stato attaccato dagli azeri, umiliando la propria immagine agli occhi degli altri attori locali.

Il ruolo della Turchia e la posizione dell’Armenia

Il vuoto di potere da questa debolezza scaturito è stato velocemente colmato dalla Turchia. Ovvero, l’attore predominante nella regione e che vanta il più stretto legame con l’Azerbaigian sull’intero scacchiere internazionale, al punto da ricoprirne il ruolo di protettore. Sono proprio i turchi ad aver benedetto l’espansione della cooperazione militare tra l’alleato di ferro ed il Pakistan, evento che ha incriminato pure i rapporti tra il premier indiano Narendra Modi ed il presidente turco Recep Tayyip Erdogan. turco Recep Tayyip Erdogan. Nel panorama diplomatico descritto, l’Armenia resta un attore nettamente più debole e relegato ai margini della politica caucasica.

L’opportunità per l’India e il rafforzamento della presenza

Un fattore che rappresenta un’opportunità per l’India: sviluppando i legami diplomatici e la cooperazione con gli armeni, mira ad arrestare l’espansione di influenza dei suoi avversari nella regione.

Nonostante gli accordi sulla vendita di armamenti con l’Armenia proseguano da anni, recentemente i termini degli stessi sono stati resi pubblici e commentati con soddisfazione dalle istituzioni indiane. Quest’atteggiamento segnala la volontà di mostrare agli altri attori che hanno interessi nel Caucaso, Pakistan su tutti, l’obiettivo di rafforzare la propria presenza nella regione. (riproduzione riservata)

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Il quartiere armeno di Trieste? Un mito senza fondamento (IlPiccolo 03.12.25)

Un ordine di monaci era presente in città ma non costituì una comunità etnica. A sfatare questo mito in un libro è Giorgio Tumanischvili

Paolo Marcolin
03 dicembre 2025
3′ di lettura

 

La chiesa armena di via Giustinelli
La chiesa armena di via Giustinelli
Da sedici anni Trieste convive con un mito urbano: il cosiddetto quartiere armeno, sul colle di San Vito, dove avrebbe vissuto la comunità armena di Trieste. Una definizione affascinante, suggestiva, ma priva di radici storiche. Di fatto, nessuno aveva mai parlato di “borgo armeno” o “quartiere armeno” prima del marzo 2008, quando ad introdurre per la prima volta l’espressione fu la mostra organizzata dal comune di Trieste “Armeni a Trieste tra Settecento e Novecento”, suggerendo che l’area tra via Tigor, via Giustinelli e via Ciamician avesse in passato una «decisa connotazione armena».

Una tesi rilanciata addirittura nel 2019, quando nel catalogo bilingue della mostra aperta a Yerevan nel 2019 col titolo “La forma del colore: dal Rinascimento al Rococò. Capolavori dalla Galleria nazionale d’arte antica di Trieste” si legge: «A Trieste si sviluppa il cosiddetto borgo armeno, con case e giardini».

Con il compito di sfatare questo mito Giorgio Tumanischvili, un signore che abita da sempre in via Giustinelli e che si è sentito chiamare in causa, anche per motivi di discendenza famigliare, dalla costruzione di quella che per lui è una leggenda metropolitana. L’esito del suo lavoro è il libro “Il borgo armeno che non c’è” (Luglio editore, 117 pagg., 15 euro).

Questa idea, o meglio questo fattoide, come lo chiama Tumanischvili, nacque dall’unione affrettata di tre elementi reali ma insufficienti a definire un quartiere etnico: la presenza dei Padri Mechitaristi tra il 1773 e il 1810; la denominazione ottocentesca di Contrada degli Armeni, assegnata in ricordo dei monaci e non di una comunità; e il ritorno dei Mechitaristi nel 1846, culminato nella costruzione della chiesa di via Giustinelli. Tuttavia, nessuno di questi fatti indica l’esistenza di un insediamento armeno strutturato. I Mechitaristi erano un piccolo ordine religioso, non un centro di aggregazione civile. Nel Settecento, prima dell’arrivo dei primi monaci espulsi da Venezia nel 1773, gli armeni in città erano appena quattro. Anche Giacomo Casanova, che trascorse a Trieste una parte del suo esilio, alloggiato alla Locanda Grande dal 15 novembre 1772, ci ha lasciato un’idea di quanti armeni ci fossero in città. In una lettera del 20 maggio 1774 scrive che, per effetto della venuta dei monaci ribelli: «Questi secolari sono finora nel numero di trenta, mentre nell’anno passato non ve n’erano che quattro».

Una testimonianza autorevole arriva perfino da un articolo del 1889 della rivista armena Handes Amsorya: «A Trieste non ci sono mai stati tanti Armeni da poter costituire una comunità». Un individuo emblematico, Giorgio Giustinelli, di origine armena, rimase a Trieste fino alla morte nel 1850 e vendette parte dei suoi terreni ai Mechitaristi. Neppure nel 1913, consultando la Guida Generale di Trieste, emerge una presenza compatta: nelle vie considerate “armene” viveva un solo armeno, il gasista Garabet Mardicossian. Persino le case di proprietà dei Mechitaristi risultavano abitate da italiani, tedeschi e slavi.

L’“armenità” del rione, di fatto, si riduceva alla sola chiesa. Per Tumanischvili, il “borgo armeno” nasce dunque da una suggestione recente, che progressivamente si è trasformata in verità accettata. Dopo il 2008, l’idea è stata ripresa da istituzioni, mostre internazionali e persino dall’Ambasciata d’Italia in Georgia. Dal 2021 la Soprintendenza ha consacrato il concetto di “colle armeno”, rendendo ufficiale un fattoide che non trova riscontro nella documentazione storica”. Il risultato, conclude l’autore, è la costruzione di un frammento identitario immaginato, nato per evocazione culturale più che per realtà demografica. Un “borgo armeno che non c’è”, come l’isola di Peter Pan: seducente, evocativo, ma mai esistito davvero. —

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L’Armenia ha 3 milioni di abitanti e 2 unicorni, un caso? Non proprio, vi portiamo nel paese più innovativo del Caucaso (Wired 03.12.25)

L’ecosistema innovativo armeno conta quasi 150 startup e investimenti da ogni parte del mondo, convivendo con il paradosso della diaspora che alimenta (ma svuota) il Paese
Piazza della Repubblica Erevan Armenia
Piazza della Repubblica, Erevan, ArmeniaBob Krist via Getty Images

Erevan, Armenia – Meno di 3 milioni di abitanti e 144 startup attive, un ecosistema innovativo che cresce del 20% ogni anno e 60mila persone che ci lavorano, quasi la metà di genere femminile. Benvenuti in Armenia, il paese più innovativo dell’area caucasica. La definizione è del Global startup ecosystem index che nel 2022 lo poneva anche davanti a Georgia e Azerbaigian.

Come si posiziona l’Armenia

Nonostante le quattro posizioni conquistate anche nel Global innovation index del 2025, questo Paese non ha ancora superato alcune fragilità strutturali come la corruzione percepita (Transparency International le assegna un punteggio di 47/100 nel Corruption perceptions index 2024) e un sistema bancario digitale inadeguato alle esigenze delle startup.

Abbiamo visitato Erevan, cuore pulsante dell’ecosistema armeno, città popolata da un’alta percentuale di giovani, di cartelli che promuovono tecnologie o viaggi turistici e di università russe, francesi e statunitensi. L’unico elemento poco dinamico è il traffico: la metropolitana iniziata dai russi è ferma a 10 stazioni mentre l’area abitata si espande di giorno in giorno. “Motivi geologici, geopolitici ed economici” accennano gli abitanti, ma intanto i lavori sopra il livello del suolo proseguono, e le risorse energetiche e umane locali alimentano sempre di più i sogni di investitori, big tech e startupper.

Digitec, l’esposizione che ha messo al centro le startup

Per cogliere la natura dell’ecosistema che l’Armenia ha silenziosamente costruito è bastato trascorrere qualche ora a Digitec, l’esposizione armena dedicata alla nuove tecnologie. Quest’anno ha compiuto vent’anni offrendo un’ampia passerella di startup in diverse fasi di sviluppo. La maggior parte di quelle armene sono registrate nel Delaware, negli Stati Uniti, per via del suo sistema giuridico favorevole e dei servizi digitali più efficienti. Malgrado ciò, è difficile interloquire con i founder in lingua inglese. Anche i volantini sono scritti in armeno. Anche se simbolo di identità nazionale, le 39 lettere dell’alfabeto locale diventano una barriera importante per la curiosità degli investitori stranieri giunti qui per trovare opportunità

E ci sono pure due unicorni

Tra le startup più in vista c’è MyTour, una piattaforma “per prenotare viaggi in modo più economico e facile di Booking.com, in Armenia e altrove” spiega il suo team. Affianco c’è Anytime che offre massaggi personalizzati on-demand e li porta anche nelle aziende raccogliendo e gestendo tutto tramite app. E poi c’è Elabs che vuole rivoluzionare il settore dell’energia solare, gestendo meglio chi installa i pannelli. Tra le altre startup abbondano quelle marketing o di ottimizzazione dei processi, l’intelligenza artificiale è presente ma non come la panacea di tutti i mali, spuntano droni cinesi e associazioni locali per insegnare coding e robotica nelle scuole e perfino un’app per educare i giovani armeni a lavarsi i denti, seguendo i consigli di una fatina. Nella folla di idee e imprenditori, studenti e investitori, compaiono anche i due unicorni nazionaliServiceTitan e Picsart. La prima ha raccolto 1,7 miliardi di dollari, la seconda 195 milioni, entrambe hanno un duplice compito: mostrare agli investitori che l’Armenia ci sa fare, e ai giovani cittadini che in Armenia si può fare.

L’Albero della Pace di Seborga abbraccia l’Italia e l’Armenia (La Stampa 03.12.25)

L’Albero della Pace di Seborga abbraccia l’Italia e l’Armenia

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L’albero in piazza a Seborga 

Domenica, alle 10,30, nella piazza di Seborga sarà acceso un albero che è anche un simbolo. «È un abbraccio, un ponte tra bambini lontani ma uguali. Un albero vivo, con le radici, alto 11 metri, probabilmente quello ripiantabile più alto in Liguria – spiegano gli organizzatori – Non verrà tagliato: lo custodiremo. E non consumerà nemmeno un watt di corrente elettrica: tutte le luci sono solari, pulite, senza dispersioni. Rappresenta i colori della bandiera dell’Armenia parla di solidarietà, non di politica. Parla di bambini che hanno perso tutto e di altri bambini che decidono di non lasciarli soli».

Un’opera creata da quasi 1000 bambini grazie alla collaborazione di Istituto comprensivo di Vallecrosia, Luciana Moro, scuole della Vallebona/Valverbone (San Biagio, Perinaldo, Soldano) e dei bimbi di Seborga. Quasi mille disegni: 500 disegni dei bambini armeni rifugiati a Yerevan. Altri 500 dei bambini del comprensorio. Ogni disegno sarà inserito in una pallina dell’albero. Durante l’evento saranno presenti The Scouts del comprensorio, l’Arpa Celtica con Monica Zantedeschi e i bambini che canteranno insieme. Ci sanno anche il sindaco e Nina, la principessa di Seborga.L’iniziativa nasce in collaborazione con Unhcr per sostenere i bambini e le famiglie armene rifugiate che hanno perso case e villaggi. «Da questo gesto nasce un film documentario archeologico e umano tra Armenia ed Etiopia, realizzato da LumiBear, il cui ricavato sarà devoluto ai rifugiati politici armeni e un evento sportivo internazionale a ottobre 2026: Nicole Gorni, atleta di Seborga, incontrerà in pista a Yerevan la campionessa armena del salto con l’asta (31 anni)», ancora gli organizzatori.

 

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Minassian: speranza, unità, pace e giustizia. Questa l’eredità del viaggio del Papa (Vatican News 03.12.25)

“Ci sono quattro parole che personalmente conserverò di questa visita: speranza, unità, pace e giustizia.” Sono questi, secondo il patriarca di Cilicia degli armeni cattolici Raphaël Bédros XXI Minassian, i semi che Papa Leone XIV ha piantato in terra libanese. In un’intervista ai media vaticani, il patriarca commenta il primo viaggio apostolico del Pontefice, all’indomani della sua conclusione.

Un popolo vivo e fedele

Minassian racconta che il Papa è rimasto colpito dalla vitalità e dalla fede delle comunità locali: “Qui, in questo angolo del globo, c’è un popolo che crede, un popolo che soffre in silenzio ma che ha una resistenza forte.” Il patriarca sottolinea come Leone XIV abbia percepito concretamente questi valori negli incontri con i giovani e nella celebrazione conclusiva al Beirut Waterfron

Assorbire e trasformare il male

Ricorda poi con emozione il colloquio personale con il Papa: “Quando gli ho presentato la situazione in cui ci troviamo, dai suoi sguardi si percepiva quanto stesse prendendo tutto sulle sue spalle. Come qualcuno che assorbe il male del tuo cuore, lo porta nel proprio e lo trasforma in un’immagine positiva, in una speranza profonda e solida.”

Il contesto mediorientale

Guardando alle sfide del Medio Oriente, Minassian osserva che la pace non può essere costruita senza una sincera ricerca di equità: “C’è un appello, un grido per instaurare la pace”, che nasce tanto dalla giustizia sociale quanto da quella personale.

L’invito a Gerusalemme

Il viaggio apostolico ha incluso anche l’invito del Papa a tutte le Chiese cristiane per il Giubileo della Redenzione del 2033 a Gerusalemme. Su questo, Minassian commenta: “Penso che sia un inizio; l’unità è già realizzata tra il popolo di Dio.” Il patriarca affida alla preghiera il cammino dell’intera comunità ecclesiale e ribadisce: “La preghiera è un’arma invincibile”

“Non siamo mai soli”

Infine, Minassian ricorda la grande folla radunata in preghiera durante la visita del Papa: “Ero molto commosso nel vedere più di centomila persone pregare.” E conclude: “È per questo che non siamo mai soli. Ed è su questa base che dobbiamo continuare a camminare insieme.”

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Visita Apostolica del Patriarca Minassian