Il vertice in Alaska e quei 47 chilometri nel Caucaso. Il prezzo di Trump per salvare Putin (Quotidiano 14.08.25)

Il presidente determinato ad affermare la sua presenza nella regione cerniera fra l’Asia Centrale e l’Ue e tagliare fuori la Cina. La chiave è il corridoio di Zangezur tra Azerbaigian, Iran e Armenia

Roma, 14 agosto 2025 – Il vertice di venerdì potrebbe risolversi con un enorme salvagente tirato dal presidente americano, Donald Trump, a quello russo, Vladimir Putin, sulla carta il nemico storico degli USA. Ma nel mondo multipolare, anche le alleanze diventano più fluide, così fluide da riuscire addirittura a ribaltarsi.

Il pericolo numero uno si chiama Pechino e il tycoon è pronto a salvare di fatto la Russia dall’isolamento internazionale, anche se non lo farà gratis. Per sua stessa definizione, il presidente fa accordi e quello con Putin riguarda una pacifica convivenza in determinate aree del mondo, evidentemente per entrambi più simile a una torta e dove entrambi vogliono la loro fetta.in

L’Artico è la parte con più crema, ma non è l’unica a fare gola al tycoon. Con l’accordo fra Azerbaigian e Armenia, gli USA ora fanno parte a pieno titolo anche della partita sul Caucaso, regione per lungo tempo di pertinenza esclusiva della Russia, ma dove Mosca ha perso molto terreno negli ultimi decenni.

C’è una parte di quest’area, in particolare, che fa gola agli USA: il corridoio di Zangezur. In tutto, sono 47 chilometri. Tecnicamente, servirà a connettere l’Azerbaigian con la exclave di Nakhchivan. Due terre separate dall’Armenia. Baku e Yerevan sono nemiche giurate per motivi religiosi e territoriali, con la prima uscita notevolmente rafforzata dopo le guerre fra il 2020 e il 2023, che le hanno permesso di riconquistare molte posizioni in Nagorno-Karabakh, a maggioranza armena, ma di fatto in territorio azero.

All’Armenia, uscita sconfitta, non è rimasto altro che accettare condizioni molto pesanti, fra cui acconsentire alla costruzione del Corridoio Zangezur e realizzarne una parte. L’accordo è stato mediato proprio da Donald Trump che, come ‘garanzia’ per la pacificazione dell’area ha imposto/proposto che il corridoio, che consisterà in una sede ferroviaria e una stradale, sia gestito dagli USA.

Se l’affare dovesse andare in porto, la gestione per 100 anni del Corridorio di Zangezur potrebbe fare entrare nelle casse statali dai 50 ai 100 miliardi di dollari all’anno. Il passaggio, poi, connetterebbe il Caspio con la Turchia e dunque con l’Europa.

Un disegno altamente strategico, da cui, però, rimangono fuori Russia e Cina, anche se in modo diverso. Mosca dovrà accettare di essere ridotta a un ruolo di comparsa in un territorio dove prima era la protagonista assoluta, con in cambio, forse, la possibilità di mantenere una presenza in Siria, Paese vitale per la sua prospezione sul Mediterraneo.

L’opera, poi, penalizzerà l’Iran, che si trova in una posizione di forte debolezza a causa degli eventi successivi al 7 ottobre e il ‘colpo di grazia’ inferto da Israele e Stati Uniti, e che quindi potrà obiettare ben poco. Ma dietro c’è una vittima ancora più eccellente. Si tratta della Cina, che proprio con la Repubblica Islamica ha avviato un imponente programma di investimenti per potenziare la sua presenza sull’area e che sembra aver puntato su un cavallo che è tutto, ma non vincente.

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La via verso la pace tra Azerbaigian, Armenia e Caucaso meridionale (Trt Global 14.08.25)

Si è vissuto un momento storico alla Casa Bianca quando il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha invitato i leader di Armenia e Azerbaigian a un grande vertice di pace a Washington. Questo vertice sembra finalmente aver posto fine a uno dei conflitti più lunghi in corso dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica.

Il primo ministro armeno Nikol Pashinyan e il presidente azero Ilham Aliyev, dopo aver firmato nuovi accordi strategici con gli Stati Uniti, hanno approvato una dichiarazione congiunta ritenuta capace di risolvere pacificamente le dispute tra i due paesi che durano da decenni.

Due elementi fondamentali di questo percorso verso la pace sono: il riconoscimento reciproco, da parte delle due parti, dei confini internazionali senza rivendicazioni territoriali, e la creazione di una via di transito attraverso una stretta fascia a sud dell’Armenia che colleghi il territorio exclave azero del Nakhchivan con il resto dell’Azerbaigian.

Questo corridoio, chiamato Trump International Route for Peace and Prosperity (TRIPP), sarà gestito per 99 anni da un consorzio economico sostenuto dagli Stati Uniti.

L’idea di un corridoio di trasporto in questa regione non è nuova. Una tale rotta è esistita in varie forme per decenni, ma l’Armenia ne ha ostacolato l’utilizzo negli anni ’90.

Dopo la seconda guerra del Karabakh, questa idea è tornata alla ribalta con il nome di Corridoio di Zangezur, ma non sono stati compiuti grandi progressi.

Tuttavia, a prescindere dal nome, poiché serve gli interessi di tutte le parti coinvolte, nessuno sembra opporsi alla sua creazione.

I benefici per la Türkiye

Il processo di normalizzazione tra Armenia e Azerbaigian ha due principali implicazioni geopolitiche per la Türkiye. La prima è la possibilità di rendere più resilienti le rotte di trasporto che collegano la Türkiye al cuore dell’Eurasia.

Attualmente, la principale rotta turca passa attraverso la Georgia, l’Azerbaigian e poi attraversa il Mar Caspio verso l’Asia centrale.

Questa è una rotta già collaudata che ha consolidato il ruolo della Türkiye come hub regionale di trasporto. La ferrovia Baku-Tbilisi-Kars, l’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan e il Corridoio del Gas Meridionale svolgono un ruolo centrale nel collegamento della Türkiye ai mercati globali.

Il progetto TRIPP non è stato concepito per competere con queste rotte esistenti, ma per integrarle.

Aggiungere una seconda rotta commerciale attraverso il Nakhchivan, l’Armenia e poi l’Azerbaigian fornirà un’alternativa in caso di instabilità regionale o eventi geopolitici che colpiscano il corridoio georgiano, garantendo così la sicurezza degli scambi orientali della Türkiye.

Inoltre, questo corridoio permetterà un collegamento diretto per il transito e la comunicazione tra la Türkiye e gli altri paesi turcofoni dell’Eurasia.

Questa iniziativa rappresenta un grande successo geopolitico, poiché offre l’opportunità di una maggiore integrazione all’interno dell’Organizzazione degli Stati Turchi (TDT).

Fondata nel 2009 come Consiglio Turco, la TDT mira ad approfondire i legami culturali, storici e linguistici tra gli stati turcofoni dell’Eurasia, oltre a rafforzare le relazioni economiche e commerciali.

Il secondo risultato riguarda la creazione di un maggiore spazio politico per la normalizzazione tra Türkiye e Armenia.

Le relazioni tra Türkiye e Armenia sono state difficili negli ultimi anni. Sebbene la Türkiye sia stato uno dei primi paesi a riconoscere l’indipendenza dell’Armenia dopo il crollo dell’Unione Sovietica nel 1991, i rapporti si sono rapidamente deteriorati a causa dell’occupazione azera da parte dell’Armenia nei primi anni ’90.

Nel 1993, la Türkiye sostenne una risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che chiedeva il ritiro delle forze armene dalla regione di Kelbajar, occupata durante i conflitti.

Più tardi, nello stesso anno, le relazioni diplomatiche tra i due paesi si interruppero e la Türkiye chiuse il confine con l’Armenia. Da allora, le interazioni diplomatiche turco-armene hanno seguito un andamento altalenante.

Prima di riconquistare completamente i suoi territori nel settembre 2023, l’Azerbaigian aveva già ripreso gran parte dei territori occupati negli anni ’90 durante la seconda guerra del Karabakh nel 2020.

Dopo che Kelbajar è tornata sotto il controllo azero nel novembre 2020, molti si sono chiesti se ciò avrebbe potuto rappresentare un’opportunità per rinnovare le relazioni diplomatiche tra Türkiye e Armenia.

Tuttavia, oltre alla questione di Kelbajar, Ankara ha costantemente sostenuto che veri negoziati con l’Armenia sarebbero possibili solo in seguito alla normalizzazione delle relazioni tra Armenia e Azerbaigian e alla firma di un accordo di pace.

Ora che il processo di ratifica di un accordo di pace è in corso, potrebbero emergere nuove opportunità per le relazioni Türkiye-Armenia.

Panoramica generale

È importante sottolineare che i benefici della normalizzazione delle relazioni tra Armenia e Azerbaigian non sono limitati ad Ankara e Baku. Anche Erevan ne trarrebbe vantaggio.

L’Armenia, un paese povero, è stata esclusa per circa 35 anni dalla maggior parte dei grandi progetti regionali di infrastrutture energetiche e di trasporto a causa del conflitto irrisolto del Karabakh.

È difficile stimare quanto investimento straniero l’Armenia abbia perso a causa di questo, ma si può dire che miliardi di dollari in potenziali progetti sono passati oltre il paese.

Con la prospettiva di pace all’orizzonte, l’Armenia potrà avere relazioni normali con i suoi vicini e partecipare a nuove iniziative infrastrutturali nel settore energetico e commerciale.

Col tempo, ciò potrebbe portare benefici significativi all’economia armena.

Per la Türkiye, l’accordo di pace tra Armenia e Azerbaigian rappresenta non solo nuovi progetti infrastrutturali, ma anche un’opportunità per promuovere una cooperazione più stretta con il Caucaso meridionale, la stabilità, la crescita economica e la connettività regionale.

Completando i corridoi di transito esistenti, aprendo la porta alla normalizzazione con l’Armenia e rafforzando come mai prima i legami con il mondo turcofono, la Türkiye può contribuire all’inizio di una nuova era nel Caucaso meridionale, in cui la cooperazione sostituisce il conflitto e la prosperità condivisa diventa la base di una pace duratura.

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L’operazione geopolitica che ha portato all’accordo tra Armenia e Azerbaigian: nuovi canali per energia e merci che aggirano Putin (Il Riformista 14.08.25)

L’intesa per la pace raggiunta dalle due nazioni ‘grazie’ alla volontà di Washington di ridefinire gli equilibri commerciali e politici dell’area, a discapito della Russia e dell’Iran

Dietro la facciata di un accordo di pace per chiudere decenni di conflitto tra Armenia e Azerbaigian, si cela un’operazione di ingegneria geopolitica volta a ridisegnare il Caucaso meridionale in chiave filo-occidentale e a mettere Washington nella posizione di arbitro dei flussi commerciali, energetici e digitali dell’area.

Il fulcro è il nuovo corridoio di transito attraverso l’Armenia meridionale che collegherà l’Azerbaigian all’enclave di Nakhchivan, per poi proseguire verso la Turchia e l’Europa. Se gli Stati Uniti assumeranno la regia nella costruzione e gestione dell’arteria, otterranno il controllo di un importante checkpoint. Una leva che permetterà a Washington di colpire l’elusione delle sanzioni, monitorare i flussi dal Caspio e determinare tempi e costi con cui l’Europa potrà ridurre la dipendenza dall’energia russa. La logica è semplice: chi controlla i colli di bottiglia, detta le regole.

L’uscita dall’ombrello russo

Per Erevan, la posta in gioco è la sopravvivenza e l’uscita da un ombrello di sicurezza russo ormai logoro. Al contrario di Baku, è senza sbocco sul mare, povera di idrocarburi, ma ricca di rame, oro e capitale umano. Produce scacchisti di livello mondiale, un fiorente settore informatico e una diaspora politicamente influente. Eppure è strategicamente vulnerabile: incuneata tra Turchia e Azerbaigian, dipendente da Georgia e Iran per l’accesso e ancora legata alla Russia per la sicurezza. In cambio dell’accordo, l’Armenia riceverà addestramento occidentale, tecnologie di sorveglianza di frontiera, investimenti e un flusso stabile di entrate dal transito. Se il progetto verrà realizzato con confini sicuri, regole di arbitrato chiare e flussi finanziari regolari, potrà innescare riforme strutturali e investimenti privati che Mosca non è in grado di offrire. Ma basterà un tradimento delle promesse per provocare un rapido rigetto politico interno.

Per Baku, l’accordo consolida i guadagni militari del 2023 e garantisce un collegamento più agevole con Nakhchivan e la Turchia, rafforzando al contempo i legami con la finanza, la tecnologia e — potenzialmente — la difesa statunitense. L’Azerbaijan pompa circa 600 kbpd e vanta la più antica produzione petrolifera commerciale al mondo. Nel 1846, il primo pozzo petrolifero trivellato meccanicamente fu scavato vicino a Baku, 13 anni prima del famoso pozzo di Titusville negli Stati Uniti. In cambio, l’Azerbaigian dovrà accettare una maggiore vigilanza occidentale su diritti umani, controlli all’export e spedizioni sensibili. La Turchia, da parte sua, vede avanzare il progetto di “Middle Corridor” che collega l’Asia centrale all’Europa e unisce economicamente il mondo turcofono. Con gli Stati Uniti in cabina di regia, Ankara dovrà però condividere l’influenza con un set di regole americane su dogane, cybersicurezza e finanza, trasformando quello che poteva essere un asse Ankara-Baku in un progetto multilaterale sotto supervisione Usa.

Chi sono i veri sconfitti

I veri sconfitti sono Russia e Iran. Mosca perde il ruolo di mediatore regionale e vede smantellarsi una parte della rete economica caucasica che garantiva canali di elusione delle sanzioni. Teheran si ritrova con un nuovo corridoio commerciale a nord del proprio confine. L’Armenia avrebbe concesso in locazione agli Stati Uniti, per 99 anni, un’area situata nella parte meridionale del Paese per l’istituzione di un corridoio NATO verso il Mar Caspio, interrompendo di fatto il confine con l’Iran. Di conseguenza, l’Armenia non condivide più un confine con l’Iran ai fini commerciali. Entrambi quindi tenderanno a sabotare l’intesa con pressioni di confine, attività per procura e propaganda. Per l’Europa, l’intesa realizza un obiettivo inseguito dal 2014: nuovi canali per energia e merci che aggirano la Russia.

Se gestito dagli Usa, il corridoio garantirà anche un monitoraggio più serrato dei carichi, rafforzando l’applicazione delle sanzioni e le regole commerciali. Avranno benefici anche le repubbliche centroasiatiche, che disporranno di una via d’accesso all’Europa alternativa sia a Mosca che a Teheran. Per Washington, la partita è imprimere il proprio “ruleset” su un crocevia strategico: dominare pagamenti, assicurazioni, compliance, comunicazioni e cybersicurezza per avere piena visibilità dei flussi, beneficiarne e rallentarli se necessario. L’operazione apre spazio a imprese, banche e assicuratori statunitensi, getta le basi per cooperazioni di difesa e intelligence senza basi permanenti e costituisce una polizza d’assicurazione: se l’Europa avrà bisogno di energia o materie prime critiche, saranno gli Stati Uniti a decidere se aprire o chiudere il rubinetto. La cerimonia di pace è la vetrina: il vero trofeo è il controllo del corridoio.

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Il controverso accordo tra Vaticano e Azerbaigian (Renovatio21 13.08.25)

Il 25 luglio 2025, la Santa Sede ha firmato un accordo con l’Azerbaigian volto a promuovere il dialogo interreligioso e la cooperazione nell’educazione religiosa. L’iniziativa ha scatenato un’ondata di critiche alimentata da gravi accuse contro il governo azero, in particolare per quanto riguarda la pulizia etnica, che a volte si dice abbia preso di mira i cristiani.

Accordo o pomo della discordia? Il testo firmato a Baku dal cardinale George Koovakad, prefetto del Dicastero per il dialogo interreligioso, giunge in un contesto geopolitico teso, a meno di due anni dall’offensiva militare azera del 2023, che ha portato allo scioglimento dell’autoproclamata Repubblica dell’Artsakh, nella regione contesa del Nagorno-Karabakh.

Questa enclave, riconosciuta a livello internazionale come parte dell’Azerbaigian, era popolata e controllata da cristiani armeni fino all’operazione militare che ne ha costretto l’esodo. Molti osservatori denunciano questa offensiva come un atto di pulizia etnica, indicando la distruzione o la profanazione di siti religiosi, chiese e cimiteri armeni nella regione.

In questo contesto, la decisione del Vaticano ha suscitato incomprensione e indignazione tra alcuni cristiani della regione. I critici, tra cui influenti voci armene, accusano il governo azero di praticare la «diplomazia del caviale», una strategia volta a influenzare la politica estera attraverso investimenti culturali ed economici.

Questa pratica, secondo i critici, include generosi finanziamenti per progetti vaticani, in particolare attraverso la Fondazione Heydar Aliyev, guidata dalla first lady azera. La fondazione ha finanziato progetti di restauro in Vaticano, tra cui le Catacombe di Marcellino e Pietro, Commodilla, San Sebastiano, una statua nei Musei Vaticani e oltre 3.000 libri e 75 manoscritti nella Biblioteca Apostolica Vaticana.

Questi contributi finanziari sollevano interrogativi sulla possibile influenza dell’Azerbaijan sulle decisioni della Santa Sede, tanto che alcuni arrivano a parlare di «insabbiamento ecclesiastico» per minimizzare le obiezioni cattoliche alle azioni di Baku nel Nagorno-Karabakh.

I legami tra il Vaticano e l’Azerbaigian non sono nuovi. Nel 2011, un accordo fu mediato dal cardinale Claudio Gugerotti, allora Nunzio Apostolico, che pose le basi per la cooperazione diplomatica. Il cardinale Koovakad elogiò il nuovo accordo come «strumento prezioso per promuovere il principio della libertà religiosa», sottolineando il rispetto dell’Azerbaigian per le comunità religiose minoritarie e la possibilità di una coesistenza armoniosa tra cristiani e musulmani.

Ha parlato anche di priorità comuni, come la tutela dell’ambiente e l’uso etico dell’Intelligenza Artificiale: prova che il beato angelismo ereditato dall’ecumenismo del Vaticano II non è ancora del tutto scomparso.

Da parte degli ortodossi, le cui critiche a Roma vanno sempre prese con le pinze, l’atteggiamento del Vaticano non deve essere considerato ingenuo: monsignor Vicken Aykazian, direttore ecumenico della diocesi orientale della Chiesa apostolica armena d’America (non cattolica), ha fortemente criticato l’ impegno del Vaticano.

In un’intervista con The Pillar, il prelato ha affermato che «il Vaticano riceve denaro dall’Azerbaigian da tempo», citando come esempio i restauri finanziati nelle catacombe romane. Ha affermato che questi legami finanziari influenzano la diplomazia vaticana, a scapito delle relazioni storiche con l’Armenia, la prima nazione ad adottare il cristianesimo nel 301.

Le critiche provengono da ben oltre i circoli armeni. Oltre 300 accademici e professionisti da tutto il mondo hanno firmato una dichiarazione in cui condannano quella che ritengono essere la «complicità» della Santa Sede in quella che definiscono la «cancellazione culturale» del patrimonio armeno da parte dell’Azerbaigian.

Questa dichiarazione fa seguito a una controversa conferenza tenutasi il 10 aprile 2025 presso la Pontificia Università Gregoriana di Roma, intitolata «Il cristianesimo in Azerbaigian: storia e modernità». Organizzata da istituzioni azere, la conferenza è stata vista come un tentativo di riscrivere la storia minimizzando la presenza armena nella regione, etichettando anche le chiese armene come «albanesi caucasiche».

Il quadro necessita di qualche sfumatura: la Santa Sede, data la sua posizione unica sulla scena internazionale, cerca spesso di mantenere relazioni con regimi controversi per promuovere un certo grado di pace e facilitare la missione della Chiesa in territori in cui la sua esistenza è talvolta minacciata. Dimostrando un certo realismo, il cardinale Koovakad, durante la firma del controverso accordo, ha insistito sulla necessità di «gesti concreti di cooperazione», in particolare da parte dell’Azerbaigian.

Ma è improbabile che queste precauzioni siano sufficienti a disarmare i critici di coloro che temono che la Santa Sede rischi di compromettere la propria credibilità morale, in particolare tra le comunità cristiane armene che si sentono abbandonate.

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ARMENIA – AZERBAIJAN. Dalla pace Yerevan-Baku gli USA ereditano un corridoio per controllare l’Iran (Agcnews 12.08.25)

L’8 agosto in visione mondiale si sono tenuti i colloqui trilaterali tra İlham Aliyev, Donald Trump e Nikol Vovayi Pashinyan. Trump prima della firma ha annunciato trionfante: “Azerbaigian e Armenia si impegnano a una cessazione definitiva e definitiva delle ostilità”. 

Il presidente americano ha annunciato il congelamento della Sezione 907 contro l’Azerbaigian. La Sezione 907 del Freedom Support Act è stata approvata dal Congresso degli Stati Uniti nel 1992 e proibiva qualsiasi assistenza militare da parte del governo statunitense all’Azerbaigian. Alle 22:04 dell’8 agosto i presidenti di Armenia e Azerbaijan hanno siglato gli accordi di pace con successiva stretta di mano.

“Questo è davvero un giorno storico”, afferma la direttrice dell’intelligence nazionale statunitense Tulsi Gabbard a proposito della pace tra Armenia e Azerbaigian. “Sotto la guida di questo presidente, questo storico accordo di pace è diventato realtà… questi due paesi sono in conflitto… da oltre 35 anni!”.

In esalta di storico c’è che per la prima volta gli Stati Uniti controlleranno il Caucaso sud e di riflesso l’Iran con un posto in prima fila per osservare direttamente i russi e Turchia. Se ne è parlato molto poco ma l’accordo di pace Azerbaijan e Armenia porta in pancia anche il fatto che parte del corridoio Zangezur che attraversa l’Armenia sarebbe stata trasferita a una società americana per 99 anni. Già soprannominata la “stada di Trump”. Lo stesso corridoio fu il motivo per cui anche nell’ultima guerra tra Azerbaijan e Armenia l’Iran si schierò con l’Armenia. Fu l’oggetto delle aggressioni del 2020 tra Armenia e Azerbaijan. Idealmente il corridoio collegherà l’Azerbaigian con l’enclave di Nakhchivan. Di fatto permetterà agli Stati Uniti di controllare l’Iran e porterà tanti soldi in cassa a chi gestirà il corridoio e non stupirà se alla fine il consorzio sarà gestito da Stati Uniti e Israele.

Secondo fonti social iraniane: “In futuro, gruppi e basi delle Forze per le Operazioni Speciali statunitensi, francesi e israeliane appariranno ufficialmente e pienamente nella regione. Si stanno creando tutte le condizioni necessarie per creare una linea del fronte contro Russia e Iran, nonché per condurre operazioni NATO attraverso una nuova versione degli Accordi di Abramo, ma mirata all’Asia centrale”

Anche i lobbisti armeni negli Stati Uniti non sono soddisfatti degli accordi. Il Comitato Nazionale Armeno (ANCA) – sulla pace tra Armenia e Azerbaigian: “Il piano di pace di Trump significa il crollo dello Stato armeno e la completa sconfitta del popolo armeno. Questo è un profondo tradimento di un antico popolo cristiano. Trump avrebbe dovuto sostenere l’Armenia, ripristinare l’Artsakh e imporre sanzioni all’Azerbaigian”.

L’opinione degli analisti turchi sull’Accordo di Pace Tripartito: “Se gli Stati Uniti riusciranno a mantenere il dominio mondiale in Oriente per altri 50 anni, ciò accadrà grazie a tre fattori: “L’amore della Russia per i conflitti congelati – le terribili conseguenze di guerre incompiute che non si concluderanno mai a suo favore; la pazienza strategica dell’Iran, che capisce che i suoi rivali vogliono la guerra, ed è quindi costretto a fare concessioni; La riluttanza della Cina ad abbandonare il suo approccio orientato al commercio”. 

Il Ministro degli Esteri turco Hakan Fidan: “Il corridoio Zengezur collegherà il mondo turco con l’Europa attraverso la Turchia. Questo progetto è di importanza strategica in termini di integrazione regionale e rafforzamento dei legami logistici. L’Azerbaigian ci ha informato sul corridoio”.

I punti principali di questo documento li riportiamo a seguire: “Il protocollo sull’accordo di pace è stato firmato: le parti hanno assistito alla parafatura del testo dell’”Accordo sulla pace e l’istituzione di relazioni interstatali” da parte dei ministri degli Esteri. Sono in corso le fasi per la firma e l’approvazione finale. Il Gruppo di Minsk è ufficialmente chiuso: una lettera congiunta sul Chiusura del Gruppo di Minsk dell’OSCE e delle strutture correlate.

I Corridoi di trasporto e TRIPP: è stato deciso di aprire corridoi di trasporto nel rispetto della sovranità. L’Armenia coopererà con gli Stati Uniti e altre parti al progetto Trump International Pathway for Peace and Prosperity (TRIPP) sul suo territorio. Rifiuto della vendetta: l’inviolabilità dei confini è stata riaffermata sulla base della Dichiarazione di Almaty del 1991. Le parti hanno dichiarato di “respingere categoricamente ed escludere qualsiasi tentativo di vendetta nel presente e nel futuro”.

Gratitudine a Trump: i leader hanno espresso profonda gratitudine al presidente degli Stati Uniti Donald Trump per aver ospitato il vertice e aver contribuito alla pace”.

Il Primo Ministro armeno Nikol Pashinyan ha aperto la possibilità di uno scambio di territori tra Armenia e Azerbaigian: “Ci sono territori che, secondo questa logica, ci appartengono, ma sono sotto il controllo dell’Azerbaigian, e ci sono territori che appartengono all’Azerbaigian, ma sono sotto il nostro controllo”.

E ancora, l’accordo energetico firmato da Trump e Pashinyan presuppone che gli Stati Uniti coopereranno e sosterranno l’Armenia in materia di sicurezza energetica; in particolare, si attribuisce importanza allo sviluppo dell’energia nucleare civile e gli Stati Uniti si dichiarano disponibili a investire in questo settore. In particolare, per quanto riguarda la costruzione di una nuova centrale nucleare, gli Stati Uniti forniranno un supporto tangibile all’Armenia. Non è molto chiaro che tipo di progetto gli americani saranno in grado di offrire a Yerevan, né come garantiranno le forniture di combustibile e il riprocessamento del combustibile nucleare esaurito.

Il Ministero degli Esteri iraniano, Abbas Araghchi ha accolto con favore l’accordo raggiunto ieri tra Azerbaigian e Armenia. Ma l’Iran si oppone alla creazione di un corridoio che attraverserà l’Armenia e collegherà la parte principale dell’Azerbaigian con l’enclave Nakhichevan, ha affermato il consigliere di Khamenei. “I paesi della NATO vogliono indebolire la cooperazione tra Iran e Russia trasferendo il corridoio di Zangezur sotto il controllo degli Stati Unito”. Il consigliere di Khamenei ha affermato che l’Azerbaigian può utilizzare il territorio iraniano per stabilire comunicazioni con il Nakhichevan invece di modificare i confini.

Anna Lotti

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Corridoio di Syunik e il ruolo degli Stati Uniti (L’Antidiplomatico 12.08.25)

di Francesco Dall’Aglio*

L’idea che a giorni la 101a aviotrasportata si sarebbe lanciata in Armenia per prendere il controllo del corridoio di Syunik (è in Armenia, quindi si chiama di Syunik e non di Zangezur che è il nome azero, e così lo si chiamerà su questa pagine) per costruirvi una linea ferroviaria e un’autostrada che gli USA avrebbero usato per attaccare l’Iran da nord e che la Turchia avrebbe usato per lanciarsi nell’Asia Centrale distruggendo in un sol colpo sia il passante nord-sud Russia-Oceano Indiano che la Belt and Road cinese e danneggiando in un colpo solo Iran, Russia e Cina era, in effetti, un po’ peregrina. Altrettanto peregrino era immaginare che Pashinyan avrebbe davvero ceduto all’Azerbaijan o agli USA il territorio in questione, che non è oggetto di disputa e mai lo è stato, o i diritti esclusivi di utilizzo (anche se io stesso ero possibilista avendo di Pashinyan la stessa stima che ho dei celenterati, però con tutta l’antipatia mi pareva davvero troppo).

La reazione della Russia e dell’Iran avevano chiarito che un’ipotesi del genere non era praticabile, al di là della volontà politica della leadership armena e azera e delle difficoltà pratiche del caso (per dirne una, l’intera rete ferroviaria armena è gestita dalla Russia attraverso la ????, controllata al 100% dalla RZD, ovvero le ferrovie russe, fino al 2038). L’Iran era scattato subito dicendo che la presenza di “mercenari” statunitensi a ridosso del confine era inaccettabile e che lo avrebbero bloccato qualunque fosse stata la reazione della Russia, con il vicecomandante delle Guardie della Rivoluzione Islamica che si lanciava in paragoni un po’ azzardati tra Armenia e Ucraina, nel senso delle conseguenze che sarebbero derivate al paese. La Russia invece aveva una posizione più sfumata, rallegrandosi per il trattato di pace ma mettendo in guardia da “ingerenze esterne”. Del resto la creazione di un passante di trasporto nel Syunik faceva già parte dell’accordo di pace tra Armenia e Azerbaijan, firmato nel 2020 e mediato proprio dalla Russia, che al punto 9 garantiva che l’Armenia avrebbe dovuto garantire la sicurezza dei collegamenti tra l’Azerbaijan e il Naxç?van e il libero transito di merci e persone in entrambe le direzioni, e che il controllo delle frontiere sarebbe stato garantito dalle guardie di frontiera russe – quindi non per occupare militarmente Syunik, come pure mi è toccato di leggere (trovate il testo completo dell’accordo al link 1). Nel 2021, però Aliyev aveva iniziato a fare il furbo, “interpretando” l’articolo 9 come la promessa della creazione del famoso corridoio e minacciando azioni drastiche. La situazione si è placata nel 2021 (indovinate chi si è messo in mezzo per risolvere?) e gli eventi del 2023 hanno di nuovo congelato i negoziati e i lavori, che prevedevano di utilizzare la vecchia linea ferroviaria sovietica non più in esercizio.

Passata l’euforia per la firma del TRIPP, a seguito della quale si era detto di tutto e di più (appunto il controllo militare USA della regione e cose simili) si sono iniziate a capire alcune cose. Innanzitutto, da parte USA non c’è alcuna garanzia militare o di sicurezza e nessuno schieramento di truppe (lo nota, con un certo rammarico, il Kyiv Post, link 2) ma solo interesse commerciale. A ruota sono seguite le precisazioni diplomatiche. Pashinyan, a scanso di equivoci, ha telefonato prima a Putin per “ragguagliarlo” sulle condizioni del trattato firmato a Washington (link 3), e poi a Macron ed Erdogan, incassando da tutti e tre auguri e congratulazioni e, da parte di Macron, il sostegno alla sovranità e all’inviolabilità dei confini dell’Armenia, che non guasta mai. Contatti ci sono stati anche con l’Iran per i motivi che sappiamo. Stando a quanto scrive l’agenzia iraniana WANA (link 4) Pashinyan ha chiarito che non ci sarà alcun corridoio e alcuna cessione di sovranità, ma che il transito sarà gestito da un consorzio di ditte armene e statunitensi che sarà registrato in Armenia; martedì poi il Ministro degli Esteri armeno andrà a Teheran, e la cosa dovrebbe essere ulteriormente chiarita. Di conseguenza la posizione iraniana si è ammorbidita immediatamente.

E come chiarimento ulteriore e finale, proprio Pashinyan ha diffuso sui suoi social (ovviamente Facebook, da bravo boomerone. Gli ho messo pure un like, come si vede dallo screenshot che allego) il testo ufficiale dell’accordo, che condivido al link 5 non dalla sua pagina Facebook ma dal ben più credibile sito del Ministero degli Esteri Armeno. Ci interessano due punti in particolare: l’articolo 1, che conferma i confini dei due rispettivi stati secondo le frontiere che avevano all’interno dell’URSS, chiudendo la strada ad altre rivendicazioni come chiarito dall’articolo 2 che le esclude esplicitamente per il presente e per il futuro, e soprattutto l’articolo 7 secondo il quale “le parti non schiereranno lungo i loro confini comuni forze armate di terze parti”, il che include turchi, americani e russi (e pure francesi, mi sa). Chissà se finalmente si potrà davvero fare la pace nel Caucaso, e se quel disgraziato paese dell’Armenia (che alla sua lunga lista di sciagure aggiunge l’attuale Primo Ministro) potrà riprendere a fare una vita normale.

SPY FINANZA/ Se anche l’Armenia (con la Svizzera) entra nel “risiko” dell’oro di Trump (Il Sussidiario 12.08.25

Conviene tenere d’occhio quel che accade intorno all’oro, viste le mosse degli Stati Uniti che non si limitano ai lingotti svizzeri

Mentre l’attenzione del mondo è tutta proiettata verso l’incontro Trump-Putin in programma il 15 agosto in Alaska, permettetemi di andare controcorrente. E consigliarvi di tenere gli occhi ben puntati sull’oro, se volete davvero capire quanto si stia muovendo sottotraccia nell’orizzonte geopolitico.

Il tutto dopo la mossa a sorpresa degli Stati Uniti relativamente alle importazioni di barre da un chilo dalla Svizzera di cui vi ho parlato la scorsa settimana, in un primo tempo classificate dalle US Customs come soggette al dazio del 39% imposto da Washington sui beni elvetici e poi rimaste nel limbo settoriale dalla dichiarazione della Casa Bianca di venerdì sera, quando è stato annunciato un chiarimento sullo status effettivo.

La price action del metallo prezioso ha immediatamente offerto agli organizzatori dello stress test la reazione pavloviana che probabilmente si attendevano e auspicavano, passando su scadenza intraday dal nuovo record di 3.500 dollari l’oncia a un calo nell’arco di pochi minuti a 3.450. Proprio dopo la comunicazione presidenziale.

Al netto della tempistica dii questo chiarimento rispetto a un’eventuale esenzione o regime particolareggiato per quanto riguarda le barre da un chilo, i contesti da tenere sotto osservazione sono almeno due. Il primo più meramente finanziario, il secondo geo-finanziario.

Partiamo dal primo. Apparentemente, una mossa calcolata con conseguenze immediate sul mercato. La conferma della Dogana statunitense del 31 luglio che ha riclassificato come categoria soggetta a tariffa questi lingotti, gli stessi formati accettati dal Comex per la consegna, ha infatti spedito immediatamente i premi per i futures sull’oro di New York sopra del prezzo spot, segnalando che l’offerta disponibile sul mercato statunitense si era bruscamente ridotta.

Le raffinerie svizzere – colte alla sprovvista e in attesa di delucidazioni, casualmente messe subito sul tavolo dell’azzardo dalla Casa Bianca – hanno già comunicato il rallentamento o l’interruzione tout court delle spedizioni, aggravando ulteriormente la prezzatura di mercato. Da qui il record a 3.500 dollari l’oncia.

Trattasi, appunto, di leva finanziaria e posizionamento strategico. Gli Stati Uniti, dopo il nulla di fatto della visita a Washington della Presidente elvetica, paiono voler mettere sotto pressione Berna sul suo settore maggiormente strategico, offrendo al contempo alle raffinerie nazionali un vantaggio diretto sui prezzi nei formati da chilo (o 100 once). Di fatto, un potenziale premio più elevato sui futures di New York, al netto di una dinamica del prezzi spot su base globali che possa rimanere paradossalmente persino stabile.

Limitando di fatto le importazioni di queste tipologie di barre, la mossa aumenta infatti la posta in gioco per i venditori allo scoperto del Comex, la cui capacità di reperirle per la consegna formalmente si complica. Quantomeno a livello di tortuosità e costi delle alternative, fra cui il reperimento di barre da 400 once sul mercato londinese ma con la necessità di fonderle nuovamente in raffinerie statunitensi o comunque non svizzere, al fine di evitare il salasso del 39%.

Insomma, una stretta controllata proprio sui formati dei lingotti che determinano i prezzi dei futures globali e che, depotenziando de facto il ruolo della Svizzera, riafferma quello di New York come arena centrale per la price discovery e il fixing dei prezzi.

Ma attenzione, perché il secondo contesto pare prendere il largo con velocità inaspettata a livello di centralità di analisi. Al netto di Banche centrali che da trimestri di caricano di oro fisico come mezzo di diversificazione delle proprie riserve, una mossa simile pare implicitamente suggerire la volontà di posizionamento Usa in un contesto prodromico di new gold standard globale e parallelo. E in un anno in cui l’oro è già in rialzo a causa delle tensioni macro-economiche e geopolitiche, un punto di strozzatura progettato politicamente a tavolino come questo potrebbe modificare attivamente il dove e il come vengono fissati i prezzi di riferimento mondiale dell’oro.

In tal senso, l’accordo di pace fra Armenia e Azerbaijan che Donald Trump ha benedetto e reso possibile nel fine settimana assume contorni decisamente interessanti. E strategici. Il secondo Paese pompa 600.000 barili di petrolio al giorno e nel 1846 ha tenuto a battesimo il primo meccanismo di trivellazione meccanica, 13 anni prima del tanto sbandierato e rivendicato Titusville statunitense. Inoltre, il guru geopolitico di Ronald Reagan, Zbigniew Brzezinski, definì l’Azerbaijan the cork in the bottle for unlocking the riches in Central Asia e aver piazzato una bandierina a stelle e strisce nell’area crea un cuneo nell’influenza storica di Russia e Turchia.

Ma è l’Armenia a interessarci maggiormente in questo contesto. Povera di idrocarburi, in compenso è ricchissima di rame. E oro. Un hub aureo di fondamentale importanza come mostrano queste immagini tanto da operare da proxy e broker del cosiddetto oro sporco con cui la Russia circumnaviga le sanzioni internazionali.

Nel silenzio e nell’accettazione generale, poiché i dati di interscambio commerciale ci mostrano come proprio l’Armenia garantisca ai Paesi dell’eurozona di poter tranquillamente continuare a operare commercialmente con la Russia sanzionata. E con la Cina. Ma è appunto il dato del gold re-export mostrato plasticamente nel terzo grafico a interessarci maggiormente, soprattutto alla luce di quanto scatenatosi a tempo zero dopo la pubblicazione della notizia relativa al dazio record sull’oro elvetico.

Insomma, l’America pare aver rotto gli indugi relativamente all’importanza strategica globale dell’oro fisico. E in questo contesto, chiaramente la mossa armena appare una sorta di territorial pissing strategico non tanto verso la Russia e i suoi commerci paralleli, quanto verso quel mercato cinese che, tonnellata dopo tonnellata, punta in maniera ormai esplicita a ruolo di secondo mercato del fixing globale.

La nuova corsa all’oro è iniziata. E qui il Klondike è decisamente finanziarizzato. E geopolitico. Con questo carico da novanta, Donald Trump si siederà al tavolo in Alaska.

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Armenia: verso le pari opportunità nel mercato del lavoro (Osservatorio Balcani e Caucaso 11.08.25)

Colmare il divario di genere nel mercato del lavoro in Armenia è una sfida ancora da vincere. Alcuni recenti cambiamenti fanno ben sperare: da una maggiore presenza di donne in vari settori agli sforzi per superare le barriere sistemiche e cambiare le percezioni sociali

11/08/2025 –  Armine Avetisyan Yerevan

Tra le storie di donne che cercano di cambiare la realtà – lottando con determinazione per i propri diritti – c’è anche quella di Liana Harutyunyan, 38 anni, specializzata in sviluppo di software.

Da donna nel settore IT, Liana, laureata alla Facoltà di scienze informatiche dell’Università statale di Yerevan, in passato si è trovata ad affrontare discriminazioni persistenti, seppur velate.

“A 28 anni, appena sposata, avevo lasciato il lavoro dopo la nascita di mio figlio. Quando poi, cinque anni dopo, ho deciso di ricominciare a lavorare, ho incontrato un ostacolo dopo l’altro”, racconta Liana.

“Le aziende mi invitavano ai colloqui, tutto andava bene, poi però ogni volta ricevevo una risposta negativa senza alcuna spiegazione. Ad un certo punto, dopo l’ennesimo rifiuto, grazie ad un’amica, ho scoperto che le aziende semplicemente preferivano i candidati maschi, anche quando noi donne avevamo qualifiche uguali o migliori”.

Liana però non si è mai arresa. Ha continuato a candidarsi per diversi lavori, si è impegnata per migliorare le sue competenze e alla fine ha iniziato a collaborare con aziende internazionali. Oggi è una professionista freelance di successo.

“All’inizio è stato difficile, ora però vedo un vero cambiamento. Sempre più donne si uniscono ai team e il clima sta diventando più inclusivo. Anche le startup locali si stanno rendendo conto che la qualità e la professionalità non hanno genere”, conclude Liana.

Un’altra storia è quella di Ani Mkrtchyan, 35 anni, che lavora come sarta in una zona rurale, nella provincia di Aragatsotn in Armenia.

In passato, Ani ha avuto difficoltà ad ottenere un prestito per avviare una piccola impresa. “Mi sono rivolta a diverse banche, presentando le mie competenze e un valido piano di attività, ma hanno sempre respinto le mie richieste, semplicemente perché ero una donna. Non credevano che un’imprenditrice potesse farcela”, spiega Ani.

“C’è stato un periodo in cui pensavo davvero di essere condannata a rimanere disoccupata. Le persone non si fidavano di me. Alla fine, ho cominciato a credere che, da donna – soprattutto vivendo in un’area rurale – la mia unica opzione fosse quella di lavorare nei campi e mungere le mucche. Ero pronta a rinunciare”.

Poi un giorno Ani ha visto un post su Facebook su un programma di sviluppo regionale alla ricerca di donne con idee imprenditoriali. Il programma prevedeva un corso di formazione e la possibilità di richiedere un finanziamento. La donna non ha esitato: ha presentato domanda, è stata selezionata e oggi gestisce un piccolo atelier di sartoria.

“Ad accompagnarmi in questo percorso è stato un consulente aziendale, poi ho presentato il mio lavoro ad una fiera locale. Quell’esperienza mi ha fatto sentire sicura di me stessa. Ho iniziato con semplici riparazioni sartoriali, ma ora ho intenzione di espandere l’attività. Questa volta sono convinta di farcela”, afferma Ani sorridendo.

I numeri stanno cambiando

In Armenia, le donne rappresentano quasi il 45% della forza lavoro. Pur essendo ancora lontani da un’effettiva parità di genere, il dato è indicativo di un trend di crescita costante per quanto riguarda la partecipazione femminile al mercato del lavoro.

Anche se il divario di genere persiste, negli ultimi anni si è osservata una tendenza positiva, soprattutto nel settore pubblico e in alcuni ambiti dove l’occupazione femminile è in aumento.

Il governo di Yerevan riconosce il ruolo fondamentale della partecipazione delle donne all’economia. La Strategia nazionale per l’occupazione 2025-2031 pone particolare enfasi sulla riqualificazione delle donne e sul sostegno al loro reinserimento nel mercato del lavoro.

Inoltre, in diverse regioni dell’Armenia vengono lanciati progetti sostenuti dal governo e da partner internazionali per incoraggiare l’imprenditorialità femminile, fornire formazione e aumentare le opportunità di impiego.

Ridurre il divario retributivo di genere

Recentemente, il ministero del Lavoro e degli Affari Sociali ha deciso di dare priorità agli sforzi per facilitare il reinserimento delle donne nel mondo del lavoro. Capita spesso, come spiega il vice ministro Ruben Sargsyan, che le donne che hanno smesso di lavorare per poter crescere i figli, una volta tornate al lavoro si rendano conto di possedere competenze obsolete.

“Pur rappresentando la maggioranza dei laureati in Armenia, al rientro al lavoro molte donne si trovano ad affrontare un mercato del lavoro che non corrisponde più alle loro qualifiche. Di conseguenza, sono spesso costrette ad accettare lavori sottoqualificati e mal pagati”, spiega Sargsyan.

Consapevole della necessità di contrastare questo fenomeno, il ministero ha implementato diversi programmi a lungo termine – in particolare rivolti alle donne che cercano di reinserirsi nel mercato del lavoro – per ridurre la disoccupazione. Sono stati avviati anche alcuni programmi statali destinati agli altri segmenti vulnerabili della popolazione femminile.

Negli ultimi anni, il divario retributivo di genere, pur persistendo, si è ridotto. Diversi studi dimostrano che oggi in Armenia le donne lavoratrici hanno in media livelli di istruzione più elevati e maggiore esperienza rispetto ai loro colleghi maschi. Date queste permesse, è chiaro che, a parità di condizioni, le donne potrebbero rapidamente riconquistare la loro posizione nel mercato del lavoro.

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Armenia-Azerbaigian: i ministeri degli Esteri pubblicano il testo completo dell’accordo di pace (Agenzia Nova 11.08.25)

Armenia e Azerbaigian hanno reso pubblico il testo integrale dell’Accordo per l’instaurazione della pace e delle relazioni interstatali” firmato l’8 agosto a Washington, nel quale i due Paesi si impegnano a porre fine a decenni di ostilità e a stabilire relazioni bilaterali fondate sul rispetto reciproco della sovranità e dell’integrità territoriale. Il documento afferma che “i confini tra le ex Repubbliche Socialiste Sovietiche dell’Unione sovietica sono diventati i confini internazionali dei rispettivi stati indipendenti e sono stati riconosciuti come tali dalla comunità internazionale” e sancisce che le Parti “non hanno rivendicazioni territoriali reciproche e non avanzeranno tali rivendicazioni in futuro”. Viene inoltre stabilito l’impegno a “non intraprendere alcuna azione, compresa la pianificazione, la preparazione, l’incoraggiamento e il sostegno di tali azioni, che miri allo smembramento o al danneggiamento, in tutto o in parte, dell’integrità territoriale o dell’unità politica dell’altra Parte”. Entrambi i Paesi si obbligano ad “astenersi, nei loro rapporti reciproci, dalla minaccia o dall’uso della forza” e a non consentire a terzi di utilizzare i propri territori “per l’uso della forza incompatibile con la Carta delle Nazioni Unite”, impegnandosi anche a “non interferire reciprocamente negli affari interni”.

Il testo prevede che entro un numero imprecisato di “giorni dallo scambio di notifiche” sul completamento delle procedure interne di ratifica, le Parti “stabiliranno relazioni diplomatiche” secondo le Convenzioni di Vienna e avvieranno negoziati per “concludere un accordo sulla delimitazione e demarcazione del confine di Stato”. In attesa di questo passaggio, si impegnano a non schierare “forze di terze parti lungo il loro confine comune” e a mettere in atto “misure di sicurezza e di rafforzamento della fiducia concordate”. L’accordo contiene anche una clausola congiunta per “condannare e combattere l’intolleranza, l’odio e la discriminazione razziale, il separatismo, l’estremismo violento e il terrorismo in tutte le loro manifestazioni”, e per affrontare “i casi di persone scomparse e di sparizioni forzate” nei conflitti precedenti, inclusa la restituzione delle salme e indagini appropriate “come mezzo di riconciliazione e rafforzamento della fiducia”.

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Pace tra Armenia e Azerbaigian. Il passo falso di Mosca e i timori dell’Iran (Rassegna Stampa 11.08.25)

Pagine Esteri – Dopo quasi quarant’anni di guerre, Armenia e Azerbaigian hanno siglato nei giorni scorsi un accordo di pace apparentemente storico, frutto di anni di mediazioni e pressioni internazionali.

Venerdì scorso i presidenti dei due paesi, l’armeno Nikol Pashinyan e l’azero Ilham Aliyev, hanno firmato a Washington, sotto lo sguardo più che compiaciuto di Donald Trump, un Memorandum diretto ad istituire un Gruppo di Lavoro Strategico. A sua volta quest’ultimo dovrà redigere una Carta di Partenariato Strategico che cementerà le relazioni tra Baku e gli Stati Uniti, che non solo si faranno garanti della pace tra i due storici nemici ma incassano un importante ruolo di supervisione e gestione del “corridoio di Zangezur”, una via di transito che collegherà l’Azerbaigian alla sua exclave della Repubblica autonoma del Nakhchivan, passando nel sud del territorio armeno per più di 40 km.

Attualmente il passaggio tra il Nakhchivan e l’Azerbaigian (e viceversa) è possibile solo attraverso il territorio iraniano o quello georgiano, visto che le frontiere tra Armenia e Azerbaigian sono chiuse.

La realizzazione del corridoio, richiesta storica e pressante di Baku dopo le ripetute vittorie degli ultimi anni sulla sempre più isolata e debole Armenia, comporterà una linea ferroviaria, un’autostrada, un oleodotto, un gasdotto e una rete in fibra ottica.

Secondo Foreign Policy, formalmente il corridoio sarà sotto la giurisdizione armena, ma Erevan dovrà affittare per “99 anni” le aree interessate ad una società privata statunitense che controllerà la costruzione e la gestione delle infrastrutture previste.

Si tratta di una tripla vittoria dell’Azerbaigian, che non solo otterrà un collegamento diretto con una parte finora isolata del proprio territorio che sorge ad ovest dell’Armenia, ma anche una proiezione economica e logistica diretta verso la Turchia e il Mediterraneo, e la possibilità di bypassare sia la Russia sia l’Iran, rafforzando il proprio ruolo di hub energetico globale.

Da parte sua la Turchia, da tempo “fratello maggiore” della ex repubblica sovietica turcofona, otterrà una via privilegiata ed esclusiva per proiettare commerci ed influenza geopolitica e militare verso l’Asia Centrale.

Esulta anche Donald Trump, che oltre a confermare il suo sempre più ricercato e ostentato ruolo di “paciere globale”, ottiene un ritorno dell’influenza statunitense in un’area del globo dove Washington aveva avuto poco da fare negli ultimi anni.

Il corridoio nell’Armenia meridionale sarà battezzato con l’altisonante appellativo di “Trump Route for International Peace and Prosperity” (TRIPP), cioè “Rotta Trump per la Pace e la Prosperità Internazionale”. Sarà Washington – che da una parte corteggia Erevan insieme alla Francia dopo che il governo Pashinyan si è distanziato dalla Russia, ma che dall’altra gode di ottimi rapporti con l’Azerbaigian, come del resto l’intera Unione Europea – a dover garantire la sovranità armena sul territorio attraversato dal corridoio e al tempo stesso la piena fruizione di quest’ultimo da parte di Baku. Dovrebbero essere gli Stati Uniti a proteggere Erevan nel caso in cui Aliyev non dovesse accontentarsi di utilizzare la regione di Syunik nel sud dell’Armenia e tentasse l’annessione di quello che a Baku tutti chiamano, ormai da tempo, “Azerbaigian occidentale”. Ma il fatto che contestualmente all’intesa Trump abbia sbloccato la fornitura di armi all’Azerbaigian non lascia ben sperare.

Pashinyan ha cercato di presentare l’accordo come un successo, affermando che la pace e il cedimento alle pretese azere attireranno nuovi investimenti internazionali e apriranno comunque nuove opportunità economiche per la piccola repubblica, da tempo in crisi permanente e alle prese con un gran numero di sfollati provenienti dall’ex Repubblica dell’Artsakh, l’enclave armena in territorio azero spazzata via dall’ultima offensiva militare di Baku nel settembre del 2023.
Ma le voci contrarie a quella che molti considerano l’ennesima capitolazione di Pashinyan sono numerose negli ambienti nazionalisti e di opposizione, oltre che nella numerosa diaspora armena nel mondo.

Chi ha mostrato immediatamente la propria contrarietà all’accordo a tre è stato l’Iran, che non solo verrà tagliato completamente fuori dalle rotte commerciali dell’area interessata a causa del corridoio “Baku-Istanbul”, ma che guarda con preoccupazione alla ritrovata egemonia statunitense nel quadrante caucasico meridionale.
Non è ancora chiaro se il controllo della rotta logistico-commerciale da parte statunitense verrà gestito con l’invio di truppe regolari o, più probabilmente, attraverso qualche compagnia di sicurezza privata, ma la presenza di Washington a ridosso dei suoi confini, sommata alla sempre più stretta alleanza tra l’Azerbaigian e Israele, impensieriscono non poco Teheran.
Poche ore dopo la firma dell’intesa alcuni esponenti dell’establishment iraniano hanno addirittura minacciato il blocco del corridoio, definendolo una minaccia alla propria sicurezza nazionale.

La Russia, formalmente, ha accolto con favore l’intesa di Washington. «Sosteniamo costantemente tutti gli sforzi che contribuiscono al raggiungimento di questo obiettivo chiave per la sicurezza regionale. Ci auguriamo che questo passo contribuisca a far progredire l’agenda di pace», ha dichiarato la portavoce del Ministero degli Esteri di Mosca, Maria Zakharova.
Ma la Federazione Russa dall’intesa ha più da perdere che da guadagnare. Il corridoio bypasserà il territorio russo e indebolirà i traffici commerciali con l’Iran, rafforzando il regime azero che dopo aver approfittato dell’attiva collaborazione di Mosca – fondamentale, insieme al sostegno turco e israeliano, per avere la meglio sull’Armenia – negli ultimi anni ha assunto un atteggiamento ostile nei confronti della Russia, preferendo sviluppare relazioni privilegiate con l’occidente, sempre più dipendente dal gas di Baku.
Per non parlare del ritorno dell’egemonia statunitense in Armenia, paese che si è sentito abbandonato da Mosca e che ha lasciato le alleanze economiche e militari regionali guidate proprio dalla Russia, che pure nel paese mantiene una importante presenza militare.

Dopo la vittoria del fronte filoccidentale guidato da Pashinyan la dirigenza russa ha deciso alcuni anni fa di mollare l’Armenia al proprio destino, ritenendola poco interessante e poco appetibile e preferendo l’Azerbaigian che nel frattempo si era trasformato in una potenza regionale, economicamente e militarmente parlando, e in uno dei maggiori produttori mondiali di idrocarburi.

Così facendo però Mosca ha reso le cose ancora più facili al governo armeno che ha cercato un rapporto privilegiato con Washington e la Nato – che comunque rappresentano un baluardo assai poco convincente di fronte alle crescenti pretese azere – provocando un ulteriore indebolimento dei legami tra Erevan e Russia.
Il risultato è che Mosca si ritrova ora con gli Stati Uniti che rientrano in gioco nel suo “cortile di casa” caucasico, con un Azerbaigian sempre più potente e pretenzioso e con Israele e Washington che potrebbero utilizzare il nuovo scenario per isolare ulteriormente – se non per aggredire di nuovo militarmente – l’Iran, il principale alleato della Russia in Medio Oriente. Pagine Esteri

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Pace nel Caucaso grazie a Trump (CorrierePl)


Così passa la gloria di Mosca (Tempi)


La pace sospesa tra Armenia e Azerbaigian (Asianews)