Lavash, l’antichissimo pane armeno patrimonio Unesco dell’umanità (Informacibo 27.08.25)

Non c’è viaggio in Armenia che non sia anche un incontro con la sua ottima cucina e in particolare con il lavash, l’antichissimo pane che accompagna ogni pasto.

Vero e proprio pilastro della gastronomia locale, è un simbolo identitario che unisce tutti gli armeni sparsi nel mondo dopo la diaspora. La sua importanza è tale che nel 2014 l’UNESCO lo ha dichiarato patrimonio culturale immateriale dell’umanità, riconoscendone non solo il valore gastronomico, ma soprattutto il ruolo sociale e rituale.

Sottile, fragrante appena tolto dal forno (il tonir, quello tradizionale interrato), senza lievito e dalla forma piatta pronta ad avvolgere i vari condimenti, questo pane in Armenia si trova in ogni ristorante e in tutte le panetterie e i mercati.

Le origini, tra ritualità e sopravvivenza

pane-lavash-armeno
Il pane lavash armeno. Foto: Oriana Davini

Il lavash nasce come pane di comunità. Preparato in grandi quantità, veniva steso sottilissimo e cotto sulle pareti del tonir, il tipico forno in terracotta interrato che si riscalda fino a raggiungere altissime temperature. Le sfoglie cotte, una volta asciugate, potevano durare mesi interi: un aspetto fondamentale per chi doveva affrontare i rigidi inverni del Caucaso. Oltre all’Armenia, infatti, è diffuso anche in Turchia, in Iran (dove viene chiamato semplicemente pane armeno), in Georgia e in Azerbaijan, dove ha assunto caratteristiche locali pur mantenendo l’essenza originaria. Per secoli, insomma, non è stato solo un pane quotidiano, ma una riserva di sopravvivenza fondamentale.

La sua forma sottile e rotonda, la preparazione a base di farina, acqua e sale e la cottura nel forno in argilla interrato, sono elementi che lo rendono un prodotto unico e profondamente legato alla tradizione. E, al contempo, richiamano altri pani simili diffusi nelle cucine del Mediterraneo e del Medio Oriente, dalla pita greca fino al pane arabo.

La produzione del pane lavash

lavash-pane-armeno
La preparazione del pane lavash nel villaggio armeno di Tsaghkunk. Foto: Oriana Davini

Tradizionalmente sono le donne, spesso in gruppo, a lavorare l’impasto e a cuocerlo nel tonir, uno degli elementi fondamentali della cucina armena.

Questo forno tradizionale, inserito direttamente nel terreno, permette di cuocere le sfoglie direttamente sulle pareti calde: in pochi secondi, si staccano dal forno con le tipiche bolle dorate. Il risultato è un pane dalla consistenza croccante all’esterno e soffice all’interno. Questa tecnica di cottura antichissima, che oggi non è più molto diffusa (i panettieri usano spesso forni elettrici), aggiunge un valore culturale e affettivo al lavash, un po’ come accade da noi con la pizza cotta nel forno a legna.

Le fasi della produzione

lavash-pane-armeno
Il pane lavash viene cotto appoggiando la sfoglia per pochi secondi sulle pareti del forno. Foto: Oriana Davini
  1. Impasto: La farina, l’acqua e il sale vengono mescolati fino a ottenere un impasto omogeneo.
  2. Sfogliatura: l’impasto viene steso in una sfoglia sottile e uniforme, spesso con l’aiuto di un mattarello.
  3. Cottura: la sfoglia viene cotta su una pietra rovente o in un forno a legna.
  4. Essiccazione: il lavash cotto viene spesso essiccato per conservarlo più a lungo.

Il lavash nella cucina armena

pane-armeno-lavash
Il pane lavash farcito con erbe aromatiche e formaggio. Foto: Oriana Davini

Simbolo di ospitalità, il pane armeno non va mai tagliato con il coltello: si divide con le mani, offrendolo agli ospiti. Il lavash può essere consumato sia fresco che secco, e può essere utilizzato in molti modi:

  • Come accompagnamento: è spesso servito come piatto per raccogliere altre pietanze, come hummus, baba ghanoush, yogurt, formaggi, carne grigliata o verdure. A me è stato come spuntino da farcire con erbe aromatiche, amatissime nella cucine armena, e formaggio.
  • Come base per farciture: le più comuni includono carne marinata, verdure fresche, formaggi, erbe aromatiche e salse.
  • Come base per il lahmajoun, la pizza armena farcita solitamente con carne speziata.
  • Come ingrediente per zuppe: quello secco viene sbriciolato e aggiunto a zuppe, minestre e insalate, oppure usato come pangrattato per impanare.

Vai al sito

Netanyahu riconosce per la prima volta il genocidio degli armeni (Varie 27.08.25)

Il premier israeliano Netanyahu ha dichiarato di riconoscere a titolo personale il genocidio degli armeni, mentre le relazioni con la Turchia continuano a deteriorarsi

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha riconosciuto come genocidio il massacro degli armeni avvenuto tra il 1915 e il 1917. Lo ha fatto durante un’intervista in un podcast con il presentatore statunitense di origine armena Patrick Bet-David.

Alla domanda sul perché Israele non abbia mai riconosciuto il genocidio armeno, Netanyahu ha dichiarato: “Credo che l’abbiamo fatto perché la Knesset abbia approvato una risoluzione in tal senso”. Il parlamento israeliano non ha però mai approvato un atto del genere.

Il presentatore ha poi chiesto nuovamente perché nessun primo ministro israeliano abbia riconosciuto il genocidio e Netanyahu ha risposto: “L’ho appena fatto“.

Israele ha a lungo evitato di riconoscere formalmente il massacro ottomano dei cristiani durante la Prima guerra mondiale. Ma le dichiarazioni di Netanyahu indicano un possibile cambio di posizione, mentre le relazioni tra Israele e Turchia continuano a deteriorarsi

Né la Turchia né l’Armenia hanno commentato le parole del leader israeliano.

Critiche a Netanyahu

Le prime critiche sono arrivate dal Comitato nazionale armeno d’America (Anca). Aram Hamparian, direttore esecutivo di Anca, ha infatti affermato che le parole di Netanyahu saranno credibili solo se Israele porrà fine all’alleanza militare con l’Azerbaigian e farà pressioni sulla Turchia perché questa cessi il proprio negazionismo sul genocidio armeno.

Senza azioni concrete, ha aggiunto Hamparian, le dichiarazioni servono solo a coprire le violazioni di Israele.

Israele e il riconoscimento del genocidio armeno

Israele considera Ankara un partner commerciale e, a fasi alterne, anche un partner di sicurezza regionale, e non ha mai riconosciuto ufficialmente il genocidio armeno. La posizione è rimasta la stessa anche durante le crisi diplomatiche più forti, che hanno raggiunto il punto più critico durante la guerra in corso a Gaza.

Nel 2000, l’allora ministro dell’Istruzione israeliano Yossi Sarid, del partito di sinistra Meretz, annunciò l’intenzione di includere il genocidio armeno nei programmi di storia di Israele.

Nel 2001, quando le relazioni con la Turchia erano al loro apice, l’allora ministro degli Esteri israeliano Shimon Peres affermò che le “rivendicazioni armene” erano tentativi impropri di paragonare quanto accaduto all’Olocausto.

Nel giugno 2011, il deputato Aryeh Eldad, del partito di estrema destra Haihud Haleumi (Unione Nazionale), propose di dichiarare il 24 aprile giornata ufficiale di commemorazione del Genocidio armeno.

Nemmeno l’ex presidente israeliano Reuven Rivlin, in carica tra il 2014 e il 2021 e noto per essere un sostenitore del riconoscimento del genocidio, si è mai mosso in tal senso.

Nel 2018 una votazione alla Knesset sul riconoscimento del genocidio armeno è stata tolta dall’ordine del giorno e mai reinserita.

Il riconoscimento del genocidio armeno nel mondo

Ad oggi solo 34 stati hanno riconosciuto ufficialmente il genocidio armeno. L’Uruguay è stato il primo Paese a riconoscere il genocidio armeno con una legge del 1965.

La maggior parte dei paesi dell’Europa occidentale ha riconosciuto il genocidio, con l’eccezione di Spagna e Regno Unito.

Gli Stati Uniti hanno riconosciuto ufficialmente il genocidio solo dopo l’insediamento dell’ex presidente Joe Biden nel 2021, mossa che ha spinto la Turchia a convocare l’ambasciatore statunitense ad Ankara in segno protesta.

Tra i paesi arabi, solo la Siria e il Libano riconoscono il genocidio. In entrambi gli stati vivono centinaia di migliaia di persone di origine armena.

La maggior parte dei paesi dell’America Latina hanno riconosciuto il genocidio armeno.

Il riconoscimento del genocidio è arrivato anche da parte della Russia, mentre la maggior parte dei paesi dell’ex Unione Sovietica si rifiuta ancora di riconoscerlo.

La posizione della Turchia sul genocidio

La Turchia non ha ancora commentato le parole di Netanyahu. Tuttavia, la posizione ufficiale nel paese è ben nota. Ankara si rifiuta categoricamente di chiamarlo “genocidio” e ne fa riferimento con l’espressione “gli eventi del 1915”.

In una nota ufficiale del Ministero degli Esteri turco si legge: “Gli ultimi anni dell’Impero Ottomano furono un periodo tragico per il suo popolo. Turchi, armeni e altri hanno sofferto terribilmente“.

“Questo periodo deve essere compreso nella sua interezza e la memoria di tutte le vite perse deve essere debitamente onorata. Questo approccio richiede obiettività, una mentalità aperta ed empatia” prosegue la nota.

“La visione armena della storia, invece, isola solo le sofferenze degli armeni e le presenta in maniera distorta come un genocidio – un crimine definito dal diritto internazionale – commesso dai turchi contro gli armeni”.

“Far accettare questa narrazione ad altri paesi è diventata un obiettivo nazionale per l’Armenia e per i gruppi estremisti della diaspora armena. La Turchia non nega le sofferenze degli armeni, compresa la perdita di molte vite innocenti, durante la Prima guerra mondiale. Tuttavia, molti più turchi sono morti o sono stati uccisi negli anni precedenti e durante la guerra. Senza minimizzare le tragiche conseguenze per nessun gruppo, la Turchia si oppone alla rappresentazione unilaterale di questa tragedia come genocidio perpetrato da un gruppo contro un altro”.

“Non ci sono prove conclusive a sostegno dell’affermazione che ci sia stato un piano deliberato da parte del governo ottomano per sterminare gli armeni.” conclude la nota.

Le relazioni tra Turchia e Armenia

Nel frattempo, ad aprile il Ministero degli Esteri turco ha invitato l’Armenia a normalizzare i rapporti diplomatici.

I due paesi hanno ripreso i colloqui per la normalizzazione dei rapporti diplomatici nel 2021, dopo anni di stallo. I negoziati continuano ancora oggi.

A metà marzo, il primo ministro armeno Nikol Pashinyan ha dichiarato in una conferenza stampa a Erevan, la capitale armena, che la normalizzazione delle relazioni è ormai una questione di tempo.

Vai al sito 


Israele: per la prima volta riconosciuto il genocidio armeno (MosaicoCem)


Netanyahu riconosce il genocidio armeno, l’ira della Turchia: “Cinico tentativo di usare delle tragedie per scopi politici” (L’Espresso)


Netanyahu riconosce il genocidio armeno: ira di Ankara (Tio.ch)


Netanyahu riconosce per la prima volta il genocidio armeno. La rabbia della Turchia: “Copre i suoi crimini” (Haffingtonpost)


Netanyahu Riconosce il Genocidio Armeno, contro la Turchia. Ma Manca Il Riconoscimento Ufficiale. (Stilum Curiae)


 

Due grandi appuntamenti con la musica europea ad Alba. Ospiti internazionali per Chasing the Future – FrequenTa (Lavocedialba 26.08.25)

Il chitarrista francese Laurent Boutros il 14 settembre e il pianista jazz polacco Krzysztof Kobyliński il 10 ottobre alla Sala Riolfo

Dopo la pausa estiva, la rassegna Chasing the Future – FrequenTa torna con due date autunnali dal respiro internazionale.

La prima, Classic from France: Laurent Boutros, è in programma per domenica 14 settembre alle 21 in Sala Riolfo. Boutros, chitarrista e compositore nato vicino a Parigi nel 1964, è noto per il suo stile che si ispira alla musica popolare armena e del Caucaso. Dopo la formazione classica con Raúl Maldonado, ha sviluppato una scrittura musicale che unisce improvvisazione e radici mediorientali. Le sue opere sono pubblicate da importanti editori come Henry Lemoine e Productions d’Oz. Ha suonato in oltre 40 paesi e ricevuto commissioni prestigiose, tra cui una dal Centre Pompidou. Il regista Atom Egoyan lo ha definito un interprete profondo della tradizione armena.

Vai al sito

Processi politici in Armenia: repressione dell’opposizione in vista di una pace controversa (Opinione Pubblica 26.08.25)

Nel 2025 l’Armenia sta assistendo a un’ondata di processi ad alto contenuto politico contro esponenti dell’opposizione, dai membri del movimento “Sacra Lotta” e della Federazione Rivoluzionaria Armena (ARF, Dashnaktsutyun) a importanti critici del governo. Questi procedimenti giudiziari, denunciati dai critici come motivati da ragioni politiche, coincidono con il tentativo del primo ministro Nikol Pashinyan di raggiungere un accordo di pace con l’Azerbaigian mediato dagli Stati Uniti. Gli osservatori sottolineano che le autorità armene hanno cercato di eliminare i principali dissidenti nei mesi precedenti la dichiarazione di pace dell’agosto 2025, un accordo che molti in Armenia considerano una capitolazione de facto alle condizioni dell’Azerbaigian. La tempistica e la natura di questi processi hanno sollevato serie preoccupazioni circa il regresso democratico e la repressione nel Paese.

Il movimento “Sacra Lotta” sotto processo

Uno degli obiettivi principali della repressione è stato il movimento di protesta “Sacra Lotta”, una campagna patriottica lanciata nel 2024 per opporsi a quelle che i suoi membri considerano concessioni inaccettabili all’Azerbaigian. Il suo leader, l’arcivescovo Bagrat Galstanyan, un alto prelato della Chiesa apostolica armena, è stato arrestato il 25 giugno 2025 insieme ad almeno 14 sostenitori (tra cui attivisti dell’ARF). Ora sono sotto processo a Yerevan con l’accusa esplosiva di “cospirazione per rovesciare il governo attraverso atti terroristici”. L’atto d’accusa si basa in gran parte su registrazioni audio delle conversazioni di Bagrat, divulgate dagli investigatori, che sostengono che il gruppo abbia pianificato una violenta rivolta, dagli omicidi al sabotaggio delle infrastrutture.

Galstanyan e i suoi coimputati negano con veemenza le accuse, definendole una montatura. Nella prima udienza del 19 agosto, l’arcivescovo, ancora vestito con la tonaca nera, ha aperto con il Padre Nostro e ha proclamato la sua innocenza. “Non siamo terroristi, ma siamo terrorizzati da coloro che adorano il denaro e il potere”, ha dichiarato Galstanyan alla corte, definendo il processo una punizione per la sua posizione patriottica. Gli avvocati della difesa sostengono che le registrazioni segrete siano state manipolate e estrapolate dal contesto dalle autorità intenzionate a mettere a tacere il dissenso. È da notare che nelle perquisizioni approfondite delle abitazioni dei sospettati non sono state trovate armi o materiali incriminanti; l’avvocato di Galstanyan ha definito il caso «nient’altro che una rozza messinscena politica» da parte del Servizio di Sicurezza Nazionale.

I gruppi di opposizione e gli osservatori dei diritti umani hanno condannato i processi della Lotta Sacra come un palese tentativo di schiacciare il dissenso pacifico. Gli arresti sono stati accompagnati da raid su larga scala del NSS in oltre 90 luoghi, tra cui le case di attivisti dell’ARF e di un parlamentare dell’opposizione, nell’ambito di quella che il partito ARF Dashnaktsutyun definisce una “campagna diffamatoria volta a schiacciare il dissenso”. L’ARF e altre fazioni dell’opposizione hanno rilasciato dichiarazioni in cui denunciano la repressione come illegale e motivata politicamente, descrivendola come un tentativo di Pashinyan di “mettere a tacere i focolai della resistenza nazionale” in Armenia. I leader del Dashnaktsutyun sottolineano che l’unico “reato” dei loro membri è stato quello di opporsi a ulteriori concessioni territoriali all’Azerbaigian e accusano il governo di aver inventato accuse false per neutralizzare gli oppositori delle politiche di Pashinyan.

Clero e figure dell’opposizione bollati come “terroristi”

La repressione ha preso di mira in particolare esponenti di spicco del clero che si sono schierati con l’opposizione. All’arresto dell’arcivescovo Bagrat Galstanyan è seguito, due giorni dopo, il drammatico tentativo di arresto dell’arcivescovo Mikael Ajapahyan, il 27 giugno. Ajapahyan, altro critico schietto di Pashinyan, è stato infine accusato di “incitamento al rovesciamento violento dell’ordine costituzionale”, essenzialmente per aver suggerito in un’intervista che l’esercito destituisse l’attuale governo. Quando le forze di sicurezza hanno fatto irruzione nella cattedrale di Etchmiadzin per arrestarlo, centinaia di sacerdoti e fedeli indignati hanno bloccato fisicamente l’arresto. Il 61enne arcivescovo si è consegnato volontariamente dopo lo stallo e il suo processo è iniziato il 15 agosto sotto lo sguardo attento dell’opinione pubblica. La detenzione di Ajapahyan è stata prorogata nonostante i ricorsi della difesa, portandolo ad affermare con amarezza in tribunale che nemmeno il regime sovietico lo aveva arrestato per aver espresso la sua opinione, mentre «uno Stato che si definisce democratico sta ora limitando la libertà di parola attraverso la detenzione». La Santa Sede della Chiesa armena ha condannato il suo arresto come «vendetta personale» da parte della squadra di Pashinyan e prova di una «politica di persecuzione contro la Chiesa» guidata dal governo.

Questi sviluppi sono avvenuti nel mezzo di un confronto aperto tra Pashinyan e la Chiesa apostolica armena. A giugno, l’ufficio di Pashinyan ha lanciato una campagna per costringere alle dimissioni il Catholicos Garegin II, il patriarca supremo della Chiesa, accusandolo di irregolarità, tra cui la violazione del voto di celibato (vedi la nostra inchiesta sulla campagna di Pashinyan contro la Chiesa). Il 26 giugno, il giorno dopo l’arresto dell’arcivescovo Bagrat, Pashinyan ha persino minacciato di sfrattare con la forza il Catholicos dalla sua residenza di Etchmiadzin se non si fosse dimesso. Questo attacco senza precedenti alla leadership della Chiesa, combinato con l’incarcerazione di alti prelati, ha portato molti a concludere che il governo stia cercando di neutralizzare l’influente Chiesa come potenziale fonte di opposizione. I critici di Pashinyan affermano che le figure ecclesiastiche sono state prese di mira proprio perché stavano mobilitando l’opinione pubblica contro quelle che considerano pericolose concessioni ai nemici dell’Armenia. Pashinyan e i suoi alleati negano di perseguitare la Chiesa, sostenendo di starla semplicemente “riformando” rimuovendo quelli che definiscono ecclesiastici reazionari, una giustificazione accolta con grande scetticismo.

Gli attivisti dell’opposizione laica non hanno avuto sorte migliore. All’inizio di luglio, ondate di arresti hanno colpito giovani membri dell’ARF con accuse simili. Il 10 luglio, la polizia ha arrestato sette persone legate all’ARF Dashnaktsutyun, per lo più giovani attivisti, accusandole di preparare atti terroristici. Le autorità hanno diffuso le foto degli oggetti sequestrati (una bomba a mano, detonatori, radio), insinuando un complotto per un attentato dinamitardo, ma senza fornire alcuna prova di un piano concreto. Gli avvocati degli attivisti hanno ridicolizzato le accuse, spiegando che i dispositivi confiscati erano oggetti di scena per giochi di “strikeball” ( softair) e attrezzature legalmente possedute, non strumenti di terrorismo. Ciononostante, un attivista (il ventiduenne Andranik Chamichian) è stato accusato di “preparazione al terrorismo” e persino il figlio di un deputato dell’opposizione (Taron Manukian, figlio del parlamentare dell’ARF Gegham Manukian) è stato arrestato dopo un raid nella sua abitazione. Esponenti dell’ARF hanno denunciato questi arresti come infondati e orchestrati a fini politici, sottolineando che inizialmente agli avvocati era stato impedito di incontrare i detenuti. “Le continue repressioni sono il risultato della paura delle autorità stesse”, ha affermato il parlamentare Gegham Manukian, accusando il governo di “terrorizzare il popolo [e] cercare di creare false immagini” per diffamare i suoi oppositori. Anche alcuni degli arrestati a giugno insieme all’arcivescovo Galstanyan erano membri dell’ARF: ad esempio, il deputato dell’opposizione Artur Sargsyan è stato incriminato nello stesso caso, basandosi in gran parte sulle controverse intercettazioni telefoniche delle discussioni di Galstanyan.

Gli osservatori internazionali sottolineano che questa ondata di casi di “terrorismo” contro membri del clero e dell’opposizione non ha precedenti nell’Armenia post-sovietica. Il momento in cui sono stati compiuti ha suscitato particolare indignazione: le retate e le incriminazioni di giugno-luglio 2025 sono avvenute proprio mentre Pashinyan si avvicinava alla conclusione di un accordo di pace con l’Azerbaigian. Infatti, il 10 luglio, lo stesso giorno in cui sono stati arrestati i sette giovani Dashnak, Pashinyan era all’estero per incontrare il presidente azero Ilham Aliyev ad Abu Dhabi, dove stava definendo gli ultimi dettagli di un accordo di pace mediato dagli Stati Uniti. I leader dell’opposizione sostengono che non si tratti di una coincidenza. Ritengono che Pashinyan abbia cercato di prevenire qualsiasi protesta di massa o resistenza incarcerando in anticipo i patrioti più accesi. “Questi arresti fanno parte della repressione in corso contro tutti i critici che resistono ai piani [del governo] di fare ulteriori concessioni all’Azerbaigian”, ha affermato una dichiarazione dell’ARF, definendo le accuse motivate da ragioni politiche. Anche i media locali e la società civile hanno messo in guardia che l’Armenia sta assistendo a “una preoccupante erosione della libertà”, poiché il governo utilizza le forze di sicurezza e i tribunali per mettere a tacere i dissidenti con il pretesto della sicurezza nazionale.

Il caso di Samvel Karapetyan: da oligarca a prigioniero politico

Forse la figura più in vista coinvolta in questa campagna è Samvel Karapetyan, un imprenditore miliardario e filantropo. Karapetyan, presidente del conglomerato russo Tashir Group e uno dei più ricchi benefattori dell’Armenia, è stato arrestato in modo drammatico il 18 giugno 2025 dopo aver reso pubblici alcuni commenti in difesa della Chiesa apostolica armena nel suo scontro con l’amministrazione Pashinyan. Aveva rilasciato una dichiarazione al vetriolo in cui criticava il trattamento riservato dal governo alla Chiesa e ad altre istituzioni nazionali. Nel giro di un giorno, le forze dell’ordine hanno fatto irruzione nella residenza di Karapetyan a Yerevan; il magnate è stato arrestato e accusato di “incitamento pubblico all’usurpazione del potere”, essenzialmente accusato di aver incitato un colpo di Stato (vedi la nostra inchiesta su questo caso).

I critici sottolineano lo straordinario zelo con cui il governo di Pashinyan ha poi agito contro gli interessi commerciali di Karapetyan. Subito dopo l’arresto, il primo ministro Pashinyan ha dichiarato che era giunto il momento di nazionalizzare la società di servizi pubblici di Karapetyan, Electric Networks of Armenia (ENA). Il partito al potere ha rapidamente approvato una legge che autorizza lo Stato a sequestrare i beni dell’ENA, una mossa ampiamente vista come punitiva e di ritorsione. In risposta, la famiglia di Karapetyan ha presentato una richiesta di arbitrato d’urgenza all’estero. Un arbitro della Camera di Commercio di Stoccolma è intervenuto per congelare l’azione del governo armeno, avvertendo che la confisca dell’ENA avrebbe violato i trattati di investimento e ostacolato qualsiasi futuro risarcimento dei danni. Questa reprimenda legale internazionale ha costretto le autorità armene a sospendere, almeno temporaneamente, il loro progetto di nazionalizzazione.

Nel frattempo, Samvel Karapetyan rimane dietro le sbarre a Yerevan e il suo calvario legale si fa sempre più intricato. Dopo il suo arresto iniziale, gli investigatori hanno aggiunto una seconda serie di accuse, accusando Karapetyan di riciclaggio di denaro, dopo aver condotto approfondite verifiche e perquisizioni nelle sue aziende. Gli avvocati di Karapetyan contestano con forza queste accuse e hanno ottenuto alcune vittorie: l’11 agosto, la Corte d’appello penale armena ha stabilito che l’arresto di Karapetyan del 18 giugno era illegale, sottolineando che era stato detenuto senza un motivo valido per oltre nove ore. In precedenza, un tribunale aveva anche giudicato illegale la perquisizione della sua abitazione. Tuttavia, nonostante queste sentenze, l’uomo d’affari non è stato rilasciato. Le autorità hanno rapidamente presentato ricorso contro le decisioni e hanno mantenuto Karapetyan in custodia cautelare per oltre due mesi, semplicemente detenendolo sulla base delle nuove accuse per aggirare le conclusioni del tribunale. Questa manovra ha sollevato allarmi sullo stato di diritto, suggerendo che quando i tribunali non danno la risposta “giusta”, la procura cambia semplicemente tattica per garantire che un critico del governo rimanga in carcere.

Il caso Karapetyan ha attirato l’attenzione e la condanna della comunità internazionale. A metà agosto, il famoso avvocato internazionale Robert Amsterdam ha visitato l’Armenia e ha definito il procedimento un “spettacolo politico” e un atto di vendetta, del tutto inadeguato a un paese democratico. “Qualsiasi procedimento legale che si svolge qui è come uno spettacolo”, ha detto Amsterdam in una conferenza stampa a Yerevan, sottolineando che il procuratore generale che conduce il caso è strettamente allineato con l’ufficio del primo ministro. Ha avvertito che il comportamento del governo armeno “attirerà l’attenzione di tutti i partner politici ed economici” e ha promesso di sollevare la questione di Karapetyan davanti agli organismi giuridici internazionali. L’arresto di Karapetyan ha infatti causato attriti diplomatici: il miliardario ha sia la cittadinanza russa che quella armena e il Cremlino ha apertamente espresso la preoccupazione che egli sia oggetto di “accuse di natura politica”. Per molti in Armenia e nella diaspora, lo spettacolo di un uomo d’affari patriottico, noto per i generosi contributi alle cause nazionali, incarcerato e con le sue aziende minacciate, invia un messaggio agghiacciante. Sottolinea fino a che punto il governo di Pashinyan è disposto a spingersi per mettere a tacere le voci influenti che contestano la sua narrativa. Come ha lamentato una figura dell’opposizione, il destino di Karapetyan “è ampiamente visto nei circoli dell’opposizione come parte di una più ampia repressione del dissenso” da parte di un regime che sta scivolando verso l’autoritarismo.

Accordo di pace o capitolazione? Zittire il dissenso prima degli accordi di Washington

Questi processi politici si svolgono sullo sfondo di un controverso processo di pace tra Armenia e Azerbaigian. L’8 agosto 2025, il primo ministro Pashinyan e il presidente Aliyev dell’Azerbaigian si sono incontrati alla Casa Bianca a Washington D.C., sotto l’egida del presidente degli Stati Uniti Donald Trump, per firmare una dichiarazione di pace congiunta volta a porre formalmente fine al conflitto decennale. Pashinyan ha accolto con favore gli accordi di Washington come una “svolta storica” che inaugura una “nuova era” per la regione. In un discorso televisivo del 18 agosto, ha affermato che l’accordo segna la fine ufficiale del conflitto e ha persino annunciato che lui e Aliyev nomineranno congiuntamente Trump per il Premio Nobel per la Pace per averlo mediato. I termini dell’accordo, ora resi pubblici, prevedono la riapertura delle vie di trasporto e la delimitazione dei confini sulla base delle linee dell’era sovietica, con l’Armenia che riconosce apparentemente la sovranità dell’Azerbaigian sulle zone contese, tra cui la più dolorosa è il Nagorno-Karabakh (Artsakh), la regione popolata da armeni persa nel 2020 a favore dell’Azerbaigian. Secondo Pashinyan, si tratta di un accordo “vantaggioso per tutti” che farà uscire l’Armenia dall’isolamento, porterà investimenti (tramite una proposta iniziativa denominata “Peace Crossroads/Trump Path”) e consentirà agli armeni di “vivere in un’Armenia completamente diversa”, libera da conflitti perpetui (vedi la nostra inchiesta su questo accordo di pace).

Tuttavia, gran parte dell’opinione pubblica armena e della diaspora considera la cosiddetta pace poco più che una capitolazione mascherata. Per molti, la firma di Pashinyan a Washington consolida essenzialmente la vittoria dell’Azerbaigian, costringendo l’Armenia a ingoiare compromessi difficili senza garantire giustizia o sicurezza agli armeni dell’Artsakh. I critici accusano Pashinyan di “vendere la sconfitta come pace”. “Ciò che viene venduto al popolo armeno come ‘pace’ potrebbe, in realtà, essere una sconfitta riproposta, che rischia di cancellare la giustizia, legittimare l’aggressione e abbandonare coloro ai quali non sono state mantenute le promesse”, ha scritto senza mezzi termini un commentatore. In nessuna parte dell’accordo viene affrontata la difficile situazione dei 120.000 armeni sfollati dell’Artsakh; Pashinyan ha esplicitamente rifiutato di insistere sul loro diritto al ritorno, definendo l’idea stessa “pericolosa” e esortando gli armeni a “dimenticare” l’Artsakh in nome della pace. Questo drastico cambiamento ha indignato le figure dell’opposizione. “Dichiarando permanente la spoliazione della patria, lo Stato sta condizionando i suoi cittadini ad accettare la cancellazione”, ha avvertito Metakse Hakobyan, deputata dell’Artsakh, secondo la quale la retorica della “vera Armenia” di Pashinyan è essenzialmente una “filosofia della capitolazione” che insegna al pubblico ad accettare la perdita come realismo. Lei e altri temono che se oggi si insegna agli armeni ad accettare la perdita dell’Artsakh, «domani la stessa logica potrebbe applicarsi a qualsiasi parte dell’Armenia».

In questo contesto, la tempistica della repressione del governo armeno nei confronti delle voci dell’opposizione assume un significato particolare. Tutti gli arresti più importanti – Galstanyan, Ajapahyan, Karapetyan, i giovani dell’ARF e altri – sono avvenuti tra la fine di giugno e l’inizio di luglio 2025, poche settimane prima del vertice di Washington e della dichiarazione. Pashinyan ha efficacemente rimosso o intimidito molti dei potenziali leader delle proteste di massa che avrebbero potuto scoppiare in risposta a un accordo di pace considerato un tradimento degli interessi nazionali. Infatti, quando Pashinyan è tornato in patria e ha elogiato la “stabilizzazione della pace” a metà agosto, le strade di Yerevan erano relativamente tranquille, secondo i critici in gran parte perché i principali organizzatori dell’opposizione erano dietro le sbarre o impegnati in procedimenti giudiziari. “La repressione all’interno dell’Armenia stessa [sta] crescendo”, ha osservato Hakobyan, citando i “processi politici, gli arresti e la persecuzione dei dissidenti – genitori di soldati caduti, membri del clero e parlamentari in carica” che si sono moltiplicati negli ultimi mesi. Questa ondata di repressione, ha osservato, sta modificando radicalmente il panorama politico armeno, creando un “nuovo ordine politico” in cui opporsi alla linea del governo può portare alla prigione. Altri leader dell’opposizione sono stati ancora più diretti: “Se un Paese ha prigionieri politici, quel Paese è sotto occupazione”, ha affermato Hakobyan, sostenendo che l’Armenia sotto Pashinyan sta sacrificando la sua sovranità e dignità sotto le spoglie della “pace”. A loro avviso, Pashinyan ha prima capitolato davanti all’Azerbaigian e ora sta usando l’apparato statale per garantire che anche gli armeni capitolino alla sua narrativa, mettendo a tacere chiunque si rifiuti di tacere sulla sconfitta.

Una svolta critica

I processi politici in corso in Armenia hanno messo in luce l’impegno del governo nei confronti delle norme democratiche in un momento critico della storia della nazione. Il primo ministro Pashinyan, salito al potere come riformatore nella “Rivoluzione di velluto” del 2018, è ora accusato di tattiche autoritarie che ricordano un’epoca più buia. I partiti di opposizione, i gruppi della società civile e gli osservatori internazionali avvertono che perseguire il clero, i giornalisti, gli imprenditori e gli attivisti dell’opposizione con leggi antiterrorismo discutibili è un grave abuso di potere. Sostengono che le autorità armene, nel tentativo di imporre una pace impopolare, hanno calpestato la libertà di espressione e il giusto processo, minando la democrazia stessa che le ha portate al potere.

Mentre l’Armenia affronta un futuro incerto nel Caucaso meridionale post-bellico, questi processi sollevano interrogativi inquietanti: a quale costo è stata raggiunta la “pace”? E una pace fondata sul silenzio dei dissidenti potrà davvero essere sostenibile? Per ora, i sostenitori del movimento “Sacra Lotta” e i membri dell’ARF Dashnaktsutyun languiscono nei tribunali e nelle celle delle prigioni, proclamando con sfida il loro patriottismo anche se bollati come criminali. “Presto la nostra sicurezza esterna sarà ricostruita”, ha scritto Samvel Karapetyan dalla sua cella, esprimendo fiducia nel fatto che l’Armenia supererà l’attuale tumulto. Il suo ottimismo è condiviso da molti armeni comuni che credono che l’anima della loro nazione sia messa alla prova. Ai loro occhi, la vera lotta non riguarda solo un trattato di pace o un governo, ma il carattere stesso dello Stato armeno: se rimarrà pluralistico e libero o scivolerà ulteriormente nella repressione. L’esito di questi processi politici potrebbe plasmare il destino dell’Armenia per gli anni a venire, determinando se il Paese potrà raggiungere una pace reale senza perdere la democrazia e la giustizia per cui il suo popolo ha lottato a lungo.

Vai al sito

Armenia, la fede di un popolo scolpita nella pietra e nei cuori (Catt.ch 26.08.25)

C’è una fede che ha preso dimora nella pietra. Non solo scolpita nelle croci di tufo giallo e rosa che punteggiano ogni collina d’Armenia, ma incisa nella memoria viva di un popolo che ha fatto della Croce la propria identità. È con questo spirito che mi sono messa in viaggio, con l’Associazione Russia Cristiana, verso la prima nazione ad aver abbracciato ufficialmente il cristianesimo, nel lontano 301 d.C., sotto la guida di San Gregorio l’Illuminatore e del re Tiridate III.

Alle origini di una fede nazionale

Il nostro viaggio comincia a Yerevan, capitale che accoglie circa un terzo della popolazione armena, per poi spingersi tra monasteri e alture, là dove il paesaggio incontra e si fonde con la storia e la spiritualità. Tra le prime tappe, Zvartnots, splendore architettonico del VII secolo oggi in rovina, e le chiese delle martiri Hripsimé e Gayané, testimoni del coraggio di chi ha scelto Cristo fino alla fine.

La nostra guida, Viktorya Mangasaryan, ci offre una chiave di lettura semplice ma potente: «Per mantenere la nostra identità abbiamo scelto il cristianesimo». Tre sono, secondo lei, i pilastri dell’identità armena: la lingua, la religione e l’alfabeto.

Khachkar: la Croce che fiorisce

Camminando in Armenia si capisce perché si dice che la fede sia «scolpita nella pietra». «Ovunque ci sono khachkar, croci di pietra. Non sono solo arte: ogni croce ci ricorda chi siamo», ci dice ancora la guida. I khachkar sono commemorativi, funerari o decorativi, ma nessuno è uguale all’altro, come le persone. Unico, quello di Haghpat che reca persino l’immagine di Cristo con gli apostoli, nonostante la Chiesa armena sia tradizionalmente piuttosto aniconica. Le croci affusolate, simili a germogli, esprimono un messaggio: la croce è segno che si può rinascere dalla morte.

Echmiadzin e il cuore della fede

Visitare Echmiadzin, il «Vaticano d’Oriente», a pochi chilometri da Yerevan, significa entrare nel cuore della Chiesa apostolica armena, che raccoglie il 95% della popolazione. Una Chiesa antica, indipendente da Roma ma anche dalle altre Chiese ortodosse, sopravvissuta a persecuzioni e decenni di ateismo imposto. «Durante il comunismo le chiese erano chiuse, ma nelle case si continuava a pregare», racconta Viktorya, che sotto il regime sovietico era costretta a seguire lezioni di ateismo.

Oggi, la Cattedrale di San Gregorio l’Illuminatore, costruita nella capitale nel 2001 per celebrare 1’700 anni di cristianesimo, testimonia che la fede non è solo memoria, ma resistenza: «Ogni giorno per noi è un giorno di lotta. Lottiamo per vivere».

L’Ararat, la montagna perduta

Come il Fujiyama per il Giappone, l’Ararat – o Massis, come lo chiamano gli armeni – è il monte sacro dell’Armenia. Un vulcano maestoso (5’156 m) che domina l’orizzonte dell’Armenia, pur trovandosi oggi oltre la – chiusa– frontiera turca. «Via dalla montagna sacra: l’Ararat ora sarà per noi un paese straniero», piansero gli armeni dopo il trattato di Kars del 1921, quando i sovietici cedettero la vetta alla Turchia. Dal monastero di Khor Virap intravvediamo bene l’Ararat (dopo giorni di foschia), ma oggi nessun armeno può salirvi. Solo una baracca di soldati, e greggi erranti in una terra di nessuno separano il popolo dalla sua vetta simbolo.

Eppure l’Ararat vive più che mai nell’anima armena: la cima innevata, è lontana ma presente in ogni canto, poesia, bandiera.

Tra manoscritti e albicocche

Nel cuore della capitale, il Matenadaran, il museo con oltre 18.000 antichi manoscritti, è testimone della cura con cui gli armeni hanno sempre custodito la parola scritta. «I primi maestri erano i monaci – spiega Viktorya – e l’alfabeto fu inventato proprio per rendere comprensibile la Messa al popolo».

Anche la bandiera armena parla la lingua del popolo: il colore arancione richiama il frutto simbolo del Paese, insieme al melograno, l’albicocca, e la fertilità della sua terra, ma anche la forza di chi lavora.

Memoria viva

La memoria è un altro filo che unisce fede e identità. Nell’ultima sala silenziosa del Museo del Genocidio che ripercorre il genocidio del 1915, Viktorya Mangasaryan ci racconta della nonna, sopravvissuta alla deportazione. «Dopo i lavori di casa si sedeva in silenzio a fumare, con le lacrime agli occhi. Anche nei suoi ultimi anni di vita teneva sempre un pezzo di zucchero nel grembiule e lo stringeva. Noi bambini non capivamo e ne ridevamo. Abbiamo scoperto dopo la sua morte che durante le marce forzate verso l’esilio i nonni davano ai bambini nel deserto una zolletta da leccare, per farli resistere alla fame». Una storia semplice, eppure emblematica.

Anche oggi, la fede armena è messa alla prova. «Il Nagorno-Karabakh è una ferita aperta», dice la guida. «Nonostante tutto, resta forte la speranza. Noi armeni crediamo nella rinascita. Come le nostre croci». Anche noi lo sentiamo, seppur da visitatori: la fede armena si rivela per ciò che è. Sì, l’Armenia, definita «terra delle pietre urlanti», pietre che urlano una speranza che non si spegne.

Vai al sito

La realtà del Nagorno-Karabakh: la croce nel silenzio delle montagne (Catt.ch 26.08.25)

C’è una ferita che pulsa nel cuore del Caucaso: è quella del Nagorno-Karabakh, terra montuosa e antica, a lungo abitata da una popolazione armena e cristiana, oggi svuotata della sua presenza. Il nome di questa regione è tornato con forza alla ribalta nel 2020 e poi nel 2023, quando nuove offensive militari azere hanno portato alla fuga 120.000 armeni in poche settimane, diretti verso l’Armenia con nient’altro che qualche valigia, icone e memoria.

Alcuni di questi profughi si sono insediati nei villaggi e nelle città che ho visitato, chi ha potuto ha raggiunto la diaspora, i tanti parenti che popolano altre parti del mondo portando con sé una fede temprata dalla sofferenza.

Una storia lunga e complessa

Il conflitto affonda le radici nel XX secolo, quando Stalin assegnò il Nagorno- Karabakh, a maggioranza armena, alla Repubblica sovietica dell’Azerbaigian. Alla fine dell’Unione Sovietica, tra il 1988 e il 1994, esplose un primo conflitto sanguinoso, che si concluse con una vittoria armena e la nascita di una Repubblica dell’Artsakh, mai riconosciuta a livello internazionale. Nel 2020, una nuova guerra ha portato l’Azerbaigian a riconquistare ampie porzioni del territorio. E infine, nel settembre 2023, con una rapida offensiva, Baku ha preso il controllo totale del Nagorno-Karabakh. In meno di una settimana, l’intera popolazione armena è stata costretta a lasciare la regione.

Un esodo che interroga la coscienza

Chi visita oggi l’Armenia avverte questo dramma come una presenza sottile, ma costante. Nei volti, nei racconti delle guide, nei numerosissimi murales nei luoghi pubblici che raffigurano i volti dei soldati caduti durante il conflitto del 2020. Forse proprio il segno che mi colpisce di più, perché sono disegnati con cura, con dovizia di particolari, quasi a volerci raccontare l’unicità di questi soldati dal tragico destino comune. Dipinti che commemorano i soldati, ma rappresentano anche un modo per esprimere dolore, rabbia e resilienza da parte della società armena di fronte al conflitto. Ma si tratta di un dolore che non ha parole, che si intuisce in un khachkar abbandonato, in un monastero svuotato, nella preghiera silenziosa di chi ha perduto tutto, fuorché la fede. La guida ci racconta che spesso i rifugiati sono scappati solo con l’immagine della Madre di Dio a loro tanto cara e una manciata di terra, perché le loro tombe sono rimaste là.

Un silenzio che parla

Il Karabakh oggi è completamente disabitato dagli armeni. Le chiese sono chiuse, le croci solitarie. L’accordo di Pace firmato ad inizio agosto tra Azerbaigian ed Armenia non porta una riga sulla questione dell’esodo avvenuto due anni fa, né sui prigionieri ancora incarcerati. Mediato dagli Stati Uniti, è un accordo incomprensibile: che cosa guadagna davvero l’Armenia? L’oblìo di quei volti e di quell’esilio forzato? Ma il grido di questo popolo non è scomparso. Come cristiani, siamo chiamati a non distogliere lo sguardo, a pregare per la giustizia e la riconciliazione, e a sostenere – anche solo con la memoria – chi ha portato e porta la croce.

L’iniziativa svizzera

Sull’accordo tra Armenia e Azerbaigian, l’organizzazione umanitaria Christian Solidarity International raccomanda di sostenere l’«Iniziativa svizzera per la pace nel Nagorno-Karabakh », con la quale la Svizzera, nel coinvolgimento di altri Paesi, si impegna a organizzare un forum per la pace tra l’Azerbaigian e i rappresentanti della popolazione sfollata del Nagorno-Karabakh.

Vai al sito

Armenia-Italia: a Dilijan apre Apicius Armenia International School di ospitalità e gastronomia (AgenziaNOva 26.08.25)

Erevan, 26 ago 10:20 – (Agenzia Nova) – Dal settembre 2025 l’Armenia ospiterà la sua prima scuola internazionale dedicata all’ospitalità e alla gastronomia. A Dilijan aprirà la Apicius Armenia International School, realizzata in partnership con l’Apicius International School of Hospitality di Firenze, una delle scuole più prestigiose d’Europa. Lo riferisce Armenpress. Secondo Katya Bredikhina, responsabile della Fondazione Green Rock e del progetto Apicius Armenia, l’istituto sarà il primo centro accademico e professionale del settore nella regione. “Il nostro obiettivo è offrire ai giovani armeni un’istruzione di livello internazionale senza dover lasciare il Paese, combinando le tradizioni locali con l’esperienza europea”, ha dichiarato. Il programma biennale offrirà diplomi in gestione alberghiera e gastronomia ed enologia. Gli studenti frequenteranno il primo anno a Dilijan e potranno completare il percorso in Armenia o trasferirsi a Firenze, ottenendo un certificato europeo. Sono previsti anche corsi brevi per professionisti già attivi nel settore – chef, direttori d’albergo, ristoratori – e masterclass aperte a turisti e appassionati, con eventi di degustazione e cucina interculturale. (segue) (Rum)

Anche fra armeni e azeri, la “pace” siglata sotto l’egida di Donald Trump sembra una resa all’aggressore (Il Foglio 26.08.25)

Nel Caucaso è entrato in gioco la potenza americana a scapito dei suoi due tradizionali protettori, Russia e Iran. I fantasmi di Monaco e del corridoio di Danzica aleggiano nelle menti. Questo accordo concede all’Armenia una tregua precaria

“Lo scorso 8 agosto, il primo ministro armeno, Nikol Pashinyan, il presidente azero, Ilham Aliyev, e il presidente americano, Donald Trump, hanno firmato un memorandum d’intesa in sette punti che impegna le parti a concretizzare un accordo di pace definitivo” scrive sul Figaro Tigrane Yegavian. “Allo stesso tempo, l’Armenia e gli Stati Uniti hanno firmato accordi bilaterali in merito allo sviluppo del progetto armeno ‘Crocevia della pace’, l’intelligenza artificiale e i semiconduttori, nonché la sicurezza energetica. Si tratta certamente di un evento importante nella storia di questo nodo gordiano geostrategico che è il Caucaso meridionale, poiché segna l’entrata in gioco della potenza americana a scapito dei suoi due tradizionali protettori, Russia e Iran. Era l’ultima carta che Erevan aveva in mano.

 

Il principale ostacolo era il controllo del corridoio di Syunik (Zangezur), che il regime di Baku intendeva ottenere con le buone o con le cattive. Il terzo punto del memorandum – probabilmente il più cruciale – sostiene l’apertura delle frontiere e delle vie di trasporto, rafforzando al contempo la sovranità, l’integrità territoriale e la giurisdizione dell’Armenia, con un concetto di reciprocità evocato più avanti nel paragrafo. Per quanto riguarda l’apertura delle comunicazioni regionali, il principio di sovranità, di integrità territoriale e di giurisdizione è incluso nella dichiarazione firmata da Aliyev, Pashinyan e Trump. Tuttavia, il principio di reciprocità, essenziale per l’Armenia, è menzionato solo indirettamente come ‘vantaggi reciproci’. Ancora più problematico è il termine ‘connettività senza ostacoli’ tra l’Azerbaigian e il Nakhichevan, già utilizzato nel 2020, che le due parti interpretano in modo diverso da anni. I dettagli sull’apertura delle comunicazioni e sul ruolo degli Stati Uniti non sono ancora stati resi noti, lasciando molte questioni in sospeso. Anziché respingere la richiesta di Baku, Washington ha legittimato questo corridoio, trasformandolo in un argomento di soluzioni creative. Tuttavia, l’accordo non è del tutto equilibrato. Il percorso di Meghri – soprannominato “Trump Route for International Peace & Prosperity” (Tripp) – sarebbe gestito e controllato dagli Stati Uniti e da altri appaltatori stranieri. Al contrario, l’accesso ferroviario armeno attraverso il Nakhichevan sarebbe interamente gestito dall’Azerbaigian. Questo accordo offre a Erevan meno garanzie sulla reciprocità e sulla sicurezza della Tripp. Il termine ‘senza ostacoli’ rimane vago, lasciando probabilmente intendere che l’operatore interagirebbe direttamente con i viaggiatori azeri, fornendo all’Armenia solo rapporti indiretti. In questo contesto, Baku ha incluso il termine ‘senza ostacoli’ per descrivere il collegamento che intende realizzare con la sua exclave del Nakhichevan, accompagnato da ‘vantaggi reciproci’ per l’Armenia. Concretamente, l’Azerbaigian otterrebbe l’accesso al Nakhichevan attraverso Meghri, nella regione meridionale di Syunik, al confine con l’Iran. Tuttavia, questo itinerario rimarrebbe sotto la giurisdizione armena, senza extraterritorialità né trasferimento di sovranità. In cambio, Erevan beneficerebbe di “vantaggi” ma non di equivalenti. Abbandonata da una Russia che ha scommesso sull’Azerbaigian dopo la guerra del 2020 e ha perso la sua scommessa tollerando la pulizia etnica dell’Artsakh/Nagorno-Karabakh nel settembre 2023, nonostante il suo dovere di protezione, l’Armenia non ha potuto contare sufficientemente sull’Unione europea nella sua disperata ricerca di dissuasione e di rimodellamento della sua architettura di sicurezza, crollata con la guerra in Ucraina e l’effetto dei vasi comunicanti indotto da questo conflitto.
Sebbene i due stati concordino sul rispetto della rispettiva integrità territoriale, non è stato fatto alcun riferimento al mantenimento dell’esercito azero su 250 km² di territori sovrani della Repubblica armena, rendendo ancora più vulnerabili le capacità di difesa di questo paese senza sbocco sul mare e ormai allo stremo. Si spera quindi che il processo di demarcazione del confine, ancora in corso, possa portare a risultati tangibili. Laddove ci si sarebbe potuti aspettare una soluzione europea più equilibrata e attenta alla pace dei coraggiosi piuttosto che all’umiliazione, gli Stati Uniti hanno fatto man bassa: ancorando l’Azerbaigian al campo occidentale con forti promesse di contratti vantaggiosi tra le società Socar ed Exon, riorientando allo stesso tempo l’Armenia verso la Nato, ma paradossalmente senza offrire alcun tipo di assistenza militare. Questo riallineamento non è privo di conseguenze: riduce drasticamente l’influenza dell’Iran e favorisce lo sviluppo di rotte commerciali ed energetiche alternative che aggirano Teheran e Mosca. In questo modo, gli Stati Uniti mirano a portare Erevan e Baku nella loro orbita e a distoglierle da qualsiasi impegno futuro legato al Corridoio di trasporto internazionale nord-sud (Instc), che collegherà la Russia all’Iran e all’Oceano indiano (…).
Mentre in Armenia la società è immersa in una profonda apatia e fatica a reagire alle dichiarazioni contraddittorie di un potere galvanizzato da questo accordo e di un’opposizione divisa e screditata che grida al tradimento, i fantasmi di Monaco e del corridoio di Danzica aleggiano nelle menti. Questo accordo concede all’Armenia una tregua precaria, allontanando momentaneamente il pericolo di un’aggressione militare da parte del suo bellicoso vicino. Momentaneamente, perché il potere azero continua a esercitare la massima pressione su Erevan e chiede una riscrittura della sua Costituzione e l’abbandono di ogni riferimento all’autodeterminazione del popolo dell’Artsakh (…).

L’abbandono da parte di Erevan di ogni azione legale internazionale per i crimini di guerra commessi durante l’ultima guerra e – cosa ancora più ingiusta – il via libera della comunità internazionale alla più rapida pulizia etnica del Ventunesimo secolo e al processo di demolizione del patrimonio plurimillenario armeno rimarranno una macchia indelebile. Un intero popolo autoctono, che abitava nella culla dell’antico regno di Armenia, è stato spazzato via dalla geopolitica degli imperi, un popolo a cui è stato tolto il diritto all’autodeterminazione, cioè il diritto alla vita. Come i Sudeti, l’Artsakh, martirizzato nella sua realtà fisica e spirituale, è stato vigliaccamente gettato alle ortiche di una pace improbabile, mentre la sua popolazione rifugiata soffre di una campagna di razzismo e odio alimentata dai canali di influenza filogovernativi che vedono in essa una quinta colonna russa. L’Armenia ha ottenuto una tregua, cedendo su quasi tutti i fronti dietro la maschera confortante di una prosperità condivisa e chimerica: non si sa come si concretizzerà sul campo perché i contorni della road map di Trump rimangono vaghi. Un progetto che ci ricorda che sono soprattutto i rapporti di forza a dettare i termini e non i valori che pensiamo di difendere”.

Vai al sito

 

Ashotsk, l’ospedale nella steppa voluto da San Giovanni Paolo II nella missione di Padre Mario (Catt.ch 26.08.25)

Il nostro è stato anche un viaggio di incontri con realtà di missionari cattolici in questa terra. Uno di questi ci ha portato in una steppa immensa e brulla a più di 2000 metri di altezza, al nord dell’Armenia, al confine con la Georgia. Qui, tra una ventina di villaggi di pastori dislocati nella steppa all’apparenza infinita, si trova un ospedale gestito da un vivacissimo 84enne religioso camilliano vicentino, Padre Mario Cuccarollo, che si trova lì da più di 35 anni.

Un ospedale nato dal terremoto

L’ospedale di Ashotsk è oggi un punto di riferimento insostituibile per l’intera regione. La sua storia comincia nel 1988, quando un terremoto devastò l’Armenia. Papa Giovanni Paolo II volle offrire un segno concreto di solidarietà donando un ospedale, e la Caritas Italiana si mobilitò. Le autorità sovietiche accettarono, ma imposero che venisse costruito in un’area remota, poverissima, al confine con la Georgia.

«Quando arrivai qui – racconta Padre Mario con occhi vispi – non c’erano strade, né acqua corrente. Solo neve e tanta povertà». Inviato quasi per caso, senza sapere nemmeno dove fosse l’Armenia («Mi feci indicare il Paese su un atlante da mia nipote e partii» – ci dice), partì pochi giorni dopo la chiamata del suo superiore. «Mi dissero: dammi una risposta in dieci minuti, il telefono costa. Così dissi sì, e partii».

Una missione che continua

Da allora, grazie all’impegno suo e di tanti collaboratori, è nata una struttura che unisce cura medica e attenzione umana. All’inizio i religiosi erano tre, ma nel tempo le vocazioni sono diminuite e Padre Mario è rimasto da solo a portare avanti questa missione difficile, fatta di impegno quotidiano, sacrificio e fede in mezzo a una realtà dura e isolata. Ad affiancarlo una direttrice sanitaria armena che mette l’anima in tutto ciò che fa.

In un paesaggio che per gran parte dell’anno resta coperto di ghiaccio e neve, dove la temperatura in inverno scende sotto i -30°, l’ospedale è più di un luogo di cura: è una casa. «Cerchiamo di prenderci cura delle persone a 360 gradi. Chi viene qui trova una porta aperta, sempre». Negli anni si sono moltiplicati i servizi: una maternità attrezzata, 21 ambulatori per raggiungere i villaggi e tanti servizi extra.

«Il nostro è un lavoro silenzioso, ma costante. E il Vangelo si annuncia anche solo restando accanto a chi soffre», dice Padre Mario.

Vai al sito

Quando il confine diventa cicatrice: Antonia Arslan a “Terrazza d’Autore” (Trapanisi 25.08.25)

La ventesima edizione della rassegna letteraria Terrazza d’Autore si conclude domani, martedì 26 agosto, con un incontro di grande intensità culturale e umana.

Protagonista sarà Antonia Arslan, figura di spicco della cultura italiana, scrittrice, saggista e traduttrice di origine armena, che porterà al pubblico la testimonianza viva e appassionata racchiusa nel suo celebre romanzo La masseria delle allodole.

Docente di Letteratura italiana moderna e contemporanea all’Università di Padova, Arslan ha dedicato la sua carriera alla Narrativa popolare e alla Letteratura femminile tra Ottocento e Novecento, contribuendo con saggi fondamentali su questi temi. Centrale nel suo percorso è stata la riscoperta delle proprie radici armene: ha tradotto le opere del grande poeta Daniel Varujan, introducendo al pubblico italiano la cultura e la storia del popolo armeno.

Pubblicato per la prima volta nel 2004 e recentemente riproposto in una nuova veste per il ventesimo anniversario, La masseria delle allodole ha ottenuto numerosi riconoscimenti ed è stato tradotto in 15 lingue. Il romanzo dà voce alle memorie familiari legate al Genocidio Armeno del 1915, offrendo una testimonianza che unisce autenticità storica e forza narrativa.

Dal libro è stato tratto l’omonimo film dei fratelli Taviani che ha riscosso grande successo e ha contribuito a sensibilizzare l’opinione pubblica su una delle pagine più drammatiche e a lungo dimenticate della Storia. Una storia in cui il confine diventa cicatrice, difficile da rimarginare, e che conserva, purtroppo, una tragica attualità, come le cronache internazionali ci propongono.

Il racconto, profondamente radicato nelle memorie familiari dell’autrice, riesce a dare voce e volto umano alle vittime, trasformandosi in una testimonianza letteraria che supera la semplice ricostruzione storica.

L’incontro, come sempre ad ingresso gratuito, si svolgerà a partire dalle ore 19 al Teatro comunale “On. Nino Croce” di Valderice e vedrà Antonia Arslan dialogare con Stefania La Via, le letture saranno affidate alla voce di Ornella Fulco.

Curata da Ornella Fulco  e Stefania La Tga, Terrazza d’Autore aderisce alla Rete delle Rassegne e dei Festival letterari della provincia di Trapani e, anche quest’anno, si svolge sotto gli auspici del Centro per il Libro e la Lettura (CEPELL) del Ministero della Cultura e con il partenariato culturale di BiblioTP – Rete delle Biblioteche della provincia di Trapani. La rassegna si colloca tra le attività connesse al progetto culturale Axis MAB e del Museo “San Rocco” di Trapani e si svolge con il patrocinio del Comune di Valderice, in collaborazione con la Biblioteca Comunale “De Stefano” di Valderice e con la “Libreria del Corso” di Trapani.

Vai al sito