Intervista al direttore Arsen Kharatyan sugli accordi tra Armenia e Azerbaigian. Cresce in Armenia il desiderio di ingresso nell’Unione europea (Radio Radicale 15.12.23)

Intervista al direttore Arsen Kharatyan sugli accordi tra Armenia e Azerbaigian dopo la resa dei separatisti del Karabakh – Cresce in Armenia il desiderio di ingresso nell’Unione europea.

Arsen Kharatyan è fondatore e direttore della piattaforma mediatica armeno-georgiana Aliq Media Ha partecipato alla Rivoluzione di velluto del 2018 E’ stato consigliere di politica estera del primo ministro armeno Pashinyan dopo la Rivoluzione di velluto.

Traduzione: Carola Norcia.

“Intervista al direttore Arsen Kharatyan sugli accordi tra Armenia e Azerbaigian. Cresce in Armenia il desiderio di ingresso nell’Unione europea” con Arsen Kharatyan (fondatore e direttore della piattaforma mediatica armeno-georgiana Aliq Media).

L’intervista è stata registrata venerdì 15 dicembre 2023 alle ore 22:00.

Nel corso dell’intervista sono stati discussi i seguenti temi: Armenia, Azerbaigian, Caucaso, Nagorno Karabak, Unione Europea.

La registrazione audio ha una durata di 20 minuti.

Ascolta l’intervista

 

Viaggio ad Ani e sul lago Çıldır, nell’est della Turchia, tra straordinari paesaggi di neve e ghiaccio (Touringclub 15.12.23)

La Turchia nord orientale, alle pendici del Caucaso meridionale, può riservare vere sorprese a chi la visita, soprattutto in inverno. Che si ami la storia e l’archeologia, o che si preferiscano le attività nella natura, questi luoghi lontani offrono la possibilità di esperienze uniche, inattese. Pochi lo sanno, ma non lontano dalla città di Kars (che abbiamo raccontato in un precedente reportage) si può vagare fra le rovine di un’antica capitale armena che teneva testa a Costantinopoli e a Baghdad. Oppure si può sfrecciare su slitte trainate da cavalli su un grande lago ghiacciato, dove i pescatori emulano gli eschimesi pescando le carpe attraverso grossi buchi nel ghiaccio. Esperienze forti ed entusiasmanti, soprattutto quando la temperatura, come spesso accade in gennaio e febbraio, scende anche a 30 gradi sotto zero.
ANI, LA CITTÀ DALLE 1001 CHIESE
Una meraviglia. Oltrepassata la doppia cinta delle mura magistrali e varcata la Aslan Kapısı, la Porta del Leone, si resta senza fiato, e non a causa del gelo. Sepolto sotto metri di neve, su una scarpata triangolare che precipita su due lati in gole profonde, il sito archeologico di Ani appare un luogo fiabesco, dall’atmosfera magica. Non fosse per le cupole a tamburo di alcune chiese in rovina, sparse qui e là, quasi tutte sui bordi del dirupo, si potrebbe pensare che su questa piana a 1500 metri di quota nessuno abbia mai potuto vivere, per lo meno d’inverno. La coltre bianca, in realtà, concorre a occultare ancor più le poche tracce rimaste di una città fantasma, dimenticata per secoli ma che mille anni fa fu ricca e potente, ben difesa com’era e strategicamente collocata lungo la via della seta.

San Gregorio di Gagik, Ani, Turchia – foto di Roberto Copello


Ani, Turchia – foto di Roberto Copello

Sarà che i miti facilmente si alimentano di cifre tonde, ma è stato tramandato che nel X secolo Ani contasse 100mila abitanti, 10mila case e, appunto, mille chiese più una, la cattedrale, capolavoro del grande architetto armeno Trdat (Tiridate). A rendere Ani potente era stato un ramo della nobile dinastia armena dei Bagratidi, che dicevano di discendere dal biblico re David (un altro ramo governò l’Artsakh, più noto alle cronache odierne come il Nagorno-Karabakh che di recente l’Azerbaigian ha strappato all’Armenia). Un re bagratide, Ashot III, nel 961 spostò la capitale da Kars ad Ani, attirato dalla posizione apparentemente imprendibile: la città era naturalmente difesa da ripidi canyon, tranne che sul lato nord dove suo figlio Smbat II avrebbe poi fatto costruire doppie mura con sette porte e tante torri rotonde. Quindi con il re Gagik I (989-1020) Ani toccò i vertici del suo splendore, tanto che il katholikòs, ovvero il patriarca di tutti gli armeni, vi spostò la sua sede.

Fu quello il periodo d’oro le cui tracce oggi si vengono a ricercare e ad ammirare, con la curiosità del viaggiatore e la passione dell’archeologo. Sì, perché la storia successiva vide Ani decadere in fretta, fin quasi a scomparire del tutto: conquistata via via dai georgiani, dai bizantini, dai selgiuchidi, devastata dai mongoli nel 1250, rasa al suolo da un terremoto nel 1319, Ani fu cancellata da ogni carta geografica. Le sue rovine tornarono alla luce solo fra il XIX e il XX secolo grazie a un famoso archeologo e linguista georgiano, Nikolai Marr (più noto come l’ideatore della cosiddetta teoria iafetica, popolare nell’Urss prima che Stalin la sconfessasse nel 1950, secondo la quale le lingue caucasiche e semitiche avevano radici comuni).

Le mura di Ani sopra la gola del fiume Arpaçayche fa da confine fra Turchia e Armenia – foto di Roberto Copello

Con il Trattato di Kars del 1921 Ani passò alla Repubblica di Turchia. Il governo ordinò che “fosse cancellata dalla faccia della terra”, ma per fortuna il comandante del fronte orientale, il generale Kâzım Karabekir, rifiutò di eseguire l’ordine. Per tutto il XX secolo visitare le rovine di Ani restò difficile, anche perché si trovavano in zona militare, sopra la gola e il fiume che prima segnavano il confine con l’Urss, ora quello (ermeticamente chiuso) con l’Armenia. Così fino a qualche tempo fa per visitare Ani occorreva un permesso della polizia e si veniva scortati sul sito da un soldato, il quale controllava che non venissero scattate foto, fatti schizzi e neppure presi appunti! Dal 2004, con la gestione passata dal ministero della Difesa a quello della Cultura e del Turismo, Ani è diventata accessibile a tutti, e i primi ad approfittare dei diminuiti controlli non furono i turisti ma i tombaroli, pronti ad approfittare dei minori controlli. Purtroppo, vuoi per le attività umane (pastorizia, cave di pietra, vandalismo, furti, ma anche restauri affrettati e senza senso) vuoi per la sismicità della zona, non c’è monumento di Ani che non abbia problemi di stabilità. Per questo l’antica capitale armena è stata spesso inserita nelle liste dei siti più a rischio del mondo. Sembra però che il ministero turco della Cultura e del Turismo negli ultimi anni si sia impegnato nell’opera di tutela e nella visitabilità, soprattutto dal 2016, anno in cui Ani è stata iscritta nel Patrimonio dell’Unesco, che ha riconosciuto come “il sito presenta una panoramica completa dell’evoluzione dell’architettura medievale attraverso esempi di quasi tutte le diverse innovazioni architettoniche della regione tra il VII e il XIII secolo”.

Peraltro, l’abbandono secolare e la posizione remota sono stati anche la fortuna di Ani, perché hanno consentito di preservare l’autenticità dei suoi edifici religiosi, militari e civili (in gran parte ancora da riportare alla luce). Quanto rimane, insomma, per quanto rovinato, non è stato contaminato da interventi successivi. Costituisce così una finestra su quello che fu per sei secoli, dal VII al XIII, un luogo di incontro fra le culture armena, georgiana e islamica, fucina di nuovi stili architettonici e decorativi (la cosiddetta “scuola di Ani”) che sarebbero stati copiati un po’ ovunque, fra l’Anatolia e il Caucaso.

San Gregorio di Tigran Honenz, Ani, Turchia – foto di Roberto Copello
I MONUMENTI DA NON PERDERE AD ANI
Per tutto questo, varcando la Porta del Leone si accede a una “città morta”, certamente, ma anche a un mondo che non vuole scomparire. Una volta sulla spianata, voltandosi indietro le torri rotonde delle mura di Smbat (restaurate troppo e male negli anni 90) ricordano quelle che i bambini fanno al mare, rovesciando secchielli pieni di sabbia bagnata. In effetti, si avanza affondando nella neve un po’ come accade camminando su una spiaggia. Ogni edificio, poi, riserva sorprese differenti (attenzione perché ognuno può avere tre o quattro nomi diversi). Quelli da non perdere sono questi.

Porta del Leone, Ani, Turchia – foto di Roberto Copello

Il più spettacolare: la chiesa di San Gregorio di Tigran Honenz, in bilico sull’orlo della scarpata, protesa verso il sottostante fiume Arpaçay (Akhourian per gli armeni) come un deltaplano pronto al decollo. Secondo un’iscrizione sul muro orientale, a farla erigere, nel 1215, fu un ricco mercante di nome Tigran Honenz. La volle dedicare al grande santo Gregorio Illuminatore, che nel IV secolo convertì il re Trdat III (Tiridate) facendo dell’Armenia il primo stato cristiano al mondo. La grande basilica a croce inscritta e con la cupola sulla crociera è la chiesa meglio conservata di Ani. Artisti georgiani realizzarono i due cicli di affreschi che ricoprivano interamente le pareti e il tamburo: riescono ancora a “parlarci”, nonostante i molti volti cancellati, le ampie zone imbiancate e i numerosi graffiti di recente data. Un ciclo è dedicato alla vita di san Gregorio, l’altro a quella di Gesù (si indovinano la morte di Maria e il primo bagnetto di Gesù Bambino). I pennacchi tra le arcate sono riempiti di bassorilievi con forme di animali, reali e immaginari, che rimandano alla celebre scuola di miniatura armena. Suggestivo è poi quanto rimane in piedi del nartece esterno e delle sue arcate, con brandelli di affreschi che da secoli eroicamente resistono alle intemperie caucasiche.


San Gregorio di Tigran Honenz, Ani, Turchia – foto di Roberto Copello


San Gregorio di Tigran Honenz, Ani, Turchia – foto di Roberto Copello


San Gregorio di Tigran Honenz, Ani, Turchia – foto di Roberto Copello

Il più iconico: San Gregorio di Gagik. Una cartolina. Visto da lontano, isolato nella neve e sullo sfondo di dolci pendii, questo edificio a pianta rotonda coincide con l’idea più diffusa e comune di “chiesa armena sperduta fra le montagne”. Commissionata da re Gagik I nel 1001 all’architetto Trdat, fu pensata sul modello della famosa chiesa di Zvartnots, eretta nel luogo dove si pensava fosse avvenuto l’incontro fra Trdat III e san Gregorio Illuminatore (le rovine di quella chiesa, oggi nella Repubblica d’Armenia, sono anch’esse nel Patrimonio Unesco). Vari e raffinati sono qui i motivi decorativi: finestre incorniciate da modanature, doppie serie di arcate cieche, elaborate cornici, nicchie profonde e finti portali ne fanno la più “barocca” delle chiese di Ani.

San Gregorio di Gagik, Ani, Turchia – foto di Roberto Copello

Il più a rischio: la chiesa del Redentore. Nikolai Marr vide ancora in piedi la bella, imponente costruzione voluta da un principe nel 1036 per accogliere una reliquia della croce di Cristo. Aveva pianta rotonda e ben otto absidi, ma poi nel XX secolo è venuto giù quasi tutto, fino alla mazzata finale del tremendo terremoto del 1988. Tuttavia la chiesa si ostina a restare in piedi, sia pur spaccata verticalmente a metà. Sostenuta da impalcature che la rendono off limits, è oggetto di delicati interventi di consolidamento e ricostruzione: pietre e frammenti di affreschi sono scansionati con un laser 3D in vista della loro ricollocazione.


Chiesa del Redentore, Ani, Turchia – foto di Roberto Copello

Il più maestoso: la Cattedrale. Trasformato in moschea dai selgiuchidi nel 1064, tornato  chiesa con i georgiani, questo grande edificio a tre navate era stato eretto, tra il 989 e il 1001, dal più grande architetto del suo tempo, Trdat, colui che aveva restaurato la cupola di Santa Sofia a Costantinopoli. Le guide, sottolineando la verticalità dell’interno, enfatizzata dagli archi a sesto acuto e dai pilastri e lesene raggruppati attorno a una colonna centrale, con i costoloni che salgono verso l’alto, vi diranno che Trdat seppe anticipare le soluzioni dell’architettura gotica. Tuttavia, non vi sono prove di contatti tra architetti armeni ed europei in quei secoli medievali. Guardando verso l’alto, vien da pensare alla toscana San Galgano, non fosse che perché si vede il cielo: l’enorme cupola alta 20 metri crollò già con il terremoto del 1319, l’alto tamburo che la reggeva venne giù nel 1832. Poi nel 2001 nuove grandi fessure sono state aperte dallo spostamento d’aria delle forti esplosioni fatte brillare nella cava, al di là del canyon e del confine, dove gli armeni estraevano la pietra per la nuova cattedrale di Erevan. La facciata allora iniziò a inclinarsi: se oggi la Cattedrale si sorregge è solo grazie a enormi impalcature, interne ed esterne, che impediscono il collasso totale.


La Cattedrale, Ani, Turchia – foto di Roberto Copello


La Cattedrale, Ani, Turchia – foto di Roberto Copello

Il meno cristiano: il complesso di Manuçehr, dal nome dell’emiro selgiuchide che l’avrebbe eretto nel 1071-1072, ricavandovi quella che secondo gli studiosi turchi sarebbe la prima moschea in Anatolia (gli studiosi armeni ritengono invece che fosse un più antico palazzo bagratide, convertito più tardi in moschea). La moschea all’inizio del XX secolo fu usata come museo per gli oggetti rinvenuti da Nikolai Marr nei primi scavi. Poi nel 1916 almeno seimila reperti furono trasferiti al Museo storico dell’Armenia, a Erevan, salvandoli dalle devastazioni belliche. Tornata moschea, ora ha una sala di preghiera con grandi e spettacolari vetrate aperte sulla gola del fiume Arpaçay. Il minareto, ottagonale secondo lo stile dell’Asia Centrale e curiosamente separato dalla moschea, è la parte più antica del complesso: sul versante nord porta una policroma iscrizione “Bismillah” (In nome di Allah) in geometrici caratteri cufici. All’interno, i suoi gradini sono “solo” 93, e non 99 come in genere raccontano le guide turche.


La Moschea di Manuçehr, Ani, Turchia – foto di Roberto Copello


La Moschea di Manuçehr, Ani, Turchia – foto di Roberto Copello

Sui 78 ettari del sito di Ani sono poi disseminati altri antichi edifici (chiese, cappelle, monasteri, case, caravanserragli e tombe), più o meno in rovina e non sempre accessibili: impossibile qui dar conto di tutti. Resta generalmente off limits (siamo in una “sensibile” zona militare, praticamente a tu per tu con le guardie di frontiera e i reticolati della Repubblica d’Armenia) la possente cittadella fortificata che all’estremità meridionale della scarpata include il palazzo reale dei Bagratidi e parecchie chiese. Neanche a parlarne, poi, di esplorare le centinaia di grotte ricavate sui fianchi del burrone e utilizzate un tempo come abitazioni o come chiese rupestri (lo studio più accurato è di un archeologo genovese, Roberto Bixio). E, tuttavia, quanto resta visitabile è sufficiente a trasmettere un’emozione fortissima a chi, lungo il sentiero ad anello, fa il giro del perimetro della scarpata. Chi poi abbia a disposizione qualche giorno di tempo può avventurarsi a cercare quanto resta di tanti altri edifici medievali armeni, sparsi nel raggio di poche decine di chilometri: i monasteri di Horomos, Khtzkonk e Bagnayr, le basiliche di Taylar, Karmirvank, Oğuzlu, Mren, Digor…

Attorno a Ani, Turchia – foto di Roberto Copello

IN SLITTA E A PESCA SUL LAGO ÇILDIR

Come detto all’inizio, il Caucaso meridionale turco non offre solo storia, cultura e archeologia. Una delle attrattive invernali più elettrizzanti è il grande lago Çıldır (Çıldır Gölü), il secondo lago più grande dell’Anatolia orientale e uno dei più importanti laghi d’acqua dolce della Turchia, con un perimetro di 60 km e una superficie di 123 kmq (poco meno del nostro lago Trasimeno). Di origine vulcanica, situato a cavallo tra le province di Kars e di Ardahan, a quasi 2.000 metri di altitudine, il lago Çıldır è una delle ragioni per cui in gennaio e febbraio migliaia di turisti lasciano Istanbul e Ankara per passare qualche giorno nel Caucaso meridionale turco.


Il lago Çıldır, in Turchia – foto di Roberto Copello


Il lago Çıldır, in Turchia – foto di Roberto Copello

La ragione è presto detta. In pieno inverno, con temperature che scendono anche a meno di 30 gradi sotto zero, la superficie del lago Çıldır gela completamente. Lo spessore del ghiaccio raggiunge i 70 cm, a volte il metro: dunque, non solo vi si può camminare o pattinare in tutta sicurezza, ma addirittura si può percorrerlo su slitte trainate da uno o due focosi cavalli, ingentiliti da qualche pon pon colorato sulla bardatura. Chi guida questa specie di troike, spesso anche senza guanti, sembra trovare il massimo divertimento nel lanciare i cavalli al galoppo verso la bianca distesa infinita, sfidando i colleghi in corse forsennate. La meta è costituita, di solito, dalle bandierine di due coppie di paletti, fra i quali, invisibile sotto il ghiaccio, è stata tirata una rete da pesca. Con pala e piccone i cocchieri-pescatori scavano un buco nella calotta, emulando gli eschimesi. Poi iniziano a recuperare la rete e, in pochi attimi, ecco emergere i primi pesci, sottratti alle gelide acque dove, sotto lo strato di ghiaccio, pensavano di essere al sicuro dai cormorani. Si tratta di carpe, gialle e tozze carpe a specchio (Cyprinus carpio) localmente ritenute una prelibatezza: il basaltico fondo del lago è privo di limo e dunque la loro carne non ha l’abituale e sgradevole sapore di fango proprio di questi ciprinidi.

Pesca nel lago Çıldır, in Turchia – foto di Roberto Copello


Pesca nel lago Çıldır, in Turchia – foto di Roberto Copello

Pochi minuti dopo, al caldo di una semplice coperta, ogni cavallo affonderà il muso nel fieno della greppia che porta scritto con la vernice il suo nome (il nostro si chiama Cennedin Ruzbari, “Vento del Paradiso”). Quelle carpe appena pescate, invece, faranno la fortuna dei ristoranti locali, che d’inverno si riempiono di clienti. Le si gusta fritte, senza essere infastiditi dalle enormi spine della loro carne. Semmai, preoccupa di più il fatto che negli ultimi anni gli stock ittici del lago Çıldır si siano fortemente ridotti. Colpa dello sfruttamento eccessivo e incontrollato: qui si pesca quattro stagioni su quattro, persino durante il periodo di riproduzione, tra maggio e giugno, quando una carpa rilascia anche un milione di uova.


Il lago Çıldır, in Turchia – foto di Roberto Copello


Il ristorante Atalay’ın Yeri presso il lago Çıldır, in Turchia – foto di Roberto Copello

Il lago Çıldır, in ogni caso, attrae anche nelle altre stagioni. Lo fa in primavera, quando è una meta entusiasmante per i birdwatcher. E lo fa d’estate, quando oltre che a pescare “normalmente” si viene per attraversarlo in barca, magari sbarcando sull’isola di Akçakale, l’unica sulla sua superficie. Si tratta della zona archeologica più importante della provincia di Ardahan. Alla luce sono stati riportati ruderi di una cappella medievale georgiana del X secolo e molti reperti datati tra l’età del bronzo medio e la prima età del ferro: le abitazioni di una città che copriva metà dell’isola, una tomba monumentale a forma di kurgan (un tipo di tumulo funerario presente nel Caucaso e nell’Asia centrale nel secondo millennio a.C.), almeno quattro misteriosi cromlech (cerchi rituali di pietre conficcate nel terreno), una fortezza, una torre.

L’isola si trova appena a cento metri dall’omonimo villaggio costiero di Akçakale, abitato da non più di duecento Karapapakh (o Tarakama), popolazione di origine turcomanna giunta nel Caucaso sin dal Medioevo. Perseguitati dagli ottomani e dai russi (Stalin li assimilò agli azeri e li deportò in massa nell’Asia centrale), oggi sono ridotti a una minoranza di poche migliaia di persone, sparse fra la Turchia, la Georgia, l’Azerbaigian e l’Iran. Dediti da sempre alla pastorizia, i Karapapakh (significa “cappello nero” ) da decenni non parlano più la loro lingua oghuz ma continuano a praticare l’Alì-Illahismo, misteriosa religione sincretica che deifica Alì, il genero di Maometto, unendo elementi dell’Islam sciita con lo zoroastrismo e con altre antiche credenze orientali.

Al galoppo nel lago Çıldır, in Turchia – foto di Roberto Copello

INFORMAZIONI PRATICHE

– Un reportage di Roberto Copello su Kars è pubblicato a questa pagina; rimandiamo a questo reportage per indicazioni su dove dormire in città.
Come arrivare a Kars
– In aereo: Turkish Airlines vola ogni mattina da Istanbul a Kars in circa due ore (www.turkishairlines.com)
– In treno: Il Doğu Ekspresi “classico” copre i 1310 km di linea ferroviaria da Ankara e Kars in 26 ore. Il lussuoso Doğu Express turistico, che viaggia solo da dicembre a marzo, tre volte la settimana, ha cabine per due con comodi letti e impiega 34 ore, dato che effettua due fermate di tre ore per consentire escursioni ai passeggeri (www.tcddtasimacillik.gov.tr)
Come raggiungere e visitare Ani
Ani si raggiunge in un’ora di auto da Kars, da cui dista 45 km. Il sito archeologico è aperto tutti i giorni dell’anno, dalle 8 alle 19 in estate e dalle 9 alle 17 in inverno. L’ingresso costa 180 TL. Si può entrare anche con il Museum Pass Türkiye, la tessera che consente di accedere a 300 musei nazionali: costa 4000 TL ed è valida per 15 giorni dal primo ingresso (muze.gov.tr/MuseumPass).
Una visita accurata alle rovine di Ani richiede dalle due alle quattro ore. D’estate è consigliabile portare con sé molta acqua. È possibile fare picnic dentro al sito. D’inverno è necessario essere attrezzati per camminare sulla neve, stando attenti alle zone ghiacciate. Per la vicinanza al confine armeno, non tutte le aree sono sempre visitabili. Un sito ricchissimo di informazioni su Ani e su tutti i monumenti armeni della zona, purtroppo non più aggiornato da anni ma ancora utilissimo, è virtualani.org.
Sul lago Çıldır
L’unico ristorante affacciato sulle rive del lago Çıldır e per questo assai popolare (offre anche il giro sulle slitte) è Atalay’ın Yeri (atalayn-yeri-restorant.business.site).
Siti web utili
Punti di partenza per scoprire il territorio sono www.turchia.it e kars.goturkiye.com

Storia diplomatica: Henry Morgenthau (Il denaro 15.12.23)

Henry Morgenthau nasce a Mannheim in Germania nel 1856. Avvocato di origine ebraica, naturalizzato americano, nel 1913, dopo l’elezione alla presidenza di Woodrow Wilson, viene nominato ambasciatore degli Stati Uniti (dove si trasferisce con la famiglia nel 1866) nell’Impero Ottomano presso la Sublime Porta. A Costantinopoli riesce a stabilire contatti personali con i leader del Comitato Unione e Progresso, più conosciuto col nome di Partito dei Giovani Turchi, Enver, ministro della guerra, Djemal, ministro della marina e con il ministro degli interni, Talaat Pascià, presso il quale intervenne ripetutamente, ma senza successo, per scongiurare la totale distruzione del popolo armeno in Turchia, non appena fu informato delle deportazioni e dei massacri. Raccoglie lettere e petizioni dei deportati, riceve rapporti sistematici dai consoli americani dislocati nelle varie città dell’Anatolia, li invia a Washington, senza tuttavia ricevere il sostegno diretto del suo Paese.

I consolati degli USA all’interno dell’Impero ottomano cominciarono subito ad inviare valanghe di notizie allarmanti riguardo il reale obiettivo delle misure prese contro gli armeni. Malgrado le difficoltà di comunicazione durante la Prima guerra mondiale, i consoli Oscar Heizer da Trebisonda, Leslie Davis da Harput e Jesse Jackson da Aleppo, inviavano sistematicamente notizie e documentazioni dirette sul trattamento subito dagli armeni. Il 5 giugno del 1915, Jackson, in un incontro con l’ambasciatore Henry Morgenthau, concludeva che le persecuzioni contro gli armeni costituivano uno schema preparato accuratamente per eliminare completamente l’etnia armena. Il 16 luglio 1915, Morgenthau inviò un dispaccio al Dipartimento di Stato denunciando che la campagna di sterminio dei sudditi cristiani stava progredendo notevolmente. La consapevolezza di non avere potuto evitare il disastro degli armeni gli aveva procurato uno stato di amarezza, di inquietudine e di prostrazione.

Nel 1916 lascia la Turchia e torna in America dove si dedica a raccogliere fondi per gli armeni sopravvissuti. Solo nel 1918 riesce a rendere pubbliche le documentazioni e i rapporti sul massacro degli armeni, a tenere conferenze e a pubblicare il libro Ambassador Morgenthau’s Story, che, prima dell’entrata in guerra degli USA, era stato sottoposto a censura. Nel capitolo che riguarda gli armeni, intitolato “The murder of a Nation”, Morgenthau analizza la metodologia genocidaria appresa dai turchi alla scuola dei consiglieri tedeschi e denuncia il ruolo e le responsabilità della Germania alleata dell’impero ottomano nella prima guerra mondiale. Tiene conferenze sulla questione armena, incitando il pubblico a esercitare pressioni affinché possa nascere la Lega delle Nazioni, che avrebbe dovuto preservare la pace e soccorrere le popolazioni superstiti. Promuove e sostiene i tentativi umanitari dell’“American Committe for Relief in the Near East”, organizzazione che si occupava di rintracciare gli orfani armeni dispersi nel deserto o diventati schiavi.

Dal 1919 è membro di una missione investigativa sui pogrom contro gli ebrei in Polonia e contemporaneamente lavora per il rimpatrio degli armeni sopravvissuti che continuano a morire di fame e di epidemie. Si batte per la creazione dell’”Armenia di Wilson”, la grande Armenia anatolica, costituita sulla carta grazie alla protezione e al mandato americano, che tuttavia il Senato non ratifica. Nel dicembre del 1920 il presidente Wilson nomina Henry Morghentau suo personale mediatore per tentare di salvare ciò che restava dell’Armenia dall’attacco delle truppe kemaliste. Ma ormai è tardi: l’Armenia è già stata spartita tra l’Unione sovietica e la Turchia kemalista. Henry Morghenthau muore a New York nel 1946 all’età di 90 anni. La sua terra tombale è stata tumulata a Yerevan nel “Muro della Memoria” di Dzidzernagapert il 23 aprile 1999.

Vai al sito

ARTE Reportage Nagorno karabakh: rialzarsi dopo la guerra (Arte.tv 14.12.23)

ARTE Reportage Nagorno karabakh: rialzarsi dopo la guerra

Reportage dal Nagorno Karabakh, enclave azera tra i monti del Caucaso meridionale, dopo il cessate il fuoco di Putin.Dal novembre 2020, 44 giorni di combattimenti vi hanno causato 7mila vittime e decine di migliaia di feriti e profughi, prima che la potenza tutelare della regione – la Russia di Putin – non imponesse il cessate il fuoco. Sebbene i giornalisti siano malvisti da queste parti, Gaëll Lorenz e Olivier Michaël sono riusciti a realizzare questo reportage nel Nagorno Karabakh, enclave in Azerbaigian tra monti del Caucaso meriodionale.

 

Guarda il video su ARTE TV Clicca QUI

TRADIMENTI di Pietro Kuciukian (Gariwo 14.12.23)

Per più di trent’anni i negoziati fra armeni e azeri si sono attenuti alla logica binaria del “tutto o nulla”, con la conseguenza di non poter mai giungere ad un trattato di pace. Il compromesso è stato considerato da ambo le parti “tradimento”. Land for peace, la pace in cambio di terra, è il principio regolatore di ogni accordo, ma ciò implica che un leader sia disposto a sacrificare un pezzo di terra e venire inevitabilmente considerato dai suoi un “traditore”. Fernando Gentilini, diplomatico di carriera, lavora per il servizio diplomatico europeo a Bruxelles. Come responsabile e rappresentante speciale dell’Unione europea e delle Nazioni Unite, ha alle spalle una grande esperienza di gestione delle crisi internazionali nei Balcani, in Turchia, nel Kosovo, nell’area israelo-palestinese e in Afghanistan; dal 2018 è direttore generale del servizio diplomatico in Medio Oriente e nel Nord Africa. E’ autore di saggi in cui coniuga la sua cultura letteraria con la lucida analisi geopolitica, alimentata dall’intensa attività diplomatica sul campo. Dalle pagine culturali del quotidiano la Repubblica [1] lancia un singolare richiamo: “ Bisogna tradire per fare la pace”. Per l’autore il tema del tradimento, visto anche attraverso le pagine del celebre libro di Amos Oz, Giuda, “è il tema di chi, a torto, viene considerato dai suoi come un traditore perché ha il coraggio di cambiare quando gli altri non cambiano, o perché non ha paura di sembrare un codardo quando tutti gli altri giocano a fare i patrioti e gli eroi”. Nella storia, molti statisti che raggiunsero la pace furono etichettati traditori, ci ricorda Gentilini riprendendo Amos Oz: “Churchill che aveva smembrato l’ impero britannico, De Gaulle che si era ritirato dal Nord Africa, Gorbaciov che aveva provocato la disgregazione dell’Unione Sovietica”. Per non parlare di Ben Gurion che aveva accettato la risoluzione dell’ONU per la Palestina, Rabin che aveva firmato gli accordi di Oslo, e molti altri casi. E per portare la pace in Palestina fra israeliani e palestinesi quando la guerra sarà conclusa, ci sarà bisogno di un “traditore”, il “Giuda” evocato da Amos Oz.

Il Nagorno Karabagh è stato “svuotato” dei suoi abitanti armeni tra la fine di settembre e i primi di ottobre. La colonna dei profughi, carichi di masserizie, composta di donne, uomini, anziani, bambini, ha raggiunto faticosamente l’Armenia, stremati da un anno di carestia provocata dal governo azero con il blocco del corridoio di Lachin e terrorizzati dai bombardamenti e dall’attacco azero del 19 settembre. Il primo ministro dell’Armenia Nikol Pashinyan scegliendo di salvare “vite umane”, ha dovuto sacrificare la terra abitata dagli armeni da 2600 anni,. Oggi sembra che questo sacrificio stia portando l’aggressore e l’aggredito, a superare la soglia oltre la quale si entra nello spazio in cui si dialoga per la pace. Con il rilascio di trentadue soldati armeni e due soldati azeri è stato raggiunto un accordo sull’adozione di passi concreti, “fatti e azioni”, con l’obiettivo di creare un clima di fiducia tra i due paesi. Una possibilità storica per la pace a lungo attesa nella regione. Due paesi nemici, rispondendo alle sollecitazioni dell’ONU, rivelano l’intenzione di normalizzare le relazioni e raggiungere un accordo sulla base del rispetto dei principi di sovranità e integrità territoriale. Come segno di buona volontà, l’accordo prevede il sostegno dell’Armenia alla candidatura dell’Azerbaigian per ospitare il vertice sul clima del 2029 e il ritiro da parte armena della propria candidatura.

“La Repubblica d’Armenia e la Repubblica dell’Azerbaigian” – si legge nella dichiarazione – “sperano che anche gli altri paesi del Gruppo dell’Europa orientale sostengano la candidatura dell’Azerbaigian ad ospitare la COP 29. Come segno di buona volontà, la Repubblica dell’Azerbaigian sostiene la candidatura armena per l’adesione all’Ufficio COP del Gruppo dell’Europa orientale. La Repubblica dell’Armenia e la Repubblica dell’Azerbaigian continueranno le loro discussioni sull’attuazione di ulteriori misure di rafforzamento della fiducia, efficaci nel prossimo futuro e invitano la comunità internazionale a sostenere i loro sforzi che contribuiranno a costruire la fiducia reciproca tra i due paesi e avranno un impatto positivo sull’intera regione del Caucaso meridionale”, così conclude la dichiarazione.

Nikol Pashinyan si è dimostrato un grande leader, disposto a diventare impopolare, a “tradire” la nazione ; un leader “capace di sacrificare”- come scrive Fernando Gentilini nella conclusione dell’articolo – “il bene più caro – un pezzo di terra – per un bene più grande, la pace fra i due popoli “. Obiettivo considerato per troppo tempo irraggiungibile.

[1] La Repubblica, giovedì 7 dicembre 2023, p. 33

Vai al sito

Pordenone – Teatro Verdi: Dall’Ararat alle Alpi (Operaclick 14.12.23)

Da vent’anni, l’11 dicembre si celebra la Giornata Internazionale della Montagna, una ricorrenza che il Teatro Verdi di Pordenone ha deciso di includere nella programmazione artistica vera e propria. Ormai da qualche tempo infatti il teatro ha iniziato a proiettare delle ramificazioni della sua attività sul territorio, in particolare verso alcuni centri montani della provincia, nell’ambito del “Progetto montagna” coordinato insieme al CAI con “l’obiettivo è di stimolare la riflessione sulla salvaguardia della natura, sulla valorizzazione dell’ambiente, sulle conseguenze del cambiamento climatico in atto a livello globale e sul fenomeno dello spopolamento e abbandono della montagna”. Un progetto che oggi pare sul punto di espandersi ulteriormente con il Festival del Teatro di Montagna, che secondo i piani dovrebbe esordire nel 2025.

La serata di cui si racconta, con protagonista la Armenian National Philharmonic Orchestra, scavalla decisamente dai confini locali, come suggerisce il titolo “Dall’Ararat alle Alpi”.

Benché la quasi centenaria orchestra armena non goda della fama che meriterebbe – alla prova del palcoscenico dimostra di essere una compagine dall’identità timbrica ben definita e preziosa – scorrendo la sua storia ci si imbatte persino nel nome di Valery Gergiev, che ne fu direttore principale tra il 1981 e l’85. Ha ben altre dimensioni la reggenza di Eduard Topchjan, che guida la formazione sin dal 2000.

A vedere il suo gesto squadrato, quasi da maestro di banda, difficilmente si potrebbe immaginare che quello sbracciare didascalico si traduca in una flessuosità musicale tutt’altro che imbalsamata e in una delicatezza di tratto da vero artista del podio. Non lo si apprezza granché nel brano di apertura, un lavoro del 1917 di Gian Francesco Malipiero non particolarmente ispirato (Armenia, canti armeni tradotti sinfonicamente), mentre pare già evidente nel Concerto per violino e orchestra di Aram Khachaturian. Composto negli anni Quaranta del Novecento per David Oistrakh, il concerto sollecita il virtuosismo strumentale in tutte le sue declinazioni, dalla destrezza in velocità alla palette timbrica. Anush Nikogosyan ha qualità tecnico-espressive di prim’ordine, sia per la capacità di sbalzare colori e dinamica (anche verso pianissimi assai suggestivi), sia per la spontaneità nel porgere la frase musicale, e che dimostra altresì una solida intesa con il direttore di cui è stata allieva e con cui pare condividere una visione antiedonistica del racconto musicale, anche in una pagina così pirotecnica.

La Sinfonia delle Alpi che segue mette in mostra un’orchestra dalle qualità sorprendenti e, per certi versi, fuori dal tempo. A fronte dell’ormai diffuso conformismo di identità di orchestre più o meno blasonate, la Filarmonica armena ha un bel suono denso e tornito che ricorda, con le dovute cautele, le grandi orchestre russe, ma è altresì una pienezza d’impasto tutt’altro che greve, ma estremamente mobile e vellutata. In corso d’opera si apprezza inoltre un lavoro di concertazione attentissimo da parte del direttore, che ben bilancia equilibri interni e compattezza, ma anche una qualità strumentale delle sezioni stesse eccellente, che tradisce qualche piccola incrinatura solo verso la fine del concerto, probabilmente più per stanchezza che per veri e propri limiti intrinseci.

A fine concerto un bis inatteso: il Lied Beim Schlafengehen dai Vier letzte Lieder dello stesso Strauss affidato al soprano Hrachuhi Bassénz accompagnato, ancora una volta, da Anush Nikogosyan negli interventi del violino solo.

Successo molto caloroso e prolungato a fine concerto.

La recensione si riferisce al concerto di lunedì 11 dicembre 2023.

Paolo Locatelli

Vai al sito

Azerbaijan: stessa repressione, nomi diversi (Osservatorio Balcani e Caucaco 13.12.23)

Una recente serie di arresti in Azerbaijan, rivolti contro i pochi media rimasti indipendenti, ha riportato la mente ai giorni dell’ondata di repressione di 10-15 anni. Ma si è mai interrotta la persecuzione della società civile dell’Azerbaijan?

13/12/2023 –  Arzu Geybullayeva

La serie di arresti  che hanno preso di mira, nelle ultime due settimane, ciò che resta dei media indipendenti dell’Azerbaijan e il loro pugno di giornalisti ha riportato alla memoria gli asini blogger del 2008 e la repressione senza precedenti (all’epoca) della società civile iniziata nel 2013 e continuata l’anno successivo. Si è mai fermata la persecuzione della società civile dell’Azerbaijan? La risposta è relativamente semplice. L’ambiente ostile  nei confronti dei gruppi civici  in Azerbaijan non è mai cambiato. E nemmeno la persecuzione. Potrebbero esserci state delle pause nella repressione, ma non c’è stato alcun miglioramento nelle condizioni e nell’ambiente affinché la società civile potesse prosperare. È un modello fin troppo familiare in un paese in cui la vita delle persone non è altro che merce di scambio.

Rete di spie

Il motivo della recente ondata di arresti, che finora ha preso di mira almeno sei giornalisti  condannati alla custodia cautelare per una serie di accuse che vanno dal contrabbando all’edilizia illegale, al teppismo e alla resistenza alla polizia, è una presunta rete di spionaggio. I media filo-governativi  e statali sostengono che gli Stati Uniti abbiano costruito nell’ombra una rete di spie attraverso i loro programmi di formazione, iniziati negli anni ’90. Nessuno degli articoli pubblicati fornisce alcuna prova.

L’agenzia di stampa statale dell’Azerbaijan, in un articolo pubblicato  il 22 novembre, ha accusato USAID di essere la “sottostruttura della Central Intelligence Agency degli Stati Uniti”, sostenendo finanziariamente le ONG e altre iniziative per scopi esterni al mandato di USAID, ovvero rovesciare la leadership in Azerbaijan, i valori della famiglia e di essere solidale con l’Armenia. Lo stesso articolo prendeva di mira anche le organizzazioni LGBTQ, il collettivo femminista del paese e altre piattaforme mediatiche online, tra cui Abzas, per aver ricevuto fondi da USAID.

Il 18 novembre, il canale televisivo statale AzTV ha pubblicato  un video intitolato “U.S. smascherati gli agenti in Azerbaijan: quando inizierà la caccia?”. “Ora l’Azerbaijan, per rafforzare il suo successo militare, deve vincere la guerra ideologica anti-Azerbaijan degli Stati Uniti. Perciò deve smantellare la rete di spionaggio statunitense; le organizzazioni americane create in Azerbaijan devono essere seriamente indagate; le attività di USAID devono essere fermate e sottoposte a indagine”.

Stranamente, nessuno dei due organi di informazione si è preso la briga di guardare l’investimento totale che USAID ha fatto nel paese dal 1993. Secondo  il sito web dell’organizzazione americana, tale importo ammonta a 431 milioni di dollari in programmi, tra cui aiuti umanitari, settore sanitario, riforme economiche e di governance.

Il ministero degli Affari Esteri ha convocato anche i diplomatici delle ambasciate americana, tedesca e francese. Secondo il comunicato  successivamente diffuso, i diplomatici sono stati informati “che il portale di notizie Abzas Media ha effettuato operazioni finanziarie illegali con la partecipazione di organizzazioni registrate in questi paesi” e che “le ambasciate [di Stati Uniti, Francia e Germania] sono state coinvolte anche in questa attività”. La dichiarazione afferma anche che il ministero ha espresso “serie obiezioni a tale attività”.

Le ambasciate hanno prontamente respinto le accuse. In un’intervista con Voice of America, l’ambasciata americana ha affermato che queste accuse sono “false e fondamentalmente travisano lo scopo di [USAID]”. L’ambasciata tedesca ha dichiarato  di essere “preoccupata per le accuse contro [Mahammad] Kekalov”, che l’ambasciata ha sostenuto nel dicembre 2021, “in relazione ad una sfilata di moda, organizzata da Kekalov Adaptive, in occasione della Giornata internazionale delle persone con Disabilità”.

Le rivendicazioni antiamericane e antioccidentali non sono nuove in Azerbaijan. La più nota è stata guidata da Ramiz Mehdiyev, che nel 2014 ha pubblicato una diatriba  di 60 pagine contro le istituzioni occidentali e i loro partner in Azerbaijan, lanciando accuse a destra e a manca. “Oggi, mascherando le loro vere intenzioni, vari organismi internazionali di controllo dei diritti, think tank americani ed europei (che agiscono in collaborazione con gli Stati Uniti) e semplici organizzazioni non governative fingono di lavorare sui diritti umani, sui valori democratici e sull’economia di mercato e hanno stabilito una forte rete in tutto il mondo. Queste sono la nuova quinta colonna”, ha scritto Mehdiyev.

Quasi dieci anni dopo, tutto è rimasto uguale. Come ha affermato l’esperto e commentatore politico Camil Hasanli in una recente intervista a Meydan TV, nel dopoguerra il presidente Ilham Aliyev continua a perseguitare le persone che chiedono conto del suo operato, mentre il rapporto con l’Occidente ha preso questa piega: “Vi vendo petrolio e compro Boeing. Non potete chiedere libertà e democrazia, questi sono affari nostri”. L’obiettivo della più recente campagna diffamatoria è screditare i valori occidentali agli occhi della popolazione locale.

Lavoro rischioso

Denunciare la corruzione statale in Azerbaijan è sempre stato un lavoro rischioso. Decine di giornalisti  sono stati presi di mira per il loro lavoro investigativo. Quindi non è affatto sorprendente che sia arrivato il turno di Abzas Media. Questa piattaforma di notizie online indipendente ha scoperto numerose transazioni poco trasparenti, iniziative imprenditoriali e appalti statali discutibili collegati direttamente al governo o ai suoi affiliati.

Soprattutto negli ultimi due anni, ha indagato diligentemente gli investimenti effettuati nel Nagorno Karabakh da quando l’Azerbaijan si è assicurato la vittoria dopo la guerra di 44 giorni combattuta nel settembre 2020. Come la storia  della costruzione di un aeroporto a Fizuli e l’assenza di informazioni su come le società coinvolte nella costruzione si siano aggiudicate le gare d’appalto o dettagli sul budget stanziato. O la storia  delle società affiliate allo Stato che hanno beneficiato degli appalti di costruzione a Lachin e altrove nei territori riconquistati durante la Seconda Guerra, senza rivelare l’importo dei fondi statali stanziati. Oppure come un’azienda  notoriamente impegnata nel settore delle fognature, dei serbatoi d’acqua e delle condutture dell’acqua potabile ha rilevato la costruzione di case a Terter e molto altro  ancora.

A novembre, il direttore di Abzas Media Ulvi Hasanli e il caporedattore Sevinc Vagifgizi sono finiti in custodia cautelare con una falsa accusa  di contrabbando. Anche un altro collaboratore e partner di Abzas Media, l’attivista per i diritti dei disabili Mahammad Kekalov, sta affrontando le stesse accuse ed è ora in custodia cautelare. Poco dopo è stata arrestata  anche la giornalista Nargiz Abusalamova. Il 6 dicembre la social media manager della piattaforma è stata interrogata dalla polizia. Secondo quanto riferito  , anche i conti bancari dei dipendenti sotto inchiesta e dei loro familiari sarebbero stati congelati.

Sogni del dopoguerra contro realtà

Dopo la seconda guerra del Karabakh, la disillusa società civile dell’Azerbaijan sperava che la guerra avrebbe posto fine ad anni di repressione dei diritti umani. Questa transizione non è mai avvenuta. Al contrario, la paura e l’impunità hanno continuato a crescere. Leggi restrittive e intimidazioni nei confronti dei membri della società civile (compresi coloro che avevano apertamente sostenuto lo Stato durante la guerra) sono tornate la norma. Nel frattempo, dopo la vittoria in guerra lo Stato si è sentito più incoraggiato, e ciò che una volta avrebbe potuto funzionare (come le campagne internazionali di sostegno ai diritti umani o la strategia “name and shame”) non funziona più. Nel frattempo, coloro che si sono schierati a sostegno dello Stato osservano ignavi la continua repressione.

La repressione rimane la stessa, l’unica cosa che cambia sono i nomi di coloro che vengono sbattuti dietro le sbarre e di coloro che ne chiedono il rilascio.

Vai al sito

Armenia – Azerbaijan: si teme una nuova guerra nel Caucaso (Osservatorio diritti 13.12.23)

bombardamenti a tappeto sulla capitale e i villaggi del Nagorno Karabakh, l’esodo degli armeni dell’Artsakh dalla loro terra d’origine, l’arresto dei leader politici armeni e il loro trasferimento nelle carceri di Baku. E poi i video che ritraggono il presidente dell’Azerbaijan Ilham Aliyev entrare trionfante per le vie di Stepanakert (capitale dell’Artsakh, oggi ribattezzata dall’esecutivo azero Khankendi) e calpestare la bandiera del Nagorno Karabakh.

Sono tanti i segnali che indicano come la situazione tra Armenia e Azerbaijan, nonostante la scomparsa dell’ex autoproclamata repubblica armena, non sia affatto volgendo verso una pace stabile e duratura, ma continua anzi a rimanere tesa e il rischio reale è che la guerra nel Caucaso possa estendersi e coinvolgere direttamente Yerevan e Baku.

Leggi anche:
• Transnistria, lo stato fantasma in Moldavia nella guerra tra Russia e Ucraina
• Nagorno Karabakh: storia e fine dell’autoproclamata Repubblica dell’Artsakh

armenia azerbaijan guerra
Cimitero militare di Yerablur a Yerevan, Armenia – Foto: © Daniele Bellocchio

Armenia – Azerbaijan: guerra latente da oltre un anno

Una situazione di tensione e di guerra latente tra Armenia e Azerbaijan prosegue da più di un anno. Gli scontri alla frontiera tra l’esercito armeno e quello azerbaigiano sono diventati ordinari a partire dall’estate del 2021 e hanno raggiunto il loro apice nel settembre del 2022.

L’anno scorso, infatti, le truppe di Baku hanno lanciato un’offensiva in Armenia arrivando ad occupare e prendere controllo, prendendo in considerazione il periodo dal 2020 ad oggi, di oltre 150 chilometri quadrati di territorio della Repubblica d’Armenia.

Leggi anche:
• Nagorno Karabakh: guerra tra Armenia e Azerbaijan a un passo dallo sterminio degli armeni
• La guerra in Nagorno Karabakh negli occhi di una pacifista azera

armenia azerbaijan conflitto
Forze armene in Nagorno-Karabakh (1994) – dI Armdesant (via Wikimedia Commons)

Confine armeno-azero: il villaggio di Sotk

Nella zona di confine, uno dei villaggi che sono stati maggiormente toccati dai combattimenti è stato il piccolo paese di Sotk. Macerie e case riparate con tetti di lamiera sono la muta testimonianza di cosa è stato il conflitto del 2022, quando il villaggio è stato attaccato e investito da un intenso fuoco di sbarramento da parte delle truppe di Baku.

Oggi il fronte è distante solo 3 chilometri dal centro abitato, gli scontri sulla linea di contatto sono ordinari e la vita degli abitanti rimasti nel piccolo borgo armeno è scandita dalla paura, dall’impotenza e dal suono dei colpi dell’artiglieria.

«Prima che la guerra ci travolgesse qui a Sotk era davvero una bella vita. I campi davano ricchi frutti, avevamo il bestiame e in tutte le case c’erano luce e acqua corrente», dice a Osservatorio Diritti Susanna Mandelyan, più di 50 anni di età, che risiede insieme a suo padre in una casa provvisoria perché la sua è stata distrutta dai bombardamenti.

«Oggi la nostra esistenza è una sofferenza infinita. Ogni giorno ci svegliamo e non sappiamo se ci sarà una guerra o un cannoneggiamento. Tutti abbiamo paura che possa scoppiare un conflitto e che quello che è successo alla gente dell’Artsakh possa succedere a noi. La paura più grossa che abbiamo non è quella di morire, ma quella di vivere».

Terra contesa tra Armenia e Azerbaijan

A inizio novembre l’istituto Lemkin, che monitora la situazione dei diritti umani nel mondo con lo scopo di prevenire i genocidi, ha lanciato un’allerta rossa per quel che riguarda il rischio di una possibile aggressione dell’Azerbaijan nei confronti dell’Armenia.

A fine agosto l’esecutivo di Baku aveva ammassato truppe lungo tutto il confine, chiamando i riservisti a raccolta. In seguito, anche dopo l’attacco al Nagorno Karabakh, sono proseguiti scontri lungo il confine tra le due ex repubbliche sovietiche.

Oggi la questione che continua a provocare tensioni e rischi di escalation tra i due Paesi è la provincia di Syunik, chiamata dai turchi e dagli azeri corridoio di Zangezur:  il territorio della repubblica d’Armenia che separa l’exclave azera del Nachicevan e il territorio dell’Azerbaijan.

L’esecutivo di Aliyev, con l’appoggio del presidente della Turchia Erdogan, rivendica l’apertura di un corridoio che attraversi il territorio armeno e metta così in diretta  comunicazione le aree dell’Azerbaijan e, di riflesso, anche la Turchia, andando così a completare il sogno pan-turco di un’unione dei popoli turanici dalla penisola anatolica sino all’Oriente.

Il progetto, oltre ad essere osteggiato e condannato dall’Armenia, che accusa il vicino azero di attentare alla propria sovranità territoriale, ha raccolto l’opposizione anche dell’Iran che, in una prima fase, ha dichiarato che avrebbe impedito con ogni mezzo un cambio dello status quo della situazione ai suoi confini.

Nonostante l’intervento di Theran, la disputa relativa alla provincia Syunik continua però a rimanere una questione di primaria importanza per l’amministrazione azera, che ha rinominato il territorio conteso “Azerbaijan occidentale” rivendicandone un’appartenenza territoriale e fomentando l’irredentismo interno in una maniera che, con le debite proporzioni, ricorda quanto avvenuto in Nagorno Karabakh e che fa temere in maniera concreta il rischio di un nuovo conflitto.

«L’Azerbaijan potrebbe attaccare l’Armenia nelle prossime settimane», ha dichiarato in ottobre il segretario di stato americano Anthony Blinken.

Leggi anche:
• Guerra in Siria, storia di undici anni senza pace
• Curdi: storia di un popolo senza diritti e senza patria

armenia azerbaijan news
Monumento a Stepanakert, capitale del Nagorno Karabakh – Foto: Martin Cígler (via Wikimedia Commons)

Aria di conflitto nelle exclave azere e nei territori contesi

«Io ho sempre avuto un sogno, trasferirmi a Meghri, e quando ho raggiunto la pensione, dopo aver lavorato per anni in Russia come autista, con i risparmi di una vita sono venuto in questo angolo di mondo e ho costruito la mia casa».

A parlare così è Giorgiy Mkrtchyan, che vive nell’ultima casa dell’ultima città armena al confine con l’Iran. Un giardino ricco di frutti e fiori, un leggero vento che trasporta il profumo del glicine e del gelsomino e un panorama da incanto.

Davanti a lui le montagne iraniane che abbracciano il fiume Arax, intorno il sogno di sempre.

«Qui è dove il governo azero vorrebbe che passasse il corridoio che mette in comunicazione l’Azerbaijan con il Nachicevan. Questo significa che se ciò avvenisse io perderei tutto e verrei cacciato dalla mia casa e dalla mia terra. Se ciò avvenisse non avrei più alcuna ragione di vita».

Armenia – Azerbaijan, i faticosi colloqui di pace

Il dramma che sta attraversando Giorgiy è lo stesso dei cittadini che vivono nelle ex exclave azere presenti sul territorio armeno. Villaggi che, per la politica del divide et imperail governo sovietico consegnò ai due paesi, così che una minoranza etnica armena e azera fosse presente sia in Azerbaijan sia in Armenia e oggi queste decisioni, risalenti all’epoca socialista, stanno divenendo un ulteriore fattore di rivendicazione tra i due stati.

Gli incontri per arrivare a un definitivo accordo di pace continuano a vedere defezioni di entrambi i leader. Aliyev si è rifiutato di presentarsi a Granada il 5 ottobre e Pashinyan ha fatto lo stesso a Bishek, in Kirghizistan.

Ma se il leader armeno ha dichiarato di essere pronto a riconoscere l’integrità territoriale dell’Azerbaijan e che la pace deve costruirsi intorno al riconoscimento dell’integrità territoriale dei due Paesi, la delimitazione dei confini sulla base della dichiarazione di Alma Ata del 1991 e l’enunciazione di un progetto infrastrutturale ad ampio respiro denominato “Crocevia della pace”, la mano non è stata tesa in modo altrettanto conciliatorio dai rappresentanti politici di Baku.

E ora che l’Armenia si sta allontanando dalla Russia e avvicinandosi all’Occidente, il timore è che il Caucaso possa divenire un nuovo terreno di scontro nello scacchiere politico internazionale.

Armenia – Azerbaijan: la mappa

 

 

 

Vai al sito

Il genocidiuccio degli Armeni in Artsakh non attira lo sguardo, non provoca popolarità (Korazym 13.12.23)

[Korazym.org/Blog dell’Editore, 13.12.2023 – Renato Farina] – Notizie dai confini orientali della Repubblica di Armenia, in Italia siamo in pochissimi a portarvele sui carretti, fresche fresche, appena colte, interessano? Mi pare di sentire la risposta che per buona educazione, per paura di essere sgradevoli con questo venditore di news caucasiche, non osate pronunciare: «Le sappiamo a memoria le vostre news. Bravo, bravo continua pure, abbiamo pazienza. Ma sì, c’è un genocidio in corso, colpisce il popolo Cristiano del Nagorno-Karabakh ad opera dell’alleanza turco-azera, e se non viene fermato travolgerà l’intera Armenia, coi suoi tre milioni di abitanti. Ma che ci possiamo fare? Volete un’altra guerra? Non vi bastano quelle in corso?».

Queste frasi lo so che vi si rigirano nel cervello, è noioso il lamento dei moribondi, somiglia alle litanie dei mendicanti, ma vi vergognate anche solo a pensarlo, figuriamoci a dircelo in faccia, e ci date monetine di condiscendenza. Dai che lo so, come Molokano sono in odore di eresia, magari un «Cristianista», che sventola vessilli di una fede che non c’è più. Sperate solo per scomunicarmi – dai, ammettetelo – che proclami la necessità di una nuova Lepanto, invocando uno scontro salvifico come quello che il 7 ottobre 1571 fermò l’assalto ottomano all’Europa, grazie alle flotte degli alleati Cristiani che avevano aderito alla chiamata di San Pio V.

A dire la verità mi sono fatto l’idea, che la Lepanto di questo millennio ci sia già stata, e i discendenti della Cristianità siano già stati sconfitti. Non so bene né dove né quando, ma c’è stata una resa in Europa e negli USA; sottomessi nel cuore e nella pancia alla dissoluzione. Ci salvano le miriadi di martiri, l’onda del cui sangue in Africa e in Asia si rapprende imprigionando i piedi del diavolo. E più vicino a voi: qui in Armenia dove si accampano i profughi dell’Artsakh (nome materno del Nagorno-Karabakh).

Un altro Lepanto neanche per sogno
ma almeno smettere di armare gli Azeri?

Niente Lepanto, nessun interventismo bellico. Sono diventato moderato, molto moderato, accetto la debolezza del mio governo armeno, che non punta ad alcuna mobilitazione guerresca, ma si accontenta di preservare un resto di Armeni nella pace, di delimitare i confini della Repubblica con cippi invalicabili dagli orchi, e di procurare con accordi internazionali la possibilità di un ritorno dei nostri amati Arstacchiani nella terra più bella del mondo.

Non serve gridare mentre esplodono missili ovunque. Non ti sente nessuno. Per questo ho dismesso la corazza, deposto l’inutile megafono che non apre le orecchie ai sordi. Ho rinunciato all’idea di resistenza guerrigliera, che sarebbe certo legittima, come la vostra resistenza, ma la vostra funzionò perché gli alleati risalivano la Penisola. Ma non è per calcolo che lo dico, ma perché ho ascoltato la voce amorevole delle madri e dei preti barbuti che hanno accompagnato la carovana vilipesa dei deportati. In quest’epoca, gli eroi non devono guidare cavalcate nel vento, ma dolcemente aprire il proprio uscio e vicino al fuoco di legna caucasica, speziato di timo, porgere una tazza di latte e miele ai fratelli cacciati via, estirpati dalla loro stessa vita, ma fluorescenti.

Fratelli da custodire

Dico di più. Se anche bussasse un invasore Azero sperduto e ansimante, che ancora tra le dita avesse appiccicati i capelli di una ragazzina Armena la cui sorte non so, gli darei un angolo del mio giaciglio, se il Signore mi desse la grazia di essere buono come il Samaritano. Ci resta solo il patrimonio della bontà. Ah certo abbiamo combattuto, da millenni nemici ci assaltano, distruggono, impalano, ma i centomila dell’Artsakh hanno conservato il tesoro che vale più di tutto l’oro del Perù: la fede fatta carne in un popolo.
Per questo dovete custodire gli Armeni, peccatori e carnali, mistici con i calli, e il profilo di musicisti senza paga. Per favore l’Italia, voi Italiani che meravigliosamente ci volete bene, a dispetto dello Stato e dei suoi apparati, fate in modo che il vostro Paese si metta di mezzo. Commerci pure il gas con l’Azerbajgian, ma vigili sulla nostra insignificante libertà, ma che deve avere un peso incommensurabile se fa così paura.

Semplicemente, cara Giorgia (Meloni), cari Matteo (Salvini e Renzi), cari Antonio (Tajani) e Maurizio (Lupi), girate la testa verso di noi rischiando di spezzarvi un osso. Lo so, le piccole guerre, con le loro piccole paci, i piccoli morti, i genocidiucci, non attirano lo sguardo, non provocano popolarità. Accidenti, c’è già l’Ucraina, e poi Israele e Gaza, il Libano, l’Iran, e si staglia sullo sfondo Taiwan, senza dimenticare la guerra sottomarina che attraversa l’Artico. E chi siamo noi che da anni bussiamo sui vostri vetri sigillati con il silicone? Siamo fratelli.

La terza guerra mondiale a pezzi induce a concentrarsi sui frammenti più grossi, che già bastano a saturare l’attenzione. Dunque a chi può importare di noi? Siamo vostri fratelli, cribbio.

Il Senato americano ha votato all’unanimità
una legge che vieta di vendere armi all’Azerbajgian
Una volta tanto sarebbe bello per voi Italiani
essere più filoamericani che filoturchi

Una speranza da Capitol Hill

Dalla sponda orientale del lago di Sevan alzo lo sguardo senza neppure l’ansia di farvi sapere se gli Azero-Turchi, benevolmente osservati dai soldati Russi, muovono con i loro carri armati o inviano droni sopra le nostre teste per mozzarcele. Se anche esse rotolassero fino in Italia, fin sulla porta di Palazzo Chigi, non accadrebbe nulla, neppure un comunicato. Magari anzi ministri zelanti le incarterebbero e le rispedirebbero – le teste armene, dico – in Caucaso come merce indesiderabile e provocatoria. Finora 100mila persone sbattute via non dalle loro case e basta, ma proprio dalla loro terra, sangue, anima, chiese, icone, tombe, vigne, vino e olio, albicocche non hanno meritato da nessuna forza politica un gesto forte di solidarietà. Neppure a parole. E per di più il governo tifa spudoratamente per gli Azero-Turchi in nome del diritto internazionale per cui, contro l’evidenza delle coscienze, sarebbero le regole del bene a imporre questo male. Non è nato per questo il diritto a Roma.

Ma io oggi oso sperare. Senza rovesciare tavoli, il Senato americano ha votato all’unanimità una legge che vieta di vendere armi all’Azerbajgian. Una volta tanto sarebbe bello per voi Italiani essere più filoamericani che filoturchi.

Il Molokano

Questo articolo è stato pubblicato sul numero di dicembre 2023 di Tempi in formato cartaceo e sulla edizione online Tempi.it [QUI].

Foto di copertina: parata militare celebrativa della vittoria degli Azeri sugli Armeni dell’Artsakh a Stepanakert, ora rinominata Khankendi, l’8 novembre 2023.

Vai al sito

Scambio di prigionieri tra Azerbaigian e Armenia (Il Mattino di Padova 13.12.23)

L’Azerbaigian e l’Armenia hanno effettuato oggi uno scambio di prigionieri al confine tra i due Paesi, a Qazax. Baku ha liberato 32 prigionieri e Erevan due, secondo quanto annunciato dalla commissione governativa azera per i prigionieri di guerra e i dispersi, citata dall’agenzia russa Interfax.

Vai al video