Azerbaijan, il problema delle mine inesplose (Osservtorio Balcani e Caucaso 27.12.23)

La triste e pericolosa eredità delle guerre spesso assume l’aspetto di mine e ordigni inesplosi. Le regioni intorno al Nagorno Karabakh sono contaminate da migliaia di mine antiuomo e anti carro, oltre a tutti gli ordigni inesplosi. Una questione urgente, ma lo sminamento richiede tempi lunghi

27/12/2023 –  Onnik James Krikorian

(Originariamente pubblicato dal portale Commonspace.eu  )

Mentre migliaia di sfollati interni (IDP) ritornano ai loro luoghi di residenza nelle sette regioni che circondano ciò che resta del Nagorno Karabakh, il problema delle mine antiuomo e degli ordigni inesplosi (UXO) è più urgente che mai. Il mese scorso Vugar Suleymanov, presidente dell’Agenzia nazionale per l’azione anti-mine dell’Azerbaijan (ANAMA), ha riferito che 111.207 ettari di terreno contaminato erano stati ripuliti negli ultimi tre anni, dopo la dichiarazione trilaterale di cessate il fuoco del novembre 2020.

Si trattava di 30.753 mine antiuomo, 18.531 mine anticarro e 60.268 UXO. C’è ancora molto da fare e ci vorranno decenni, ma questo non è un problema recente. È una situazione che dura da molto tempo e non è limitata solo all’Azerbaijan, anche se lì la situazione è molto peggiore che altrove nella regione. Non solo rimangono mine del conflitto dei primi anni ’90, ma il loro numero è sconosciuto e alcune mappe sono imprecise o addirittura inesistenti.

Nel 2006, nell’ambito di un lavoro decennale sull’argomento, e in particolare sulle attività dell’HALO Trust in Karabakh, ricordo di aver incontrato un campo minato vicino a Lachin. La strada era piena di mine anticarro. Si stima che circa 900 mine antiuomo PMN si trovassero in un campo adiacente. Secondo l’HALO Trust, erano lì da oltre dodici anni, da quando le forze armene le dispersero indiscriminatamente, timorose di una possibile controffensiva da parte dell’Azerbaijan.

Furono sparse così in fretta che alcune spuntavano addirittura dall’erba, sebbene anche le mine fossero colorate di verde. Per anni rimasero lì, dimenticate da tutti. Le mine anticarro non erano esplose perché non passava traffico pesante, mentre gli azerbaigiani erano fuggiti molto tempo prima e nessun armeno si era ancora insediato.

Infatti, è stato solo quando alcuni si sono trasferiti proprio a questo scopo, cercando anche nuovi pascoli per il bestiame, che è stato scoperto il pericolo. Le mine antiuomo, dopo tutto, non fanno distinzione tra etnia o nazionalità.

“Un giorno verrà firmato un accordo di pace”, mi disse nel 2002 Simon Porter, allora responsabile del programma HALO Trust, prima di spiegare perché era così importante eliminarle. “Siamo nella situazione perfetta per affrontare il problema il prima possibile. Altrimenti ci saranno problemi significativi quando gli abitanti dei villaggi cercheranno di coltivare la loro terra, o quando gli sfollati interni torneranno alle loro case”.

Collaborando con le autorità de facto del Karabakh, c’erano almeno alcune mappe, ma anche l’HALO Trust ha dovuto redigere le proprie. C’era anche una linea dedicata che permetteva ai residenti di segnalare incidenti o la scoperta sia di mine che di ordigni inesplosi. Nel 2009, ad esempio, ho accompagnato l’HALO Trust al monastero di Amaras, nel Karabakh meridionale, dove un contadino locale aveva investito una mina anticarro. Fortunatamente, il suo trattore aveva assorbito gran parte dell’esplosione, ma la gamba era rimasta ferita e lui doveva camminare con le stampelle. Non esistevano mappe.

C’era anche il problema degli UXO, munizioni non utilizzate o che non erano esplose durante i combattimenti. All’inizio del 2001, durante il lavoro con l’HALO Trust a Mardakert, ho visto anche un elicottero da combattimento abbattuto in un campo, i suoi cannoni anteriori ancora carichi in un’area con una capsula quasi intatta di missili aria-superficie in un’altra. In Karabakh, un altro problema sono le bombe chiamate Sharik (palle), perché somigliavano a piccole sfere di metallo.

Infatti l’anno successivo, mentre seguivo il collegio per non vedenti e ipovedenti a Yerevan, ho incontrato una di queste vittime di UXO, un bambino che aveva scoperto con i suoi amici quello che pensava fosse qualcosa con cui giocare, ma è esploso loro in faccia. Quel ragazzo era Artak Beglaryan, armeno del Karabakh che in seguito divenne un alto funzionario delle autorità di fatto, ricoprendo incarichi tra cui ministro di Stato e difensore civico per i diritti umani.

Allora pochi erano interessati all’argomento, anche se oggi la situazione è molto diversa: l’International Crisis Group (ICG) ha riferito all’inizio di quest’anno che almeno 54 azerbaigiani sono stati uccisi e oltre 290 feriti dalle mine da quando è stata firmata la dichiarazione di cessate il fuoco del 2020. Infatti sia il governo armeno che quello azerbaigiano, così come le organizzazioni internazionali, conducono campagne di sensibilizzazione, soprattutto per i bambini nelle scuole in aree che potrebbero essere contaminate sia dalle mine antiuomo che da UXO.

Anche l’Armenia è coinvolta. All’inizio degli anni 2000, le mine avevano influenzato negativamente la possibilità degli abitanti dei villaggi di coltivare la terra disponibile e le autorità regionali stimavano che fossero minati fino a 9.000 ettari della regione nord-orientale di Tavush in Armenia. Si stima che il numero delle mine sia nell’ordine delle migliaia.

Nel 2002, per affrontare il problema, è stato addirittura creato un centro di sminamento finanziato dagli Stati Uniti a Etchmiadzin, a soli venti minuti da Yerevan. A guidare l’addestramento era il tenente colonnello Eric von Tersch, che mi disse che tuttavia non vi era alcuna intenzione di sgombrare posizioni difensive al confine.

Le mine hanno anche un ruolo politico. Non vale la pena approfondire le accuse contro l’HALO Trust, spesso mosse da varie ragioni di parte, ma è degno di nota il fatto che l’Azerbaijan sia riuscito a porre il veto all’ampliamento dell’ufficio OSCE a Yerevan nel 2017 proprio a causa del sostegno alle iniziative di sminamento. La chiusura dell’ufficio OSCE a Tbilisi nel 2008 e in Azerbaijan nel 2015 ha lasciato l’Organizzazione senza una presenza effettiva sul terreno nell’intera regione.

La situazione post-2020, ovviamente, ha visto continuare la politicizzazione con accuse reciproche e persino con lo scambio di mappe delle mine da parte di Yerevan per i detenuti armeni detenuti a Baku. Eppure una volta le cose erano ben diverse.

Nel 2000, ad esempio, le forze speciali statunitensi hanno addestrato gruppi congiunti di sminatori armeni, azerbaijani e georgiani nell’ambito delle misure di rafforzamento della fiducia e della sicurezza (CSBM), richieste dall’OSCE e svolte nell’ambito dell’iniziativa Beecroft. Progetti simili, come ha recentemente osservato  a Baku il presidente dell’AzCAL Hafiz Safikhanov, non sono impossibili in futuro. Armenia, Azerbaijan e Georgia potrebbero anche firmare la Convenzione sulla proibizione dell’uso, dello stoccaggio, della produzione e del trasferimento delle mine antiuomo e sulla loro distruzione, meglio nota come Trattato di Ottawa.

A questo scopo, la retorica bellica tra Yerevan e Baku dovrà probabilmente finire e serviranno progressi tangibili verso un accordo per normalizzare le relazioni tra le parti.

Vai al sito

Nagorno-Karabakh: Babbo Natale arriva in parapendio, porta doni ai bambini rifugiati (Ansa e varie 27.12.23)

“ParaSanta” e’ un evento organizzato da cinque anni dal club armeno di parapendio (Vai al video)


Erevan, 27 dic. (askanews) – Per qualcuno, Babbo Natale è ancora un piccolo miracolo, come per i bambini rifugiati del Nagorno-Karabakh, la regione separatista oggetto di un conflitto trentennale fra Armenia e Azerbaigian, che continua a lasciare profonde cicatrici. Sradicati dalla loro terra e dalle loro case, insieme alle loro famiglie hanno trovato rifugio nel villaggio di Akunk, vicino alla capitale dell’Armenia, Erevan.

Il club armeno di parapendio ha organizzato per loro “ParaSanta”, una vera e propria consegna di regali dal cielo. Un modo per restituire loro un momento importante dell’infanzia, come spiegano due dei partecipanti, Alexandre Muoradian e Anait Davtian: “L’evento di oggi si chiama ParaSanta, abbiamo effettuato un volo in parapendio dal monte Atis travestiti da Babbo Natale e gnomi delle nevi, per offrire dei doni ai bambini. Lo facciamo ormai da cinque anni”. “Quest’anno abbiamo invitato bambini di Artsakh (il nome che gli armeni danno al Nagorno-Karabakh, ndr), abbiamo portato loro un piccolo miracolo e abbiamo sentito anche noi questo piccolo miracolo e lo spirito dell’anno nuovo è un po’ più vicino”.

E anche i genitori, come Lilit Danielian, sono entusiasti: “È stato tutto organizzato in modo così bello e naturale che adesso ho l’impressione di credere anch’io a Babbo Natale!”


Leggo

Per qualcuno, Babbo Natale è ancora un piccolo miracolo, come per i bambini rifugiati del Nagorno-Karabakh, la regione separatista oggetto di un conflitto trentennale fra Armenia e Azerbaigian, che continua a lasciare profonde cicatrici. Sradicati dalla loro terra e dalle loro case, insieme alle loro famiglie hanno trovato rifugio nel villaggio di Akunk, vicino alla capitale dell’Armenia, Erevan.

Il club armeno di parapendio ha organizzato per loro “ParaSanta”, una vera e propria consegna di regali dal cielo. Un modo per restituire loro un momento importante dell’infanzia, come spiegano due dei partecipanti, Alexandre Muoradian e Anait Davtian: “L’evento di oggi si chiama ParaSanta, abbiamo effettuato un volo in parapendio dal monte Atis travestiti da Babbo Natale e gnomi delle nevi, per offrire dei doni ai bambini.

Lo facciamo ormai da cinque anni”. “Quest’anno abbiamo invitato bambini di Artsakh (il nome che gli armeni danno al Nagorno-Karabakh, ndr), abbiamo portato loro un piccolo miracolo e abbiamo sentito anche noi questo piccolo miracolo e lo spirito dell’anno nuovo è un po’ più vicino”. 

E anche i genitori, come Lilit Danielian, sono entusiasti: “È stato tutto organizzato in modo così bello e naturale che adesso ho l’impressione di credere anch’io a Babbo Natale!”


Ultimo aggiornamento: Mercoledì 27 Dicembre 2023, 17:41
© RIPRODUZIONE RISERVATA

La rimozione dell’Artsakh (Il Manifesto 27 12.23)

VIAGGIO IN ARMENIA. Tra gli sfollati della regione separatista del Nagorno Karabakh, costretti a lasciare in blocco le loro case lo scorso settembre dopo l’offensiva dell’esercito azero. «Non si tratta solo di una contesa territoriale – racconta Monika -, è una questione che riguarda la nostra identità». Per la diaspora, spiega il ricercatore Figari Barberis, «la resa diventa lo spettro di un altro genocidio»

 

«Queste scarpe sono tutte rovinate, piene di graffi, ma ora non me la sento di buttarle», dice Mary Asatryan mentre percorre il viale del Tsitsernakaberd, il memoriale del genocidio armeno. Dall’alto, osserva i tipici palazzi in pietra rosa di Erevan. «Le ho indossato per quasi un anno durante il blocco – indica, ridendo, le sue sneakers – erano le uniche che avevo».

Mary ha 27 anni ed è figlia della diaspora. Dopo essere cresciuta a Mosca e aver studiato in Belgio, decide di trasferirsi in Nagorno Karabakh, la repubblica separatista armena inserita de iure nei confini dell’Azerbaigian. In questo Stato de facto, da cui proviene una parte della sua famiglia, diventa assistente dell’ombudsman, il difensore civico per i diritti umani.

NEL DICEMBRE 2022, a meno di due mesi dal suo arrivo, un gruppo di “eco-attivisti” azeri blocca però il Corridoio di Lachin, l’unica strada che collega la regione con l’Armenia e il resto del mondo, con il pretesto di «impedire il trasporto di armi e risorse naturali». Negozi e farmacie si svuotano progressivamente, iniziano le interruzioni di gas ed elettricità. Presto la paralisi diventa totale, e scoppia così una crisi umanitaria: anche ai convogli della Croce Rossa e ai peacekeepers russi viene bloccato il passaggio. «C’è stato un momento in cui c’era solo, ogni tanto, del pane non lievitato, razionato e distribuito con dei voucher. Stavamo in fila giornate intere, ma spesso finiva prima del proprio turno» ricorda Mary.

La situazione precipita il 19 settembre, quando, dopo 9 mesi di blocco, l’Azerbaigian lancia un’offensiva militare. In 48 ore le autorità dell’Artsakh – come viene chiamata la repubblica dagli armeni – vengono costrette alla resa. L’attacco scatena un esodo di massa e, in pochi giorni, la quasi totalità degli abitanti fugge verso il Corridoio di Lachin, abbandonando la casa e tutti i propri averi.

«ABBIAMO TRASCORSO tre giorni e tre notti in auto per raggiungere il confine, su un percorso che di solito si fa in un’ora e mezza. Decine di persone viaggiavano ammassate nei rimorchi dei camion. Alcuni, per paura che l’esercito azero devastasse i cimiteri, avevano riesumato le bare dei propri cari portandosele dietro – prosegue Mary – da allora mi sono trasferita qui a Erevan».

Basta alzare gli occhi per le vie della capitale, così come nei villaggi più piccoli, per rendersi conto di quanto la questione dell’Artsakh sia ben impressa nel paesaggio urbano e rurale armeno. I murales dei giovani combattenti caduti nei conflitti degli anni ‘90 e del 2020 ricoprono le pareti spoglie di molti palazzi sovietici, striscioni commemorativi contornano le strade. A Goris, la prima città dell’Armenia per chi proviene dal Corridoio di Lachin, la bandiera del Nagorno Karabakh sventola nella piazza principale. Proprio qui hanno fatto tappa tutti gli sfollati, raggiungendo poi le case, gli hotel o gli edifici non residenziali messi a disposizione dal governo per l’emergenza. Altri, invece, si sono appoggiati a amici e parenti che già vivevano oltre confine.

I ricordi di una vita lasciata alle proprie spalle
I ricordi di una vita lasciata alle proprie spalle

Secondo i dati della Croce rossa internazionale, a oggi il 70% dei 101.000 sfollati registrati si è trasferito nell’area di Erevan e nei distretti limitrofi, in migliaia ancora ospitati negli alloggi temporanei.

A gravare sulle scelte di chi ha dovuto reinventarsi una nuova vita ha pesato anche la questione della ricerca di una residenza a lungo termine. La capitale negli ultimi anni ha più volte registrato un’impennata nei prezzi degli affitti. Non da ultimo dallo scoppio del conflitto in Ucraina, quando un gran numero di espatriati russi – in prevalenza specialisti del settore tecnologico – si è trasferito in città per lavorare da remoto.

IN BASE A STIME della Croce rossa, diversi sfollati sarebbero ancora in movimento da un rifugio o da una regione all’altra, in cerca di sistemazione permanente e di una fonte di reddito.

«Quando siamo arrivati qui c’erano più di 100 persone. Pensavamo di rimanere solo qualche giorno, visto che non eravamo neanche riusciti a farci una doccia, ma poi abbiamo deciso di rimanere», racconta Nora Gasparyan, un’insegnante di scuola elementare fuggita insieme alla figlia e al marito. Dopo aver dormito un paio di giorni in macchina, Nora giunge in una vecchia colonia estiva riadattata a rifugio temporaneo tra le valli dell’Armenia meridionale. «I colori di queste montagne mi ricordano quelli di casa mia – aggiunge – e questo mi aiuta a sentirmi ancora un po’ là».

 

CON IL SUPPORTO di un’associazione locale, i residenti della colonia si riorganizzano per ritrovare una quotidianità: un medico adibisce una stanza ad ambulatorio, mentre l’ex insegnante organizza delle lezioni. «Abbiamo iniziato a preparare i bambini per l’inserimento nelle scuole del circondario, e per metterli al passo dei nuovi compagni». Sulla cattedra, di fianco ai sussidiari, conserva un’ampolla d’acqua e un barattolo di terra raccolti nella sua città.

«Incontrerete molti rifugiati che hanno portato con sé un frammento della terra su cui sono nate», spiega Monika Sargsyan, direttrice della fondazione umanitaria Kasa. «Per noi – continua la donna – è da lì che viene la forza. È una credenza che ha radici profonde, che vanno fino alle leggende sui re dell’Età antica».

USCENDO DALL’AULA, le due donne si dirigono verso la sala comune, dove i residenti si ritrovano per il caffè. Su una parete è appesa una foto in bianco e nero: ritrae Monte Melkonian, uno dei partigiani più famosi della prima guerra del Nagorno-Karabakh (1992-1994).

Nato negli Stati uniti, Melkonian era tornato nella terra dei suoi antenati a combattere per l’Artsakh, che considerava un bastione per evitare lo sconfinamento azero verso il mondo armeno. «Non si tratta solo di una contesa territoriale – aggiunge Monika -, la battaglia per l’Artsakh coinvolge in qualche modo la nostra stessa identità».

Questa terra dalla storia tormentata custodisce infatti un valore culturale per gli armeni, grazie anche alla presenza di antichi siti religiosi che testimoniano la continuità della loro presenza nella regione, e quindi anche la loro autoctonia.

DAL CONFLITTO DEGLI ANNI ‘90, si sono però aggiunti altri significati simbolici, che per alcuni hanno anche a che fare con un sentimento di rivalsa dopo il genocidio del 1915. «Gli odierni azeri, benché parlino una lingua molto simile al turco, non sono discendenti dei turchi ottomani. Non erano parte della stessa entità politica durante il genocidio armeno del 1915», spiega Cesare Figari Barberis, dottorando in Relazioni Internazionali presso il Graduate Institute di Ginevra e specializzato nell’area caucasica. «Per molti armeni – prosegue il ricercatore – quello del Nagorno Karabakh è diventato però un conflitto contro un mondo turcofono allargato. Si può vedere per esempio nell’uso del termine “turco”, che gli armeni utilizzano per riferirsi sia agli azerbaigiani che ai turchi di Turchia». Questo vale in particolar modo per i membri della diaspora, per cui «la resa diventa lo spettro di un secondo genocidio, di una rimozione storica e culturale da una regione in cui si sentono popolazione autoctona», conclude.

UN TIMORE che il presidente dell’Azerbaigian Ilham Aliyev non ha di certo contribuito a placare quando, in occasione della prima visita ufficiale nella regione appena riconquistata, si è fatto riprendere mentre calpestava una bandiera dell’Artsakh nell’ex palazzo del governo.

Camminando verso la fiamma eterna del memoriale, Mary Asatryan volta le spalle ai condomini di Erevan. «Ho sempre letto quella parte di Storia sui libri, ma mi era sempre sembrata così lontana – riprende – eppure fuggendo dall’Artsakh ho avuto l’impressione che la storia si stesse ripetendo, nel sentir dire alla gente intorno a me “sembra di essere nuovamente nel 1915″».

Vai al sito

Lecco, raccolta fondi in aiuto dell’Armenia (Corrierelecco 26.12.23)

Lecco (Lècch) – Una mano tesa a un popolo cristiano, martoriato nel 1915-16 dal genocidio operato dai turchi mussulmani, poi dal terremoto del 1988, ed oggi dall’esodo forzato dalle terre del Nagorno-Karabakh sotto l’incalzare delle truppe dell’Azerbaigian: l’associazione Amici Lecco-Vanadzor Italia Armenia ha lanciato una campagna di informazione e di raccolta fondi.

L’iniziativa  durerà il tempo necessario per raggiungere gli scopi e le finalità solidali con la popolazione armena costretta forzatamente ad abbandonare le proprie case, le loro terre ancestrali, scacciate dal Nagorno-Karabakh dal governo dell’Azerbaijan.

In particolare, gli studenti dell’Istituto Leopardi di Lecco si sono prodigati con varie attività alla raccolta fondi, raggiungendo la somma di 770 euro, versati sul fondo appositamente aperto alla Fondazione Comunitaria del Lecchese.

Le somme che verranno raccolte saranno destinate alla “scuola dei mestieri” forzatamente chiusa a Stefanakerkh, ex capitale del Nagorno, e dedicata alla scrittrice Antonia Arslan, che verrà ricostruita a Yerevan. Inoltre verrà favorita la promozione della lingua e cultura italiana in Armenia sostenendo il progetto già intrapreso dalla scuola di Vanadzor.

E’ un esempio significativo che l’associazione Amici Lecco-Vanadzor Italia Armenia vorrebbe fosse replicato anche in altri istituti e scuole della provincia Lecchese. La campagna raccolta fondi proseguirà per tutto l’anno prossimo e troverà un sostegno dell’associazione per informare gli studenti e promuovere tra loro oltre ai contatti didattici anche degli scambi e visite di reciproca conoscenza.

Vai al sito


Amici Lecco Vanadzor lancia una campagna pro Armenia (Lecco Online)

Appello di Papa Francesco per le guerre in Ucraina, Siria e Armenia: “Possano trovare pace duratura” (Agenzia vista 25.12.23)

“Il mio pensiero va poi alla popolazione della martoriata Siria, come pure a quella dello Yemen ancora in sofferenza. Penso al caro popolo libanese e prego perché possa ritrovare presto stabilità politica e sociale. Con gli occhi fissi sul Bambino Gesù imploro la pace per l’Ucraina. Rinnoviamo la nostra vicinanza spirituale e umana al suo martoriato popolo, perché attraverso il sostegno di ciascuno di noi senta la concretezza dell’amore di Dio. Si avvicini il giorno della pace definitiva tra Armenia e Azerbaigian. La favoriscano la prosecuzione delle iniziative umanitarie, il ritorno degli sfollati nelle loro case in legalità e sicurezza, e il mutuo rispetto delle tradizioni religiose e dei luoghi di culto di ogni comunità. Non dimentichiamo le tensioni e i conflitti che sconvolgono la regione del Sahel, il Corno d’Africa, il Sudan, come anche il Camerun, la Repubblica Democratica del Congo e il Sud Sudan. Si avvicini il giorno in cui si rinsalderanno i vincoli fraterni nella penisola coreana, aprendo percorsi di dialogo e riconciliazione che possano creare le condizioni per una pace duratura” lo ha detto Papa Francesco nella sua benedizione Urbi e Orbi per il giorno di Natale.

Vai al video

Internet a Vanadzor: la connettività che sta trasformando la città (Ultimometro 24.12.23)

Negli ultimi anni, Internet ha avuto un impatto significativo sulla città di Vanadzor, in Armenia. Grazie alla crescente connettività, la città sta vivendo una trasformazione digitale che sta influenzando positivamente la vita dei suoi abitanti e l’economia locale.

Vanadzor, la terza città più grande dell’Armenia, è situata nella regione di Lori, circondata da montagne e paesaggi mozzafiato. Fino a qualche anno fa, la connessione a Internet era limitata e lenta, ma negli ultimi anni sono stati fatti importanti investimenti per migliorare l’infrastruttura di telecomunicazione.

Oggi, grazie a questi investimenti, Vanadzor vanta una connettività Internet ad alta velocità e affidabile. Le famiglie, le imprese e le istituzioni pubbliche possono godere di una connessione stabile, che consente loro di accedere a una vasta gamma di servizi online.

Uno dei settori che ha beneficiato maggiormente di questa trasformazione è l’e-commerce. Le piccole imprese locali, che in passato avevano difficoltà a raggiungere un vasto pubblico, ora possono vendere i loro prodotti online e raggiungere clienti in tutto il paese e oltre. Questo ha permesso loro di espandere il proprio business e aumentare i profitti.

Inoltre, l’accesso a Internet ha aperto nuove opportunità di lavoro per i giovani di Vanadzor. Molte aziende internazionali offrono lavori online, consentendo ai giovani di lavorare da casa o da uffici locali. Questo ha contribuito a ridurre la disoccupazione giovanile e a trattenere talenti nella città.

La connettività Internet ha anche migliorato l’accesso all’istruzione. Gli studenti di Vanadzor possono ora accedere a risorse educative online, partecipare a corsi online e persino ottenere lauree attraverso programmi di istruzione a distanza. Questo ha ampliato le opportunità di apprendimento per gli studenti e ha reso l’istruzione più accessibile a tutti.

Inoltre, Internet ha avuto un impatto significativo sul settore turistico di Vanadzor. Grazie alla connettività, i turisti possono facilmente prenotare alloggi, pianificare itinerari e scoprire le attrazioni locali. I visitatori possono anche condividere le loro esperienze sui social media, promuovendo così la città e attirando nuovi turisti.

La connettività Internet ha anche migliorato i servizi pubblici a Vanadzor. Ora è possibile effettuare pagamenti online per bollette, tasse e servizi pubblici, evitando lunghe code e risparmiando tempo. Inoltre, i cittadini possono accedere a informazioni e servizi governativi online, semplificando la burocrazia e migliorando l’efficienza.

Nonostante tutti questi benefici, è importante sottolineare che l’accesso a Internet non è ancora universale a Vanadzor. Ci sono ancora alcune aree rurali e comunità remote che non hanno una connessione adeguata. Tuttavia, il governo armeno e le aziende di telecomunicazioni stanno lavorando per estendere la copertura Internet a queste aree, al fine di garantire che tutti gli abitanti di Vanadzor possano beneficiare della trasformazione digitale.

In conclusione, Internet ha avuto un impatto significativo sulla città di Vanadzor, migliorando la vita dei suoi abitanti e stimolando l’economia locale. La connettività ad alta velocità ha aperto nuove opportunità di lavoro, ha migliorato l’accesso all’istruzione e ha reso più efficienti i servizi pubblici. Nonostante ciò, è necessario continuare a investire nell’infrastruttura di telecomunicazione per garantire un accesso universale a Internet a tutti gli abitanti di Vanadzor.

Caucaso. I presepi vuoti del Nagorno-Karabakh. Il Natale da esuli fa male agli armeni (Avvenire 23.12.23)

Ai piedi della vertiginosa cattedrale di Strasburgo, tra luci colorate e profumi di vin brulè, per la prima volta gli artigiani armeni hanno esposto nel celebre mercatino di Natale alsaziano. Sulle bancarelle anche legni intagliati in Artsakh, il nome armeno del Nagorno-Karabakh, la regione cristiana del Caucaso meridionale che per la prima volta in molti secoli non vedrà celebrare la Natività.

A Strasburgo e Bruxelles, nelle sedi delle istituzioni europee, l’Armenia sta giocando la sua partita per l’avvicinamento all’Ue e la progressiva emancipazione dall’influenza di Mosca. E i presepi vuoti del Nagorno sono più di una denuncia. Dal 19 settembre la maggior parte della popolazione, 130mila abitanti, è stata costretta ad abbandonare le proprie case e a trasferirsi inizialmente sul confine armeno. Non c’era altra via di fuga mentre l’esercito dell’Azerbaigian in meno di un giorno riconquistava l’enclave armena, scacciando la minoranza cristiana che da decenni si batteva per l’autodeterminazione. A migliaia hanno scavalcato la catena montuosa attraverso impervie vie di fuga. Un inferno per migliaia di persone fiaccate dal blocco azero durato nove mesi, durante il quale alla maggior parte delle famiglie venivano assegnate solo piccole razioni di cibo. Il «contingente di pace» russo avrebbe dovuto proteggere i civili, ma i duemila soldati di Mosca se ne sono rimasti a guardare.

Ad esclusione della minoranza cattolica, la gran parte degli armeni celebrerà il Natale come ogni anno il 6 gennaio. E sarà forse il più triste. Il Nagorno è stato etnicamente ripulito. E la propaganda di Baku non mancherà di mostrare qualche campanile in festa per dimostrare di non aver voluto sopprimere il cristianesimo.

Il 7 dicembre in una dichiarazione congiunta veniva affermato che «la Repubblica di Armenia e la Repubblica dell’Azerbaigian condividono l’opinione che esiste una possibilità storica per raggiungere la pace», e come gesto di buona volontà, l’Azerbaigian ha rilasciato 32 militari armeni a fronte di 2 militari azeri liberati dall’Armenia. A sua volta Erevan ha deciso di sostenere Baku, gigante del gas che esporta soprattutto in Europa, ad ospitare la Cop29, la Conferenza delle Parti della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, ritirando la propria candidatura.

La strada però è accidentata. «Oggi, la diaspora armena di tutto il mondo, sta provando gli stessi sentimenti provati nel secolo scorso, durante il Genocidio degli Armeni: incredulità e incomprensione per il complice e assordante silenzio della comunità internazionale», denuncia Gayané Khodaveerdi, Segretaria dell’Unione degli Armeni. «La millenaria nazione armena, custode della culla della cristianità, aspetta un miracolo, il miracolo della verità e della difesa del proprio popolo. Chissà – è l’auspicio – se per il 6 gennaio, ricorrenza del Natale per gli armeni, l’umanitá potrà farsi illuminare ed agire in difesa degli armeni dell’Artsakh». I rancori in direzione di Mosca oramai nessuno li nasconde più. Dopo avere aderito alla Corte penale internazionale, quel tribunale dell’Aja che vorrebbe processare Vladimir Putin, l’Armenia ha annunciato anche la temporanea sospensione della licenza di trasmissione alla filiale armena della radio russa Sputnik.

Molti rifugiati del Nagorno hanno raggiunto i centri armeni più grandi, come Erevan, Kotayk e Ararat. Nel Paese una persona su 30 è un rifugiato: più della metà sono donne e ragazzi, quasi un terzo i bambini e un quinto le persone anziane.

Alvina, una nonna di 65 anni, racconta di essere diventata la principale fonte di sostentamento per la famiglia. Guadagna un po’ di spiccioli vendendo i “cappelli jingalov”, un piatto tradizionale armeno fatto in casa e servito su un tagliere di legno, o il “pane verde”, una focaccia ripiena di erbe che oggi è diventata la portata della nostalgia, da secoli è un alimento base per gli armeni del Karabakh. «Dato che al momento non abbiamo altre entrate, queste bastano appena per comprare il pane», dice Narine, la giovane nuora di Alvina. Molti uomini mancano all’appello. Forse imprigionati dagli azeri, oppure gettati in qualche fossa comune.

Vai al sito

Corto Dorico: il 27 dicembre la consegna del Premio Amnesty alla regista armena Hasmik Movsisyan (Vivereancona 23.12.23)

Mercoledì 27 dicembre alle ore 11 al Centro di formazione arti sceniche Accademia 56 di Ancona (via Tombesi 8) si terrà l’evento di premiazione del Concorso internazionale di cortometraggi “Short on Rights / A corto di diritti”, organizzato da Amnesty Italia e Corto Dorico.

A ricevere il premio ci sarà Hasmik Movsisyan, regista armena che con il suo “250 km” si è aggiudicata il riconoscimento nell’ambito dell’ultima edizione di Corto Dorico Film Fest, svoltosi ad Ancona dal 2 al 10 dicembre. Il film racconta una fuga che diventa un viaggio di commovente solidarietà fra vittime incolpevoli: le persone che pagano il prezzo più alto di conflitti di cui non hanno alcuna responsabilità. Un lavoro che, come sottolinea la motivazione del premio, ha saputo raccontare un conflitto poco noto, quello che coinvolge la popolazione civile del Nagorno-Karabakh, le cui conseguenze umanitarie perdurano e producono instabilità e rifugiati, e per aver rappresentato attraverso quella guerra ogni guerra che irrompe con violenza nella quotidianità.

L’opera di Hamsik Movsisyan si è aggiudicata anche il premio Gianni Rufini, riconoscimento assegnato dalla Giuria Giovani formata da studenti delle scuole superiori della città che hanno seguito un percorso formativo su cinema e diritti umani.

L’evento di premiazione, organizzato da Amnesty Ancona in collaborazione con Corto Dorico e Accademia 56, prevede la proiezione del cortometraggio e l’incontro con l’autrice; sul conflitto in Nagorno-Karabakh interverrà inoltre il giornalista Pierfrancesco Curzi.

Hasmik Movsisyan è nata a Yerevan, in Armenia, nel 1991. All’età di 11 anni si è trasferita con la famiglia a San Pietroburgo, in Russia, dove è cresciuta. Si è laureata in medicina all’Università Statale di San Pietroburgo, ma dopo la laurea ha deciso di seguire la sua vera passione per il cinema. Hasmik è stata ammessa al dipartimento di regia del Gerasimov Institute of Cinematography (VGIK), dove ha studiato sotto la guida di Alexander e Vladimir Kott e di Anna Fenchenko nel laboratorio di lungometraggio. Il cortometraggio di Hasmik, “250 km”, è nato come progetto studentesco, ma si è trasformato in un vero e proprio film indipendente. Grazie alla sua passione per la narrazione e alla sua prospettiva unica sul mondo, i film di Hasmik catturano l’essenza dell’esperienza umana. Continua a creare film che fanno riflettere e che ispirano e sfidano il pubblico.

L’evento di premiazione è ad ingresso gratuito; per informazioni: pagina facebook Amnesty Ancona.

Monaco, in gennaio un concerto caritativo per i rifugiati armeni del Nagorno-Karabakh Montecarlonews 23.12.23)

Concerto caritativo a favore dei rifugiati armeni del Nagorno-Karabakh lunedì 8 gennaio 2024 alle ore 19 presso la Cattedrale di Notre-Dame Immaculée di Monaco

Il concerto, organizzato dall’ONG Elise Care, in collaborazione con la diocesi di Monaco, sarà una opportunità unica di sensibilizzare il pubblico alla situazione precaria dei rifugiati armeni e di manifestare il nostro sostegno per raccogliere fondi per venire in loro aiuto.

Tutti i fondi raccolti in occasione di questo evento permetteranno di sostenere le nostre missioni umanitari per i rifugiati del Nagorno-Karabakh.

La prenotazione per assistere al concerto è obbligatoria e avviene tramite una biglietteria online (bit.ly/concert_armenie_mc).

L’ingresso è gratuito e i partecipanti avranno la possibilità di fare donazioni al momento della prenotazione o il giorno del concerto.

Due artisti hanno accettato di mettere la loro arte quella sera al servizio di questa causa: Patrick Fiori e Hakob.

Prenotazione obbligatoria all’indirizzo: bit.ly/concert_armenie_mc

Vai al sito

Da Bismarck a Hitler, gli armeni e gli ebrei (Il Manifesto 21.12.23)

Dopo aver dato alle stampe, nel 2014, il pregevole Atatürk in the Nazi Imagination, lo storico tedesco Stefan Ihrig ha continuato ad analizzare le affinità ideologiche che caratterizzano il rapporto tra la Germania imperiale, quella di Weimar e la Turchia kemalista per riflettere su un tema: la relazione esistente tra i vari stermini che hanno segnato la storia del Novecento. Più precisamente, l’autore intende fare luce sul nesso che legherebbe il Genocidio armeno (Metz Yeghérn) e la Shoah: un’interdipendenza – a suo dire – spesso ampiamente ignorata o, nel migliore dei casi, minimizzata.

LO STUDIOSO, direttore del Centro di studi germanici ed europei dell’Università di Haifa, individua invece legami assai profondi tra i due eventi e arriva a sostenere come tali avvenimenti, piuttosto vicini sotto l’aspetto temporale, siano stati intimamente connessi. E giunge a questa conclusione attraverso una ricerca che prende le mosse da un’attenta disamina della politica estera di Bismarck e Guglielmo II, passa poi a tratteggiare quella degli anni Venti e analizza infine le posizioni prese sulla questione armena dal regime nazista. Una ricerca che gli consente di istituire un parallelo tra i destini dei due popoli.

Dal momento che in questo saggio dal titolo Giustificare il Genocidio. La Germania, gli Armeni e gli Ebrei da Bismarck a Hitler (Guerini e Associati, pp. 492, euro 35, a cura di Antonia Arslan), Ihrig considera il Metz Yeghérn «parte della nostra storia e del nostro patrimonio mondiale» nonché «forse il peccato originale del XX secolo; anzi, un doppio peccato originale», visto che i responsabili dell’annientamento di un intero popolo sono rimasti in seguito impuniti. È importante mettere in rilievo, al riguardo, come l’idea dello sterminio non sia nata all’improvviso nella mente dei Giovani Turchi ma sia stata nutrita dal tradizionale atteggiamento anti-armeno che caratterizzava anche molti contenuti della stampa e della letteratura tedesca: il caso di Karl May, narratore in quel periodo popolarissimo, non è certo isolato.

È INOLTRE NOTO come il II Reich abbia assunto a lungo una posizione filo-ottomana. Il legame tra i due imperi fu stretto e trovò il suo perno nella collaborazione in ambito militare: le truppe turche furono per esempio istruite per anni dal generale Colmar von der Goltz, che ottenne per questo il titolo di «Pascià».
Il cuore del libro è però costituito dal dibattito che si sviluppò nel corso degli anni Venti. Fu infatti allora che, in seguito alla dissoluzione dei due imperi, ebbe origine un profondo risentimento nei confronti di coloro che ne venivano considerati i rispettivi, ostili corpi estranei: ebrei e armeni. Da ciò nacque l’idea secondo la quale, scrive l’autore, «il genocidio non era soltanto concepibile nella Germania dell’epoca, ma fu anche ampiamente discusso attraverso il prisma della visione del popolo armeno come uguale, simile o peggiore di quello ebreo».
Quello sterminio fu dunque accettato, in Germania, alla stregua di un costo «ragionevole» imposto dai dettami della realpolitik.

ACCADDE successivamente che esso fu prima negato e poi giustificato tanto dai nazionalisti quanto dai nazisti, Questi ultimi, in particolare, condivisero e misero in pratica il seguente principio: un governo può fare ciò che vuole dei propri sudditi indipendentemente dal fatto che si tratti di donne, anziani e bambini inermi. Che da questo si arrivi all’idea dell’annientamento non deve meravigliare; e non deve stupire nemmeno che la persecuzione antiebraica sia stata sostanzialmente tollerata dalla comunità nazionale tedesca.
Insomma, il modo in cui il Metz Yeghérn venne recepito in Germania rappresentò un’enorme «motivazione», rafforzata per di più dall’assenza di una qualsiasi condanna. Nel concludere la sua monumentale opera, Ihrig si chiede se il mondo, dopo l’epilogo della Seconda guerra mondiale, «abbia fatto abbastanza per dissuadere gli Stati dal massacrare le popolazioni civili».
Una domanda alla quale è difficile rispondere in maniera affermativa.

Vai al sito