Biennale: a Palazzo Zenobio gli angeli muti di Hovnanian (Ansa 21.04.22)

(ANSA) – VENEZIA, 21 APR – Il Centro Studi e Documentazione della Cultura Armena di Venezia presenta ‘Angels Listening’, un’installazione immersiva e intimista dell’artista Rachel Lee Hovnanian. Curata da Annalisa Bugliani, la mostra è un Evento Collaterale ufficiale della Biennale di Venezia 2022 e viene presentata a Palazzo Zenobio e nei suoi giardini a Dorsoduro, storico edificio veneziano del 18/o secolo, che dal 1991 è sede del Centro. L’esposizione sarà visibile dal 23 aprile al 27 novembre. ‘Angels Listening’ è concepita come uno spazio meditativo per riflettere su questioni urgenti legate all’identità, alla conoscenza, al tempo, nonché all’esperienza e alle relazioni interpersonali. (ANSA).

Prosegue a Cagliari la nuova stagione di Teatro da Camera de La Fabbrica Illuminata (sARDEGNAOGGIDOMANI 21.04.22)

Prosegue a Cagliari la nuova stagione di Teatro da Camera de La Fabbrica Illuminata. Domenica (24 aprile) nella Sala dei Ritratti della Fondazione Siotto (in via dei Genovesi 114) va in scena alle 19.00 La bastarda di Istanbul, reading tratto dall’omonimo romanzo di Elif Şhafak, con la voce recitante e l’adattamento del testo di Anna-Lou Toudjian e le musiche originali di Irma Toudjian, dal vivo al pianoforte.

Nel suo libro, la pluripremiata scrittrice turco-britannica (autrice bestseller in numerosi Paesi e tradotta in 55 lingue) racconta l’amicizia tra Armanoush, giovane armena americana, ed Asya, una giovane turca nata fuori dal matrimonio (la “bastarda”, appunto), affrontando un tema ancora scottante: quel buco nero nella coscienza del suo Paese che è la questione armena. La bastarda di Istanbul ha suscitato polemiche in Turchia, portando l’autrice ad essere accusata di “attacco all’identità turca” in base all’art. 301 del Codice penale turco. La denuncia deriva dalla dichiarazione fatta da un personaggio del suo romanzo che caratterizza il massacro degli Armeni durante la prima guerra mondiale come genocidio. L’inchiesta è stata archiviata il 21 settembre 2006.

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>> Domenica a Cagliari si ricorda il genocidio del popolo armeno

Recensione: 5 Dreamers and a Horse (Cineuropa.org 21.04.22)

Il film del duo di registi armeni Aren Malakyan e Vahagn Khachatryan ci conduce per mano nell’intimità di personaggi a fior di pelle che lottano per esistere, ognuno a modo suo

Presentato in prima mondiale a Visions du Réel 2022 nella Competizione Internazionale lungometraggi, 5 Dreamers and a Horse di Aren Malakyan e Vahagn Khachatryan ci confronta con una galleria di personaggi che cercano di imporre la loro identità al di fuori di una soffocante “normalità”. Grazie allo sguardo empatico ed esteticamente poetico dei due registi, 5 Dreamers and a Horse mette in scena tre facce dell’Armenia: quella incarnata dalla responsabile di un ascensore in un ospedale cittadino che sogna di diventare astronauta, portavoce di un sovietismo urbano dai toni esaltati, una seconda capitanata da un contadino alla ricerca della moglie perfetta confrontato con un problema di sterilità, esempio tristemente perfetto di una società rurale dominata dal patriarcato e una terza impersonata da due personaggi queer che militano per la libertà di essere semplicemente quello che sono, simbolo di un’apertura verso un occidente sognato ed idealizzato.

Con 5 Dreamers and a Horse, Aren Malakyan e Vahagn Khachatryan firmano un film sui sogni, sul desiderio di vivere un futuro ideale nel quale trasformarsi in eroi.ne.x. Attraverso la messa in scena al contempo decisa e rispettosa dei suoi personaggi, i due registi armeni ci permettono di osservare la loro nazione senza i filtri imposti da un governo che vorrebbe controllare tutto e tutti. Il loro film dipinge una nazione multisfaccettata nella quale la tradizione si scontra con l’apertura mentale di giovani che ne decostruiscono le limitazioni.

La comunità queer messa in scena nel film, i concerti clandestini e le discussioni apparentemente banali fatte sul tetto di un palazzo, luogo metaforico dal quale osservare con fierezza la città di Yerevan, incarna la nuova generazione armena pronta a lottare per un futuro nel quale esistere malgrado un patriarcato soffocante che si crede immutabile. Quello che vogliono è vivere liberi.e.x, senza frontiere (reali o immaginarie), ridefinendo un mondo dal quale sono esclusi.e.x, un mondo che si aggrappa con tutte le forze a granitiche tradizioni basate sul dominio dell’uomo egemonico. Emblematica in questo senso la ricerca affannosa della sposa ideale da parte di uno dei protagonisti, una donna disposta ad accettare il ruolo subordinato che vuole che interpreti. Pronto a tutto pur di conformarsi con una società patriarcale che lo vuole dominante e virile (nel senso tradizionale del termine), il futuro marito deve confrontarsi con le difficoltà di una ricerca che si rivela molto più difficile del previsto, vittima suo malgrado di una carenza di pretendenti e da un’infertilità vissuta come un fallimento. Cosa gli resta oltre la facciata, quando la maschera grottesca cede finalmente il posto alla realtà? Come farà ad accettare il suo nuovo ruolo: quello dell’uomo “ammaccato”, sterile e quindi inutile? Il suo sogno conformista sembra svanire a causa di uno scherzo del destino, proprio quando il traguardo sembrava ormai raggiunto. Uno scherzo del destino che lo spinge, nel bene o nel male, a confrontarsi con un’ “anomalia” che, a differenza della comunità queer, vive come un’ingombrante tara.

Aren Malakyan e Vahagn Khachatryan firmano un primo lungometraggio elegante e misterioso su di un paese complesso e contraddittorio dove le tradizioni arcaiche convivono con una generazione di giovani adulti che sognano la rivoluzione. Trasformare i sogni in realtà, ecco cosa i due registi sembrano augurare ai loro protagonisti. Un augurio che condividiamo anche noi.

5 Dreamers and a Horse è prodotto dalla tedesca Color of May e dall’armena OOlik Production.

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Novecento. Morte e diaspora: l’Armenia di Manook (Avvenire 21.04.22)

Lo scrittore ed editore francese di origini armene si basa sui ricordi della nonna sul genocidio e segue le sue peripezie fino a Marsiglia

La deportazione di una famiglia armena

La deportazione di una famiglia armena – Armin T. Wegner, “Una finestra sul massacro”

«I bambini non capiscono nulla della guerra. Preferiscono stuzzicare gli scarabei dorati nell’ombra azzurra degli eucalipti». Eppure, ed è la cronaca di questi giorni a sbattercelo in faccia, sono loro a subirne le conseguenze più atroci, psicologiche e fisiche fino a perdere, con la vita, il futuro. Personale e collettivo. È fulminante l’incipit de L’uccello blu di Erzerum di Ian Manook, scrittore, editore e giornalista francese di origine armena. Esce oggi in libreria per Fazi (pagine 520, euro 20,00) in vista della Giornata per il ricordo del genocidio armeno che si celebra il 24 aprile. Lascia enza fiato la sarabanda di crudeltà che l’autore descrive, rifacendosi ai ricordi della nonna. In una sorta di ‘disclaimer’ iniziale l’autore confessa di avere eliminato le due scene più crude per timore che fossero credute un tentativo di calcare la mano. Ci si chiede cosa potessero contenere, visto l’orrore di quanto narrato. Donne violentate e squartate, cavalieri che cercano i bimbi rimasti a vagare da soli per decapitarli, cadaveri ovunque. Una strage degli innocenti, un feroce odio, anche religioso, verso gli armeni cristiani da parte di turchi e curdi musulmani. Protagoniste della storia sono due sorelline, Araxie (la nonna dell’autore) e Haïganouch, 10 e 6 anni all’inizio della storia, che coincide con il 1915 punto di partenza del biennio genocida. Nella prima scena la madre viene bruciata viva e la seconda bimba resta cieca. Vengono affidate a parenti ad Erzerum. Ma qui inizia una lunga deportazione. Una marcia della morte in cui i parenti vengono uccisi, vengono salvate da un’anziana che si finge la loro nonna e insegna loro a nutrirsi di semi raccolti dallo sterco di cavallo essiccato. E a sopravvivere alla marcia della morte. Prima che arrivino nel micidiale deserto di Deir-er-Zor o nei campi di prigionia di Aleppo, la salvezza si materializza quando un medico le acquista come schiave. Divengono amiche di sua figlia, Assina, che appena 15enne è data in sposa a un uomo molto più grande e violento. Finirà per ucciderlo dopo aver scoperto che è stato lui a denunciare e far impiccare il padre, che – di mentalità chiusa, ma uomo buono ha aiutato degli armeni. E a causare così la pazzia della madre. Alle due giovani viene tatuato sul braccio l’uccello blu del titolo, un merlo che accompagna la storia comparendo di tanto in tanto – quale segno di persistenza della speranza e della volontà di farcela – tra eccidi e ricordi d’infanzia, come quello legato agli scarabei dorati. In nome della voglia di resistere, alla storia delle due bimbe si alterna quella di Haïgaz e Agop, due ragazzi armeni che vivono di furtarelli e, di notte, vanno a uccidere soldati turchi per vendetta. Dopo una serie di peripezie tra Medio Oriente ed Europa, in anni decisivi che vedono il crollo dell’Impero ottomano alla fine della Grande guerra, Haïgaz in Francia incontrerà e sposerà Araxie. Mentre la sorellina cieca finirà in Unione Sovietica, dove diventerà poetessa, dono che ha coltivato già dall’infanzia martoriata. Il romanzo si chiude nel 1939 alla vigilia di una nuova guerra. L’intento di Manook è di realizzare una narrazione corale in modo da abbracciare quattro generazioni e tre continenti. Lo spiega in un video reperibile on-line sul canale YouTube dell’editore francese Albin Michel, presso il quale L’Oiseau bleu d’Erzeroum è uscito come primo volume, lasciando intendere che ve sarà un secondo. La sua, dice Manook, «è soprattutto una dichiarazione d’amore alla diaspora. Io sono molto interessato alle culture nomadi, più che alla rivendicazione del genocidio, al bisogno di giustizia e di riconoscimento. Più che di questo voglio arrivare a parlare di come nasce, si sviluppa e si consolida una diaspora». Di Manook, pseudonimo di Patrick Manoukian, classe 1949, ha avuto successo la trilogia dedicata al commissario mongolo Yeruldelgger, pubblicata in Italia sempre da Fazi che ha in catalogo anche altre opere di questo autore. Il romanzo armeno di Manook si situa nel filone della riscoperta della radici, anche quelle più dolorose, da parte dei figli e nipoti dei sopravvissuti sparsi nel mondo. Con uno sguardo, però, ampio e aperto. Infatti, il libro è dedicato «ai bambini di tutte le diaspore, che arricchiscono con la loro cultura quella che li accoglie. Che le loro differenze si uniscano, invece di escludersi». In Italia è stata Antonia Arslan con La Masseria delle allodole (Rizzoli, 2004) e altre sue opere a far prendere coscienza (e conoscenza) sul tema. Mentre Aline Ohanesian, nata in Kuwait e residente negli Usa, che aveva letto del genocidio solo sui libri, ha scoperto l’importanza di quell’evento per la sua famiglia, trasponendo i ricordi dolorosi della bisnonna in Raccontani dei fiori di gelso (Garzanti 2016). Senza contare i numerosi volumi che si situano più sul piano della memorialistica. E senza dimenticare il grande monumento letterario al genocidio armeno costituito dai Quaranta giorni del Mussa Daghdi Franz Werfel (Corbaccio), uscito nel 1933, anno della presa del potere da parte di Adolf Hitler al quale viene attribuita la celebre frase per spronare i suoi a eliminare gli ebrei: «Chi si ricorda oggi dello sterminio degli armeni?». Il caporale austriaco compare nel libro di Manook in una specie di cameo, quando va a fare visita alla figlia del diplomatico tedesco ricoverata in Germania perché rimasta paralizzata dallo shock subito alla vista della massa di cadaveri trascinati dal fiume (scene rivissute non moltissimi anni fa in Rwanda). Scena che fa parte della ricostruzione storica minuziosa che Manook fornisce nelle sue pagine e fa da contrappunto alle peripezie dei personaggi. Ma i due piani sembrano non arrivare mai ad allinearsi. La politica segue le sue logiche e decide brutalmente delle sorti dei civili. A questi resta la sofferenza.

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Armenia: stretta sul tabacco (Osservatorio Balcani e Caucaso 21.04.22)

Attraverso recenti provvedimenti, il governo armeno sta tentando di contrastare la dipendenza da tabacco. Niente più sigarette al bar e ai ristoranti

21/04/2022 –  Armine Avetisyan

Il primo gennaio di quest’anno sono entrate in vigore in Armenia alcune importanti disposizioni relative alla legge “Sulla riduzione e prevenzione dei danni alla salute causati dall’uso di prodotti del tabacco e loro sostituti” adottata nel 2020.

Secondo tali disposizioni, è vietata l’esposizione pubblica di qualsiasi prodotto relativo al tabacco – come sigarette tradizionali, sigarette elettroniche, prodotti a base di nicotina a base liquida (vapes) – sia attraverso distributori elettronici nei punti vendita sia negli esercizi di ristorazione pubblica.

Negli esercizi commerciali destinati alla loro vendita è vietato collocare questi prodotti o i loro marchi e simboli – comprese le relative scatole vuote o fuori misura – in luoghi visibili al consumatore.

Nel quadro della stessa legge, dal 15 marzo è entrato in vigore il divieto di utilizzare tutti i tipi di prodotti del tabacco sia all’interno che all’esterno di ristoranti, bar, altri punti vendita alimentari, hotel, centri commerciali e altri luoghi di lavoro al chiuso.

Secondo gli autori della legge, la piena applicazione di queste disposizioni nel tempo ridurrà notevolmente il consumo di tabacco in Armenia, migliorando la salute della popolazione.

Secondo un rapporto congiunto dell’ONU, del ministero della Salute e di alcune organizzazioni internazionali, in Armenia si registrano circa 5.500 decessi ogni anno  per malattie causate dal fumo. Secondo lo stesso rapporto, più di un quarto della popolazione – il 28%, di età compresa tra i 18 e i 69 anni in Armenia – usa un qualsiasi tipo di tabacco (la media UE relativa al 2019 si attestava sul 18,4% della popolazione dell’UE di età pari o superiore a 15 anni).

Alzare il prezzo

Per ridurre il numero dei fumatori era già stato disposto un aumento dei prezzi ma – come hanno poi dimostrato le statistiche – invano.

Infatti, nel periodo 2012-2016, il prezzo delle sigarette è aumentato di circa il 18%, ma nello stesso periodo il numero dei fumatori uomini è aumentato del 5%, dal 51% al 56%, e il numero delle donne fumatrici è raddoppiato dall’1,5% al 3%. Nei primi sei mesi del 2017 erano disponibili sul mercato armeno 2,3 miliardi di sigarette, metà delle quali prodotte in Armenia e metà importate.

Sempre relativamente al 2017 i dati dell’Istituto statistico nazionale dell’Armenia riportano che nella prima metà dell’anno il volume delle vendite di sigarette prodotte nella sola Armenia è stato di 14,3 miliardi di dram, equivalenti a 8,5 milioni di euro.

Nuove restrizioni importanti?

Gli esperti sono concordi nel ritenere che queste nuove restrizioni avranno successo nel contrastare il consumo di tabacco tra i cittadini armeni.

Mariam Mnatsakanyan, responsabile del Dipartimento di salute pubblica del ministero della Salute armeno, ha comunicato ai giornalisti che l’obiettivo del ministero non è solo quello di indurre gli attuali fumatori a smettere, ma anche di non avere nuovi fumatori, in modo che le nuove generazioni non subiscano i danni della dipendenza dal tabacco.

Immediatamente dopo l’adozione della legge, il governo ha informato i proprietari di bar e ristoranti in merito ai cambiamenti in atto, in modo da metterli nelle condizioni di potersi preparare prima della sua entrata in vigore.

Gli estensori della normativa hanno sottolineato di aver studiato l’esperienza internazionale e, su tale base, affermano che dopo l’applicazione di simili leggi in altri paesi non solo il numero dei clienti nei luoghi di ristorazione non è diminuito, ma è addirittura aumentato: si può stare seduti più a lungo e frequentare i locali anche in famiglia.

Lo specialista di salute pubblica Davit Melik-Nubaryan valuta positivamente l’adozione della legge, notando come vi sono restrizioni simili in Russia e nei paesi dell’Unione europea e risultano particolarmente efficaci: “È molto importante fare in modo che adolescenti e giovani non fumino e, in secondo luogo, aiutare le persone che già fumano a smettere”. Ed ha poi sottolineato come sarebbe importante aumentare drasticamente i prezzi delle sigarette. “L’aumento rilevante dei prezzi è lo strumento più efficace nella lotta al tabacco. I prezzi delle sigarette sono troppo bassi in Armenia”.

Il parere degli esperti, tuttavia, non viene accettato univocamente da tutti i consumatori. Le persone a cui piace godersi una tazza di caffè insieme ad una sigaretta al bar si stanno lamentando di venir private della loro abitudine preferita: “Il mondo intero parla dei diritti dei non fumatori, vengono adottate leggi speciali per vietarci di fumare qua e là, e chi proteggerà gli interessi di noi fumatori, visto che siamo ostacolati anche dai non fumatori?” Così si esprime, in parte serio e in parte scherzoso, Samvel, un uomo d’affari di Yerevan che non intende più recarsi in luoghi pubblici a causa della nuova legge. “Non posso né mangiare né bere caffè senza una sigaretta. Non mi sento completo. Mi sento in salute quando fumo”.

Analoghi reclami sono espressi anche da alcuni imprenditori, sostenendo che è difficile dire al cliente che non è consentito fumare.

Lamentele di questo genere sono ampiamente diffuse. Tuttavia, gli specialisti del settore sono sicuri che si tratti di una fase transitoria. Rimangono convinti che col tempo passerà anche questa fase, perché la base della legge è esclusivamente la salute dei cittadini.

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Celebrata la prima Cerimonia cittadina della Giornata del Ricordo del Genocidio del popolo Armeno (Comune Venezia 20.04.22)

Una ferita ancora aperta, un nuovo percorso della memoria che ha preso il via questa mattina con l’istituzione della prima Giornata del Ricordo del Genocidio del popolo Armeno. All’Auditorium Santa Margherita di Ca’ Foscari è stata celebrata la prima Cerimonia cittadina, promossa dalla Presidenza del Consiglio.

Un’iniziativa, è stato spiegato nel corso del dibattito, per suggellare il millenario legame tra Venezia e la popolazione armena presente in città fin dai tempi della Serenissima ma anche per fare tesoro delle tragedie del passato come monito per il presente e  per il futuro. All’intervento della presidente del Consiglio comunale sono seguiti quelli di Marco Salati, vicedirettore del dipartimento di studi sull’Asia e sull’Africa Mediterranea dell’Università Ca’ Foscari, di Baykar Sivazliyan, presidente Unione Armeni d’Italia e di Aldo Ferrari, docente di Lingua e letteratura armena di Ca’ Foscari. All’appuntamento moderato da Germana Daneluzzi, presidente dell’Associazione Civica Lido Pellestrina, hanno preso parte anche Gagik Sarucanian, console onorario della Repubblica d’Armenia a Venezia e Setrak Tokatzian, armeno veneziano.

In platea una folta rappresentanza di studenti delle scuole cittadine. A loro i relatori hanno rivolto l’appello a farsi testimoni della memoria di quello che Papa Francesco ha definito “il primo genocidio del XX secolo”. Ai ragazzi si è rivolta anche Victoria Tokatzian, una giovane veneziana di origini armene che dal palco ha inviato un messaggio di speranza.

Al termine del dibattito la Cerimonia cittadina è proseguita con un reading musicale, con letture di testi del poeta armeno Daniel Varujan a cura dell’associazione Voci di Carta, accompagnate da musiche del repertorio folk armeno suonate al duduk, antico strumento popolare, da Giuseppe Dal Bianco.

Le celebrazioni della prima edizione della Giornata dedicata al ricordo del Genocidio Armeno continueranno fino al prossimo 11 maggio con appuntamenti diffusi sul territorio comunale. Tra questi, il 4 maggio è in programma una visita guidata a San Lazzaro degli Armeni, in collaborazione con la Congregazione Armena Mechitarista.

In questa pagina il calendario degli eventi in programma.

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Martedì 26 aprile e giovedì 28 aprile si riunisce in videoconferenza il Consiglio comunale

La guerra ignorata. 1920: 20.000 Armeni uccisi nel Pogrom azero di Sushi bruciata. 2020: Azeri occupano Sushi ricostruita dagli Armeni. 2022: Congresso degli Azeri del Mondo a Sushi (Korazym 20.04.22)

Il dittatore azero guerrafondaio Ilham Aliyev ha annunciato il Quinto Congresso degli Azeri del Mondo, il primo dopo la guerra di aggressione dell’Azerbajgian con il sostegno della Turchia del 2020 (per l’Azerbajgian “dopo il liberazione del Karabakh”). Si svolgerà a Shushi, la “Gerusalemme armena”, strappata loro con la guerra dei 44 giorni, e dagli Azeri – “nostri partner energetici” – elevata a “Capitale culturale dell’Azerbajgian”, “liberata dall’occupazione dal potente esercito azerbajgiano sotto la guida del Comandante in capo Ilham Aliyev”.

Il 27 settembre 2020 si è riaccesa la guerra secolare in Artsakh/Nagorno-Karabakh tra Armenia e Azerbajgian. Si tratta di un conflitto, definito “congelato” in quanto si protrae dal 1988 con scontri alternandosi tra bassa e alta intensità, ripreso con la guerra dei 44 giorni del 2020, che in realtà è una guerra che c’è da più di un secolo. Ignorata. Dal 1994, anno in cui si arrivò al primo cessate il fuoco con la firma del protocollo di Biškek, con la mediazione della co-Presidenza (Russia, Stati Uniti e Francia) del Gruppo di Minsk dell’OSCE, si sono susseguiti tentativi di risoluzione del conflitto e momenti di riattivazione degli scontri, che continuano fino ad oggi.

Nel 2020, già a luglio si erano registrati scontri nella provincia armena di Tavush, in cui insolitamente vennero impiegate armi molto sofisticate, droni e artiglieria pesante. Il 27 settembre 2020, poi, l’Azerbajgian effettuò alcuni attacchi missilistici ed aerei nel territorio dell’alto Karabakh, compresa su Stepanakert, la capitale della Repubblica di Artsakh/Nagorno-Karabakh, fatto che non si verificava dagli anni Novanta, periodo in cui il conflitto era nelle fasi più violente. Inizialmente, Baku dichiarò che si trattava di una controffensiva, a seguito di un iniziale attacco armeno, poi smentito come false flag: “In risposta alle provocazioni su larga scala commesse dalle forze armate armene lungo l’intera lunghezza del fronte, l’esercito azero il 27 settembre 2020 ha lanciato una controffensiva che poi è stata soprannominata Pugno di ferro. La guerra dei 44 giorni ha posto fine ai quasi 30 anni di occupazione e ha assicurato il ripristino dell’integrità territoriale dell’Azerbajgian. La brillante vittoria nella guerra patriottica ottenuta sotto la guida del Comandante in capo Ilham Aliyev è stata scritta nella storia dell’Azerbajgian a lettere d’oro” (AZERTAC-AZERBAIJAN STATE NEWS AGENCY, l’agenzia stampa del regime dittatoriale di Baku – Nostra traduzione italiana dall’inglese).

Le attività militari si estesero quindi sull’intera linea di contatto, con un dispiegamento significativo di carri armati, fanteria, droni e artiglieria da parte di Baku. Quindi, era chiaro che le operazioni erano state certamente già pianificate da tempo. Il confronto decisivo avvenne tra il 4 e l’8 novembre 2020 nella Battaglia di Shushi, quando le forze armate azere occuparono, la seconda città della Repubblica di Artsakh/Nagorno-Karabakh. Questo obiettivo rappresentava per Baku un valore simbolico, ma pure una conquista strategica, visto che Shushi si trova in una posizione sopraelevata e a soli 15 chilometri da Stepanakert. Quindi, costituiva l’ultima roccaforte armena prima della capitale dell’Artsakh. A seguito di violenti scontri, l’8 novembre 2020, il Presidente azero Ilham Aliyev in un Discorso alla nazione pronunciato nel Vicolo dei Martiri a Baku, annunciò la conquista (per gli Azeri la “liberazione”) della Città: “Condividere questa buona notizia con il popolo dell’Azerbajgian in questo giorno storico è forse uno dei giorni più felici della mia vita. Caro Shusha, sei libera! Cara Shusha, siamo tornati! Cara Shusha, ti faremo rivivere! Shusha è nostra! Il Karabakh è nostro! Il Karabakh è Azerbajgian!”. Il giorno successivo il Primo Ministro armeno Nikol Pashinyan rese nota la resa delle forze armene e la firma di un accordo di cessato il fuoco trilaterale, mediato dal Presidente russo Vladimir Putin.

Riportiamo da AZERTAC la notizia della preparazione del Quinto Congresso degli Azeri del Mondo, con tutto il repertorio della propaganda guerrafondaia azera. Per AZERTAC, “la diaspora azera nel mondo ha svolto un ruolo significativo nel portare la verità sull’Azerbajgian alla comunità mondiale”.

Inoltre, facciamo seguire un dossier su Il Massacro di Sushi del 1920.

E concludiamo con un dossier confezionato da AZERTAC – La Stategia della Vittoria – per esemplificare con tutto l’arsenale della propaganda guerrafondaio del regime dittatoriale di Baku e dello stesso dittatore guerrafondaio azero Ilham Aliyev, cosa significa la parola “pace” nella concezione azera, conforme ad una consolidata tradizione più che centenaria: l’annessione totale dell’Artsakh/Nagorna-Karabakh e della provincia meridionale armena di Syunik (territorio armeno che gli Azeri chiamano Zangezur e rivendicano come loro; i monti Zangezur sono la catena montuosa che definisce il confine tra l’Armenia e la Repubblica Autonoma di Nakhichevan che fa l’exclave che fa parte dell’Azerbajgian), non dimenticando le pretese azere sul resto dell’Armenia, iniziando con il Khanato di Erivan, che era un’entità amministrativa istituito nel XVIII secolo dalla dinastia degli Afsharidi, al tempo al potere in Iran (copriva un territorio che corrisponde a quello dell’odierna Armenia centrale con la capitale Erevan, delle provincie di Iğdır e Kars e del distretto di Kağızman in Turchia, e dei distretti di Şərur e di Sədərək nella Repubblica Autonoma di Nakhichevan).

Shusha ospiterà il Quinto Congresso degli Azeri del Mondo
di AZERTAC, 18 aprile 2022

(Nostra traduzione italiana dall’inglese)

I lavori preparatori per il Quinto Congresso degli Azeri del Mondo sono in via di completamento, ha detto ad AZERTAC il Comitato di Stato per il Lavoro con la Diaspora. Shusha, liberata dall’occupazione dal potente esercito azerbaigiano sotto la guida del comandante in capo Ilham Aliyev, ospiterà il Quinto Congresso degli Azeri del Mondo. In primo luogo, i partecipanti al Congresso visiteranno il Vicolo degli Onori e il Vicolo dei Martiri a Baku, quindi si dirigeranno a Shusha, capitale culturale dell’Azerbajgian. Circa 400 rappresentanti della diaspora da 65 Paesi sono attesi al Congresso. Dopo la cerimonia ufficiale di apertura del Congresso, verrà presentato un rapporto del Comitato di Stato per il Lavoro con la Diaspora, si svolgeranno dibattiti sui temi “Compiti che devono affrontare la diaspora azera nel dopoguerra”, “Contributi della diaspora azera alla restaurazione e la ricostruzione del Karabakh”. Negli ultimi anni, la diaspora azera ha dimostrato forti capacità organizzative e unità e ha svolto un ruolo significativo nel portare la verità sull’Azerbaigian alla comunità mondiale e il Quinto Congresso degli Azeri del Mondo sarà il primo incontro su larga scala della diaspora azera dopo il liberazione del Karabakh.

Le rovine dei quartieri armeni di Shushi all’indomani della loro distruzione da parte dell’esercito azerbajgiano il 23 marzo 1920.

Il Massacro (o Pogrom) di Shushi del 1920

Il Massacro di Shushi gettò le basi per il conflitto tra Azerbajgian e l’Artsakh/Nagorno-Karabakh

Il 23 marzo 1920 le truppe della neonata Repubblica di Azerbajgian, unite agli abitanti azeri di Shushi, iniziarono un massacro sistematico di Armeni che vivevano in quella che allora era la capitale del Nagorno-Karabakh. Per tre giorni, la popolazione armena non è stata risparmiata e la città fu trasformata in un inferno, poiché gli Azeri hanno bruciato circa 2.000 edifici nel tentativo di radere al suolo la parte armena della Città e liberarla dai suoi abitanti Armeni.

Lunedì 23 marzo 2020, in occasione del 100° anniversario di questa pagina sanguinosa della storia armena, alcuni mesi prima della più recente invasione e occupazione militare di gran parte dell’Artsakh/Nagorno-Karabakh da parte delle forze armate dell’Azerbajgian, il Ministero degli Esteri della Repubblica di Artsakh/Nagorno-Karabakh ha emesso un Comunicato in cui affermava che il Massacro di Sushi del 1920 ha gettato le basi per l’attuale conflitto azero-armeno, che ha visto una ripetizione moderna degli eventi del 1920 quando le forze armate e i cittadini azeri massacrarono gli Armeni a Sumgait, Kirovabad, Baku e Shahumyan, tra le altre Città a partire dal 1988.

Cent’anni fa, il 23 marzo 1920, le autorità della neonata Repubblica Democratica di Azerbajgian massacrarono la popolazione armena di Shushi, l’allora centro amministrativo e culturale dell’Artsakh, ha affermò nella Nota il Ministero degli Esteri della Repubblica di Artsakh/Nagorno-Karabakh.

Come risultato di questo efferato crimine, fino a 20.000 Armeni furono uccisi, decine di migliaia furono costretti a fuggire dalle loro case e la parte armena della città fu saccheggiata, bruciata e completamente distrutta. I residenti armeni di Shushi sopravvissuti, che costituivano la maggioranza della popolazione della Città, furono completamente espulsi. La maggior parte di questa un tempo bellissima Città armena rimase in rovina per molti anni. L’enorme patrimonio culturale di Shushi fu distrutto.

Le rovine dei quartieri armeni di Shushi all’indomani della loro distruzione da parte dell’esercito azerbajgiano il 23 marzo 1920. Al centro, la cattedrale armena apostolica Ghazanchetsots deturpata del Santo Salvatore.

L’entità e la crudeltà di questo crimine hanno colpito i contemporanei che hanno visitato Shushi subito dopo il massacro e hanno notato che i pozzi erano pieni di corpi di donne e bambini. La tragedia ha lasciato un segno così profondo nella Città e nella sua atmosfera che anche dopo 100 anni provoca impressioni cupe e sentimenti pesanti.

La descrizione più accurata degli orrori della Città di Sushi distrutta, è stata data da uno dei principali scrittori russi del XX secolo, l’eminente poeta ebreo Osip Ėmilevič Mandelštam e sua moglie Nadežda Jakovlevna, che visitarono Sushi nel 1931. Colpito dai terrificanti eventi della Città, il poeta scrisse la sua poesia “L’autista del Phaeton”, dedicato agli orrori di Shushi:

Su un vertiginoso passo di montagna,
In prossimità dei quartieri musulmani,
La morte e noi abbiamo fatto una Danza Macabra –
Terrorizzati eravamo come in un sogno.

Il nostro autista del Phaeton era abbronzato
E tutto essiccato come un’uva passa,
Come era l’autista del diavolo
Conciso e pieno di tristezza e sventura.

Ora il grido gutturale di un Arabo,
Ora un brontolio senza senso “eh”–
Si è preso cura di proteggersi il viso
Come se fosse una rosa o un rospo.

Nascondendo la sua orribile deturpazione
Sotto una maschera di pelle nera,
Stava guidando la carrozza
Ai limiti estremi dell’umanità.

Con un sussulto e un inizio di gare,
E sembrava impossibile che saremmo mai
Scesi da questa montagna visto che una moltitudine
Di carrozze e locande sfrecciavano.

Sono arrivato a: aspetta un secondo, amico!
Ora ricordo – sarò dannato!
È il presidente pestilenziale
Questo ha fatto perdere noi e i cavalli.

Guida la carrozza senza naso,
Facendo gioire un’anima stanca,
In modo che la terra agrodolce
Girava come una giostra.

In questo modo, nel Nagorno-Karabakh,
Nella città tagliagole di Shushi,
Ho assaporato profondamente questi terrori
Di cui l’anima umana è preda.

Quarantamila finestre senza vita
Sono visibili lì da tutti i lati
E il bozzolo senz’anima del lavoro
Giace sepolto sui suoi pendii.

E le case svestite
Diventano spudoratamente più rosa,
E sopra di loro c’è il cielo
La peste blu intenso si oscura.

Nadežda Jakovlevna, la moglie del poeta Mandelštam ha scritto del loro viaggio in Karabakh: “All’alba, abbiamo preso l’autobus da Ganja a Shushi. La città ci ha accolto con un cimitero infinito e una minuscola piazza del mercato dove scendevano le strade della città devastata. Ci era già capitato di vedere villaggi abbandonati con solo alcune case fatiscenti rimaste, ma in questa città – una città che un tempo era ovviamente ricca e dotata di ogni comodità – il quadro della catastrofe e dei massacri era orribilmente evidente. Camminavamo per le strade, e dappertutto la stessa cosa: due file di case senza tetto, senza finestre, senza porte. Dalle finestre erano visibili stanze vuote, occasionali ritagli di carta da parati, stufe fatiscenti, a volte resti di mobili rotti. Case a due piani realizzate con il famoso tufo rosa. Tutti i muri erano rotti e attraverso questi scheletri di case passava l’azzurro del cielo. Dicono che dopo le stragi tutti i pozzi della città erano pieni di cadaveri. Coloro che sono sopravvissuti sono fuggiti da questa città di morte. Non si vedeva nessuno per le strade o in montagna. Solo in centro città, sulla piazza c’era molta gente. Ma tra loro non c’era un solo Armeno, erano tutti musulmani. Osip Mandelštam ha avuto l’impressione che i musulmani sul mercato fossero i resti degli assassini che avevano devastato la città un decennio fa, ma non ne hanno beneficiato in alcun modo: abbiamo visto la stessa povertà orientale, stracci orribili e purulente piaghe sui loro volti. Stavano scambiando manciate di farina di mais, pannocchie, focacce… Non abbiamo osato comprare focacce da queste mani, anche se volevamo mangiare… Osip Mandelštam ha detto che le cose altrove erano le stesse come a Shushi, ma qui tutto era più evidente ed era impossibile mangiare anche un solo pezzo di pane… E non si poteva nemmeno bere l’acqua dei pozzi… La città non aveva solo alberghi ma anche dormitori dove uomini e donne potevano dormire insieme. L’autobus per Ganja sarebbe partito la mattina successiva. La gente al bazar ci offriva di passare la notte a casa loro, ma avevo paura delle piaghe orientali e Mandelštam non riusciva a liberarsi dell’idea che i musulmani fossero in realtà pogromisti e assassini. Abbiamo deciso di andare a Stepanakert, una città regionale. Era possibile arrivarci solo in taxi. Abbiamo incontrato un tassista senza naso, l’unica persona nel parcheggio, con una benda di pelle che gli copriva il naso e parte del viso. E poi, tutto era esattamente come nelle poesie, e non credevamo che ci avrebbe davvero portati a Stepanakert”.

Numerosi altri funzionari comunisti hanno ricordato la distruzione della città. Sergo Ordzhonikidze, il 21 gennaio 1936 nel Cremlino di Mosca, durante il ricevimento della delegazione della Repubblica Socialista Sovietica dell’Azerbajgian, ricorda la sua visita alla distrutta Shushi: “Ancora oggi ricordo con orrore quello che vidi a Shushi nel 1920. La più bella città armena fu completamente distrutta, e che nei pozzi abbiamo visto cadaveri di donne e bambini”. Uno dei leader del Komsomol della Repubblica Socialista Sovietica dell’Azerbajgian, Olga Shatunovskaya, in seguito scrisse nelle sue memorie: “L’Azerbajgian non voleva perdere il potere in quanto il Nagorno-Karabakh è una grande regione. È autonomo ma solo nominalmente, durante questi anni hanno estromesso molti Armeni, hanno chiuso scuole e college. In precedenza, la Città principale era Shushi. Quando negli anni Venti ci fu un massacro, bruciarono tutta la parte centrale della città e poi non l’hanno nemmeno restaurata”. Due eminenti attivisti comunisti armeni, Anastas Mikoyan e Marietta Shaginyan, hanno scritto sui massacri nelle loro memorie. Mikoyan, che si trovava nella regione, in seguito ha osservato: “Secondo le informazioni, a disposizione del governo azero Mousavatista c’era un esercito di 30mila unità, di cui 20mila schierati vicino al confine con l’Armenia. (…) L’esercito dell’Azerbajgian poco prima che massacrò gli Armeni a Shushi, nel Karabakh”. La scrittrice georgiana Anaida Bestavashvili ha fatto un confronto tra l’incendio di Shushi e la distruzione di Pompei nel suo La gente e i monumenti.

Le rovine dei quartieri armeni di Shushi all’indomani della loro distruzione da parte dell’esercito azerbajgiano il 23 marzo 1920. Sullo sfondo la cattedrale armena apostolica Ghazanchetsots del Santo Salvatore e la chiesa armena apostolica di Aguletsots.

Il giornalista contemporaneo Thomas de Waal ha scritto nel suo libro Giardino Nero: Armenia e Azerbaigian attraverso la pace e la guerra (New York University Press 2003) su questi eventi: “Il devastante sacco del 1920 arrivò dopo che i Russi se ne erano andati e alla fine di un altro periodo di crisi economica e guerra civile. In quell’occasione un esercito azero si scatenò nella città alta armena, bruciando intere strade e uccidendo centinaia di armeni. Quando i Russi tornarono, indossando uniformi bolsceviche, Stepanakert divenne la nuova capitale del Nagorno-Karabakh. Le rovine del quartiere armeno di Shushi sono rimaste spettrali e intatte per più di quarant’anni”.

Nel Nagorno-Karabakh, la comunità armena era divisa dall’antico dilemma della cooperazione o del confronto. Da una parte c’erano principalmente i Dashnaks [in riferimento agli aderenti della Federazione Rivoluzionaria Armena, conosciuta come Dashnak, un partito politico armeno fondato nel 1890 a Tbilisi in Georgia, da Christapor Mikaelian (marxista), Stepan Zorian (populista) e Simon Zavarian (bakuninista, che di fatto guiderà il partito), d’ispirazione socialista, membro dell’Internazionale Socialista, attivo ancora oggi, oltre che in Armenia, anche in Artsakh e in Libano] e gli abitanti dei villaggi, che volevano l’unificazione con Armenia. D’altra parte c’erano principalmente i bolscevichi, i commercianti e i professionisti, che – con le parole dello storico armeno Richard G. Hovannisian (nel suo Il popolo armeno dall’antichità ai tempi moderni del 1997) – ammisero che “il distretto era economicamente con Transcaucasia” e cercarano “un accordo con il governo azero come unico modo per risparmiare la rovina del monte Karabakh”. Hovannisian osserva che “quest’ultimo gruppo era principalmente concentrato a Shushi, ma entrambi i gruppi furono uccisi o espulsi quando una ribellione armena fu repressa brutalmente nel marzo 1920”.

Secondo Tim Potier, “a seguito del Rivoluzione d’Ottobre, Karabakh divenne parte dell’indipendente Repubblica di Azerbajgian, sebbene il suo controllo fosse fortemente contestato dalle forze ottomane e britanniche, nonché, ovviamente, dagli Armeni e dagli Azeri. Shushi era ormai considerato dal popolo armeno come un centro culturale armeno e non è stato fino al 28 febbraio 1920 che la Shushi armena accettò con riluttanza di riconoscere l’autorità dell’Azerbajgian. La situazione doveva cambiare in seguito agli eventi del 4 aprile, quando l’esodo di massa degli Armeni da Shushi al vicino Khankendi [Stepanakert, oggi capitale della Repubblica di Artsakh/Nagorno-Karabakh], a seguito di una rivolta armena repressa dalle forze armate azere, trasformò, quasi dall’oggi al domani, Shushi in una città azera”.

Il Massacro di Shushi del 2020 divenne l’apoteosi dei tentativi durati due anni delle autorità azere di impadronirsi e soggiogare l’Artsakh. Queste pretese territoriali irrefrenabili e irragionevoli sull’Artsakh da parte dell’Azerbajgian, creato a seguito dell’invasione turca nel Caucaso meridionale, hanno gettato le basi per il conflitto azerbajgiano-Karabakh nel suo senso moderno. Le autorità azere hanno cercato di raggiungere il loro obiettivo attraverso il supporto diretto delle truppe turche. Successivamente, gli ufficiali e gli emissari turchi continuarono ad assistere le forze armate azere, anche nell’organizzazione del Massacro di Shushi del 1920, tentando di continuare il genocidio degli Armeni, ora nell’Armenia orientale.

L’inclusione forzata dell’Artsakh nella struttura dell’Azerbajgian sovietico, a seguito della sovietizzazione delle Repubbliche del Caucaso meridionale, non ha risolto il problema, poiché la politica delle autorità azerbajgiane nei confronti della popolazione armena dell’Artsakh è cambiata solo nella forma, ma non nella sostanza.

L’inizio del processo di crollo dell’Unione Sovietica alla fine degli anni Ottanta e all’inizio degli anni Novanta ha nuovamente attualizzato la questione della sicurezza fisica della popolazione armena dell’Artsakh. In risposta alle richieste pacifiche del popolo dell’Artsakh per la riunificazione con l’Armenia, un’ondata di uccisioni di massa e pogrom di Armeni si è diffusa in tutto l’Azerbajgian. Migliaia di Armeni furono uccisi e mutilati, centinaia di migliaia furono deportati. I pogrom armeni degli anni 1988-1990 furono la continuazione del Massacro di Shushi del 1920 e dimostrarono chiaramente che anche dopo 70 anni né gli obiettivi né i metodi delle autorità azerbajgiane erano cambiati.

Solo grazie all’autorganizzazione del popolo dell’Artsakh, che ha creato uno Stato efficace con tutte le istituzioni necessarie, incluso un esercito efficiente, nonché il sostegno degli Armeni in tutto il mondo, è stato possibile respingere l’aggressione armata dell’Azerbajgian negli anni 1991-94 e per impedire il ripetersi dello “scenario Shushi” in Artsakh, ma su scala più ampia.

Oggi, le autorità e il popolo dell’Artsakh stanno facendo ogni sforzo per far rivivere Shushi e ripristinare il patrimonio culturale della Città distrutta dalle autorità azerbajgiane.

Le rovine della parte armena di Shushi dopo che l’esercito azerbajgiano distrusse la Città il 23 marzo 1920. Shushi divenne un inferno dopo che le forze armate azere bruciarono quasi 2.000 edifici. Sullo sfondo la chiesa armena  apostolica Kanach Zham della Santa Madre di Dio.

Oggi va ricordato che un secolo fa, gli Azeri trucidarono a Sushi 20.000 Armeni. Il Massacro di Shushi, noto anche come Pogrom di Sushi, fu l’uccisione di massa della popolazione armena di Shushi e la distruzione della parte armena della Città nel 1920. Il massacro ebbe luogo tra il 22 e il 26 marzo 1920 e ebbe come sfondo un conflitto su rivendicazioni concorrenti sulla regione da parte di Armenia e Azerbajgian.

Alla fine della Prima Guerra Mondiale, il territorio del Nagorno-Karabakh fu contesa tra i due nuovi stati, la Repubblica Democratica di Armenia e la Repubblica Democratica di Azerbajgian. Shushi – allora il più grande insediamento del territorio, la sua capitale e con una popolazione mista composta principalmente da Armeni e Azeri – si è trovata al centro della disputa.

Il governo dell’Azerbajgian proclamò a Baku l’annessione del territorio conteso e il 15 gennaio 1919 nominò Khosrov Bey Sultanov, Governatore generale di Karabakh. Il Regno Unito, che aveva un piccolo distaccamento di truppe di stanza a Shushi, ha aderito alla nomina di Sultanov a Governatore provvisorio, ma ha insistito sul fatto che una decisione finale sull’appartenenza del territorio doveva essere decisa solo in una futura conferenza di pace.

In risposta alla nomina di Sultanov, l’Assemblea del Consiglio nazionale armeno di Karabakh riunitasi a Shushi il 19 febbraio 1919, “ha respinto con legittima indignazione ogni pretesa dell’Azerbajgian nei confronti dell’armeno Karabakh, che ha affermato che l’Assemblea ha dichiarato un parte integrante dell’Armenia”.

Il 23 aprile 1919, il Consiglio nazionale armeno di Karabakh si riunì un’altra volta a Shushi e respinse nuovamente la pretesa di sovranità dell’Azerbajgian, insistendo sul loro diritto all’autodeterminazione. Dopo questo, un distaccamento azerbajgiano locale circondò i quartieri armeni di Shushi, chiedendo agli abitanti di cedere la fortezza. Furono sparati colpi, ma quando gli Inglesi mediarono, gli Armeni accettarono invece di arrendersi a loro.

Il 4 e 5 giugno 1919 a Shushi si verificarono scontri armati tra le due comunità e Sultanov iniziò un blocco dei quartieri armeni della Città. Infermiere americane che lavorano a Shushi per il Near East Relief hanno riferito di un massacro “da parte dei tartari di 700 abitanti cristiani della Città”. Un cessate il fuoco fu rapidamente organizzato dopo che la parte armena ha accettato la condizione di Sultanov, che i membri del Consiglio nazionale armeno di Karabakh lasciassero la Città. Tuttavia, una nuova ondata di violenza ha poi travolto i vicini villaggi popolati da Armeni. A metà giugno gli Azeri hanno arruolato circa 2.000 “irregolari”, che hanno attaccato, saccheggiato e bruciato un grande villaggio armeno, Khaibalikend, appena fuori Shushi, lasciando circa 600 Armeni morti.

Il 13 agosto 1919 fu convocato a Shushi il Settimo Congresso degli Armeni di Karabakh, che si concluse con l’accordo del 22 agosto 1919, secondo il quale il Nagorno-Karabakh si sarebbe considerato provvisoriamente entro i confini della Repubblica Democratica di Azerbajgian fino a quando suo status definitivo sarebbe stato deciso alla Conferenza di Pace di Parigi.

Il 19 febbraio 1920 Sultanov emise una richiesta al Consiglio nazionale armeno di Karabakh “di risolvere urgentemente la questione dell’incorporazione finale di Karabakh in Azerbajgian”. Il Consiglio, all’Ottavo Congresso tenutosi dal 23 febbraio al 4 marzo 2020, rispose che la richiesta dell’Azerbajgian violava i termini dell’accordo provvisorio del 22 agosto 2019 e ha avvertito che “la ripetizione degli eventi costringerà gli Armeni del Nagorno-Karabakh a ricorrere a mezzi adeguati di difesa”.

Scrive Hovannisian: “Infine, nell’agosto 1919, l’Assemblea nazionale di Karabakh cedette alla giurisdizione dell’Azerbajgian provvisoria e condizionale. Le ventisei condizioni limitavano strettamente la presenza amministrativa e militare azera nella regione e sottolineavano l’autonomia interna del Karabakh montuoso. Le violazioni di quelle condizioni da parte dell’Azerbajgian culminarono in una ribellione abortita nel marzo 1920. Per punizione, le forze azere bruciarono la bellissima città di Shushi (…). Era la fine dell’armeno Shushi”.

Secondo Hovannisian, “le truppe azere, unite dagli abitanti azeri della città, hanno trasformato il Shushi armeno in un inferno. Dal 23 al 26 marzo circa 2.000 edifici sono state divorate dalle fiamme, comprese chiese e conventi, istituzioni culturali, scuole, biblioteche, il quartiere degli affari e le grandi case della classe mercantile. Il Vescovo Vahan Ter-Grigorian, a lungo sostenitore dell’accordo con le autorità azerbajgiane, pagò il prezzo della punizione, poiché la sua lingua fu strappata prima che gli fosse tagliata la testa e ha sfilato per le strade su una picca. Il capo della polizia, Avetis Ter-Ghukasian, è stato trasformato in una torcia umana e molti intellettuali sono stati tra vittime armene”.

Secondo i dati statistici pubblicati nel Calendario del Caucaso del 1917, nel 1916, poco prima della rivoluzione russa, la popolazione della Città di Shushi contava 43.869 abitanti, di cui 23.396 (53%) erano Armeni e 19.121 (44%) Tartari (Azeri).

Il 20 marzo 2000, una lapide commemorativa è stata posta a Shushi sul sito del previsto monumento alle vittime del pogrom e il governo della Repubblica di Artsakh/Nagorno-Karabakh ha presentato all’Assemblea nazionale una proposta per istituire il 23 marzo come giorno di commemorazione delle vittime dei Pogrom di Shushi.

La cattedrale armena apostolica del Santo Salvatore Ghazanchetsots a Shushi deturpata all’indomani della distruzione dei quartieri armeni della Città da parte dell’esercito azerbajgiano il 23 marzo 1920.

Il 22 marzo 2022, in occasione del 102° anniversario del Progrom di Shushi, il Ministero degli Affari Esteri della Repubblica di Artsakh/Nagorno-Karabakh ha rilasciato la seguente dichiarazione: “Oggi chiniamo il capo davanti alla memoria delle vittime innocenti del genocidio della popolazione armena della Città di Shushi, compiuto dalle autorità della Repubblica Democratica dell’Azerbajgian creata artificialmente 102 anni fa, dal 22 marzo al 26 marzo 1920. Decine di migliaia di persone sono rimaste vittime di questo mostruoso crimine causato dalle aspirazioni espansionistiche dell’Azerbajgian: molti di loro sono stati brutalmente assassinati, i sopravvissuti sono stati espulsi dalle loro case. La maggior parte della città, che non era solo la capitale ma anche il centro storico e culturale dell’Artsakh, fu distrutta e rimase in rovina per diversi decenni fino a quando fu demolita dalle autorità azere a metà del ventesimo secolo.
I massacri di Shushi, a cui hanno preso parte attiva ufficiali ed emissari turchi, avevano lo scopo di trasferire il genocidio armeno nell’Armenia orientale nel contesto dell’attuazione dell’ideologia pan-turca.
Questa tragedia, orribile nella sua crudeltà, ha delineato i veri obiettivi delle autorità azere sull’Artsakh e sul popolo armeno e non solo ha cambiato la demografia di Shushi, ma ha anche lasciato un segno indelebile nell’atmosfera della città e predeterminato i successivi processi.
Dopo quasi 70 anni, le autorità azerbajgiane hanno nuovamente fatto ricorso a uno strumento collaudato nel loro arsenale: il massacro e la deportazione della popolazione armena innocente, l’organizzazione di uccisioni di massa e pogrom a Sumgait, Baku, Gandzak (Kirovabad) e altri insediamenti dell’ex Repubblica Socialista Sovietica di Azerbajgian.
Nel 2020 la tragedia si è ripetuta. Dopo aver occupato la Città di Shushi durante i 44 giorni di aggressione contro la Repubblica di Artsakh, l’Azerbajgian ha nuovamente espulso la popolazione armena della città.
Sia nel 1920 che nel 2020, l’Azerbajgian ha cercato non solo di annientare la popolazione armena della Città di Shushi e dell’Artsakh nel suo insieme, ma anche di cancellarne la storia, la cultura e lo spirito. L’Azerbajgian continua ad aderire a questa strategia fino ad oggi.
Tuttavia, è impossibile distruggere lo spirito armeno di Shushi, che è indissolubilmente legato all’Artsakh. È stato rivissuto nel maggio 1992 e sarà rivussuto di nuovo”.

La Strategia della Vittoria

(Documento pubblicato da AZERTAC, AZERBAIJAN STATE NEWS AGENCY – Nostra traduzione italiana dall’inglese – ATTENZIONE: DOCUMENTO DI PROPAGANDA AZERA, STRACOLMO DI FAKE NEWS E TESI ANTI-STORICHE)

Presidente: “Non dobbiamo difendere, ma attaccare politicamente, dal punto di vista propagandistico”.

44 giorni… Guerra Patriottica e Grande Vittoria… Questa vittoria è la pagina più luminosa nella storia dell’Azerbajgian. L’Azerbajgian si è mosso passo dopo passo verso la vittoria del Karabakh, superando una moltitudine di difficoltà e ostacoli. L’esercito azerbajgiano lo ha fatto sotto la guida del Comandante in capo Ilham Aliyev! La storia stessa testimonia la portata del lavoro svolto in quei 44 giorni, pieni di orgoglio e onore.

Fin dal primo giorno della sua elezione, il Presidente dell’Azerbajgian ha posto come priorità la liberazione dell’antico Karabakh. Dal giorno in cui ha prestato giuramento come Presidente, nell’ottobre 2003, ha sottolineato l’importanza della liberazione incondizionata delle nostre terre.
Sebbene la strada per la vittoria nella guerra patriottica abbia richiesto 44 giorni, questa vittoria è stata sostenuta da anni di instancabile, paziente e perseverante lotta del Presidente. Questa era l’essenza dei suoi discorsi in tutti gli incontri e forum internazionali, sia in Patria che all’estero. In ogni parola, il Presidente ha mostrato che la sua posizione è rimasta immutata. Le parole e le promesse fatte esattamente 18 anni fa sono rimaste immutate fino alla fine! Il Karabakh deve essere liberato!

“L’Azerbajgian non sopporterà mai questa situazione, l’occupazione delle sue terre. Tutti dovrebbero sapere che, nonostante la nostra adesione alla pace, il fatto che non vogliamo che la guerra ricominci e vogliamo risolvere pacificamente questo problema, la nostra pazienza non è inesauribile. L’Azerbajgian libererà le sue terre natie ad ogni costo” (Dal discorso alla cerimonia di giuramento, 31 ottobre 2003).

“La posizione dell’Azerbajgian è chiara ed è stata più volte ribadita. Se non hai ancora avuto l’opportunità di conoscere queste affermazioni, lascia che te lo ricordi: il Nagorno-Karabakh è il territorio dell’Azerbajgian. L’Azerbajgian non accetterà mai l’indipendenza del Nagorno-Karabakh o l’adesione all’Armenia. Il Nagorno-Karabakh appartiene all’Azerbajgian” (Conferenza stampa al Palazzo d’Europa, Strasburgo, 29 aprile 2004).

Il Presidente era ben consapevole che per risolvere questo problema, prima di tutto, è necessario cambiare l’approccio della scena internazionale agli eventi del Karabakh, dimostrare chi è dalla parte del diritto internazionale e documentarlo. Il Presidente Ilham Aliyev ha sollevato la questione durante una delle sue prime visite all’estero come Capo di stato.

“Come risultato di questa occupazione, più di un milione di Azeri sono diventati rifugiati e sfollati interni. L’aggressione dell’Armenia è confermata da quattro risoluzioni dell’ONU. Il Gruppo OSCE di Minsk ha rilasciato una dichiarazione al riguardo. Ci sono note al riguardo nei documenti ufficiali del Consiglio d’Europa. La comunità internazionale deve usare il suo potere e la sua influenza per costringere l’Armenia a ritirarsi dai territori dell’Azerbajgian occupati” (Vertice mondiale sulla società dell’informazione a Ginevra, 10 dicembre 2003).

“Bisogna capire che non accetteremo mai l’indipendenza del Karabakh o la sua annessione all’Armenia” (Intervista al quotidiano Le Figaro, 22 gennaio 2004).

17 anni fa, il Capo di stato sentiva chiaramente che l’Armenia avrebbe subito un fiasco. Dicendo questo apertamente, ha cercato di spingere il vicino a prendere la strada giusta. In altre parole, sarai la parte perdente, mentre noi andremo solo avanti.

“Potrebbe sembrare che l’Armenia sia in una posizione più vantaggiosa. Ma in realtà non è così. Se confrontiamo l’Armenia e l’Azerbajgian oggi, tutti possono vedere la differenza. L’Azerbajgian è un Paese completamente indipendente. Non ci sono basi militari straniere sul suo territorio. Non dipende dagli aiuti esteri. L’Azerbajgian sta sviluppando la sua economia. Il nostro budget è tre volte più grande di quello dell’Armenia. Data la sua posizione geografica e strategica e lo sviluppo del settore petrolifero nel Paese, l’Azerbajgian diventerà presto un Paese molto forte. Se guardiamo all’Armenia, vediamo che non è affatto vicino a questo” (Intervista al quotidiano francese Le Figaro, 22 gennaio 2004).

“La posizione dell’Azerbajgian è giusta, il tempo e il diritto internazionale sono dalla nostra parte. Prima l’altra parte lo capirà, meglio sarà per loro” (Incontro all’Istituto francese di relazioni internazionali, 23 gennaio 2004).

Anche quando il Presidente ha mosso i primi passi verso l’obiettivo, aveva già dei piani chiari su ciò che doveva essere fatto. L’impegno nei confronti del Consiglio d’Europa di non iniziare la guerra non è stato un ostacolo.

“C’è un impegno, e questo impegno è stato preso dai governi dell’Azerbajgian e dell’Armenia, così come da tutti i partiti politici che operano in questi Paesi. Questo è vero ed era una condizione per l’adesione dei nostri Paesi al Consiglio d’Europa. Questa è la nostra posizione e abbiamo ripetutamente affermato che intendiamo risolvere la questione pacificamente. Ma, ovviamente, ci deve essere una certa durata. In altre parole, non vorremmo che questo processo durasse per sempre. C’è un limite a ogni trattativa” (Intervista ai giornalisti all’aeroporto internazionale di Bina, 1° marzo 2004).

In quegli anni c’era molta pressione sulla Turchia per aprire il confine con l’Armenia. A quel tempo, il Paese fraterno impedì risolutamente che ciò accadesse.

“Quando ero Primo Ministro, ne ho parlato con il Signor Erdogan ad Ankara. Il Primo Ministro Erdogan mi ha rassicurato sul fatto che la Turchia non avrebbe mai aperto i suoi confini con l’Armenia fino a quando il conflitto del Nagorno-Karabakh non fosse stato risolto. Questo è abbastanza per me. In altre parole, se ho sentito questa parola, non ho bisogno di altre spiegazioni” (Intervista ai giornalisti all’aeroporto Heydar Aliyev, 24 marzo 2004).

Quando ha avviato i negoziati con l’Armenia come Capo di stato, il Presidente Ilham Aliyev ha chiesto che venissero presi provvedimenti per ottenere risultati. Questa era la posizione di principio del Presidente.

“I negoziati possono aver luogo solo attorno a un argomento concordato. Se non c’è oggetto di negoziazione, non intendiamo creare l’immagine della negoziazione. Se l’Azerbajgian vede che i negoziati non sono necessari, allora dovremo probabilmente riconsiderare questa politica” (Discorso alla sessione primaverile dell’APCE, 29 aprile 2004).

C’è una data in cui è stata pronunciata l’ormai famosa espressione “Karabakh è Azerbajgian!”. Il Presidente ha detto questa frase esattamente 17 anni fa… Lo ha detto nell’arena internazionale e ha lanciato un messaggio chiaro all’Armenia e ai suoi sostenitori.

“La posizione dell’Azerbajgian è chiara ed è stata più volte ribadita. Se non hai ancora avuto l’opportunità di conoscere queste affermazioni, lascia che te lo ricordi: il Nagorno-Karabakh è il territorio dell’Azerbajgian. L’Azerbajgian non accetterà mai l’indipendenza del Nagorno-Karabakh o l’adesione all’Armenia. Il Nagorno-Karabakh appartiene all’Azerbajgian” (Conferenza stampa al Palazzo d’Europa, Strasburgo, 29 aprile 2004).

Il Presidente ha sempre tenuto a mente l’opzione della guerra senza rinunciare ai colloqui di pace. Sapeva che l’Armenia non avrebbe comunque rinunciato alla sua occupazione. Dai primi giorni di presidenza, la costruzione di un moderno esercito fu ulteriormente accelerata.

“Dichiaro che le spese per l’esercito aumenteranno. Dobbiamo rafforzare ulteriormente la base materiale e tecnica del nostro esercito. Abbiamo l’opportunità di fare tutto questo. A volte si chiede che ci dovrebbe essere un compromesso su questo problema. Non ci possono essere compromessi sulla questione della terra. Prima l’altra parte lo capisce, meglio è” (Incontro con il personale di un’unità militare a Ganja, 18 giugno 2004).

Già 17 anni fa il Presidente considerava l’unificazione del popolo il fattore più importante per la vittoria in caso di guerra. E abbiamo testimoniato quanto questo fosse importante durante la Guerra Patriottica.

“Per farlo sono necessari diversi fattori e quasi tutti sono presenti in Azerbajgian. Lo spirito di patriottismo è ad un livello molto alto. Voglio davvero che la nostra giovane generazione sia educata nello spirito del patriottismo. C’è patriottismo nazionale in Azerbajgian” (Incontro con gli sfollati interni insediati nel distretto di Barda, 11 settembre 2004).

Il Presidente ha incontrato spesso gli sfollati, sfollati dalle loro terre ancestrali e ha ordinato la costruzione di nuove case ed edifici per migliorare le loro condizioni di vita. Allo stesso tempo, il Capo di stato era fiducioso che le terre sarebbero state liberate e gli sfollati sarebbero tornati alle loro case. Il Presidente lo ha detto con grande speranza e fiducia in ogni incontro!

“Non ho alcun dubbio che il problema più difficile – l’occupazione delle terre azere da parte dell’Armenia – finirà e risolveremo positivamente la questione. Il popolo azerbajgiano è uno e risolveremo questo problema. Tornerai in patria e io ci andrò e sarò con te” (Incontro con gli sfollati interni stabilitisi nel distretto di Barda, 11 settembre 2004).

“Le questioni più importanti, l’opera principale cominceranno dopo la liberazione delle nostre terre dall’occupazione. Come ho detto prima, l’intera infrastruttura in tutti i territori occupati è stata distrutta. Costruiremo nuove città, creeremo nuovi insediamenti e villaggi e dobbiamo essere pronti per questo. Sappiamo anche che possiamo fare affidamento solo sulle nostre forze, solo sulle nostre forze” (Distretto di Aghdam, 18 gennaio 2007).

Il Presidente pensava sempre a Shusha. Nella maggior parte dei suoi discorsi, ha detto che dovremmo liberarci e tornare a Shusha. Sebbene molte di quelle speranze fossero deluse, il Presidente ne era convinto e ci credeva. Il Capo di stato ha anche più volte sottolineato che Zangezur è l’antica ed eterna terra dell’Azerbajgian.

“Ho resistito e rimarrò fedele a ciò che ho detto. In breve, tutti e sette i distretti devono essere restituiti incondizionatamente e, allo stesso tempo, gli Azeri devono tornare nel Nagorno-Karabakh, incluso Shusha” (Apertura di un nuovo insediamento per gli sfollati interni nel distretto di Sabunchu a Baku, 4 maggio 2007).

“Tutti sanno che l’attuale Armenia è stata fondata sulle antiche terre dell’Azerbajgian. Il Khanato di Iravan e il distretto di Zangezur – tutte queste sono terre dell’Azerbajgian” (Distretto di Goranboy, 20 novembre 2009).

L’Armenia commetteva sempre più provocazioni palesi per interrompere i colloqui. In molti casi, ciò ha portato a collisioni sulla linea di contatto. “Spara, comandante!” – mai si ricordano le parole. Un elicottero militare armeno è stato distrutto per la prima volta dopo la prima guerra del Karabakh. Poi c’è stata la guerra dell’aprile 2016… L’Azerbajgian ha mostrato quanto fosse forte allora.

“Meno di due settimane dopo l’incontro di Parigi durante il quale abbiamo deciso di ridurre le tensioni sulla linea di contatto, l’Armenia ha condotto esercitazioni su larga scala nel distretto occupato di Aghdam. Secondo i loro stessi rapporti, sono stati schierati 47.000 militari. Non ce n’era bisogno. Si trattava di una chiara provocazione volta a interrompere i negoziati. Abbiamo mostrato moderazione per diversi giorni e abbiamo ordinato di non reagire a questa provocazione. Perché abbiamo pensato che le tensioni dovessero essere ridotte. Tuttavia, la parte opposta ha cercato di attaccare le nostre posizioni con elicotteri da combattimento MI-24. Come risultato della nostra risposta, uno degli elicotteri è stato distrutto” (Intervista al canale televisivo Russia 24, 3 maggio 2015).

“Stiamo combattendo sulla nostra stessa terra. Se un soldato armeno non vuole morire, dovrebbe uscire dal territorio azerbajgiano” (Riunione del Consiglio di sicurezza, 2 aprile 2016).

Il Karabakh è Azerbajgian, un punto esclamativo!… Questa frase del Presidente è diventata una parola d’ordine in tutto l’Azerbajgian. Divenne anche il motto della guerra per la liberazione del Karabakh. Dicendo “Il Karabakh è Azerbajgian!”, i nostri eroici soldati hanno marciato nella guerra della vita o della morte!

“L’affermazione è letteralmente così: ‘Il Karabakh fa parte dell’Armenia, punto’. Prima di tutto, per usare un eufemismo, questa è una bugia. Sia la parte bassa che quella superiore del Karabakh sono riconosciute da tutto il mondo come parti integranti dell’Azerbajgian. L’Armenia non riconosce di per sé questa entità illegale. Il Karabakh è la terra storica e antica dell’Azerbajgian. Pertanto, il Karabakh è Azerbaigian, un punto esclamativo! (16° Meeting Annuale del Valdai International Discussion Club a Sochi, 3 ottobre 2019).

“Pensavano che saremmo venuti a patti con questo insulto. Ci stanno deliberatamente provocando e ne affronteranno le amare conseguenze. Siamo sulla strada giusta. La nostra è la causa della verità. Vinceremo! Il Karabakh è nostro! Il Karabakh è Azerbaigian!” (Discorso alla Nazione, 27 settembre 2020).

“Ogni centimetro delle terre occupate, ogni città ci è cara. Per me, il valore di ogni villaggio e città è lo stesso di qualsiasi altro villaggio e città. Ma sapete anche che Shusha ha un posto speciale nel cuore del popolo azerbajgiano. Questa è la nostra città storica, un antico centro culturale. Shusha ha dato al popolo dell’Azerbajgian molte persone di talento e geniali. Naturalmente, senza Shusha, il nostro lavoro sarebbe incompleto” (Intervista al canale A Haber TV, 16 ottobre 2020).

«Il Presidente Ilham Aliyev, la First Lady Mehriban Aliyeva e la loro figlia Leyla Aliyeva hanno visitato la capitale culturale dell’Azerbajgian liberata, Shusha. Il Capo di stato e la sua famiglia hanno visitato una moschea a Shusha. Il Presidente ha presentato alla moschea un “Sacro Corano”. Poi Ilham Aliyev e la sua famiglia hanno pregato nella moschea, 15 gennaio 2021» (Atatv.az).

“Condividere questa buona notizia con il popolo dell’Azerbajgian in questo giorno storico è forse uno dei giorni più felici della mia vita. Caro Shusha, sei libera! Cara Shusha, siamo tornati! Cara Shusha, ti faremo rivivere! Shusha è nostra! Il Karabakh è nostro! Il Karabakh è Azerbajgian!” (Discorso al popolo dell’Azerbajgian dal Vicolo dei Martiri, 8 novembre 2020).

“Allo stesso tempo, oggi ho visitato la tomba del Grande Leader Heydar Aliyev e ho reso mio omaggio di rispetto. Dissi in cuor mio che ero un uomo fortunato ad aver adempiuto la volontà di mio padre. Abbiamo liberato Shusha! Questa è una grande vittoria! Le anime dei nostri martiri e del Grande Leader sono felici oggi! Congratulazioni Azerbajgian! Congratulazioni, Azeri del mondo!” (Discorso al popolo dell’Azerbajgian dal Vicolo dei Martiri, 8 novembre 2020).

Il 2020 è stato un anno indimenticabile per l’Azerbajgian. Il giorno storico che sembrava un sogno a tutti è arrivato! L’esercito azerbajgiano sotto la guida del Comandante in capo ha liberato le nostre città e villaggi uno per uno. Ciò che il Presidente ha detto anni fa si è avverato uno per uno. Un breve sguardo alla storia recente mostra che questa vittoria è un piano strategico ben congegnato del Presidente Ilham Aliyev!

Comandante in capo vittorioso che ha creato l’esercito più forte del 21° secolo e ha ottenuto la Grande Vittoria!

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Pesaro commemora il genocidio armeno (Ilmetauro 20.04.22)

PESARO – La città si prepara a commemorare il genocidio del popolo armeno del 1915, come fa da anni il 24 aprile, in occasione della Giorno del ricordo, con un’iniziativa culturale in programma domenica, dalle 16 in centro storico promossa dall’assessorato alla Bellezza del Comune di Pesaro e dalla comunità armena residente a Pesaro.

Il programma prevede un corteo che partirà alle ore 16 da piazza del Popolo e arriverà alle 16.30 al Parco Miralfiore davanti alla “croce di pietra”, la Croce Armena kachkar nella lingua originale, opera dell’artista e architetto Aslan Mkhitaryan (Yerevan, 1947) vicino alla quale verranno deposti fiori e corone prima degli interventi delle istituzioni.

Saranno poi gli artisti armeni a intonare gli inni nazionali (italiani e armeni) e a guidare i canti della tradizione sulle note del violino di Ketevan Abitari che suonerà anche i brani del compositore Padre Komitas. A concludere l’evento, sarà il rito armeno dell’incenso.

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>> Il 24 aprile Pesaro torna a commemorare il genocidio armeno

Armenia 1915: il grande male. Incontro pubblico a Saronno (Varese7press 19.04.22)

SARONNO, 19 aprile 2022-Il 24 aprile 1915 l’Impero Ottomano dava inizio al genocidio del popolo armeno. Un milione e mezzo di donne, uomini e bambini persero la vita subendo spesso atroci crudeltà o furono lasciati morire di fame e stenti dopo essere stati deportati dall’Anatolia ed abbandonati nel deserto della Siria o della Mesopotamia.

 Il Circolo della Bussola  propone un incontro per conoscere questo genocidio, “…che inaugurò purtroppo il triste elenco delle immani catastrofi del secolo scorso, rese possibili da aberranti motivazioni razziali, ideologiche o religiose, che ottenebrarono la mente dei carnefici fino al punto di prefiggersi l’intento di annientare interi popoli”, (Papa Francesco, Yerevan 2016), e la cui responsabilità è ancora oggi negata dalle autorità turche.

L’incontro dal titolo “Armenia 1915: il grande male – Un genocidio che non possiamo dimenticare” si svolgerà il 26 aprile alle ore 21.00 presso il Teatro della Regina Pacis, via Roma 110, Saronno.

Relatore della serata sarà Rodolfo Casadei, inviato internazionale del periodico “Tempi”, interverrà la cantante lirica armena Elisaveta Martirosyan e gli attori della Compagnia della Ruota offriranno brani e testimonianze del popolo armeno.

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Diritti umani: dal genocidio degli Armeni al conflitto in Ucraina, un’analisi giuridica sulle uccisioni di massa di nazioni e gruppi (Reportdifesa 19.04.22)

New York (nostro servizio particolare). Il primo grande genocidio del XX secolo è quello degli Armeni, perpetrato nel 1915 e rimasto impunito poiché una clausola del Trattato di Losanna del 1923 accordava un’amnistia.

Un’immagine del genocidio armeno

Non ha seguito la stessa sorte la Shoah, un genocidio che ha visto puniti i principali responsabili, ma non per genocidio bensì per crimini contro l’umanità.

La Shoah, un genocidio che ha visto puniti i principali responsabili, per crimini contro l’umanità

Oggi il Presidente americano Biden parla di genocidio ai danni degli Ucraini in quanto l’aggressione russa mirerebbe ad annientare l’identità ucraina e ad attuare l’ideale imperialistico della Russia di Putin.

Agli inizi degli anni ’90, le guerre nei Balcani e in Ruanda hanno visto compiersi genocidi.

Ventotto anni fa in Ruanda, esattamente il 6 aprile del 1994, l’aereo che trasportava il Presidente ruandes, Juvénal Habyarimana, e il Presidente del Burundi, Cyprien Ntaryamira, entrambi di etnia hutu, fu colpito da due razzi quando era in fase di atterraggio a Kigali.

Un’immagine del genocidio in Ruanda

Quell’attentato diede inizio al genocidio del Ruanda e ai massacri sanguinosi e indiscriminati da parte dei membri dell’etnia hutu nei confronti della minoranza dei tutsi, ritenuta responsabile dell’attentato; ma furono uccisi e perseguitati anche gli hutu considerati “moderati” o tolleranti.

Nel giro di 100 giorni, dal 7 aprile alla metà di luglio del 1994, furono uccise almeno 800 mila persone, ma molti stimano che le vittime siano state un milione, ci furono decine di migliaia di stupri e di bambini arruolati come soldati.

Il Tribunale penale internazionale per il Ruanda ha statuito che nel 1994 gli hutu hanno commesso un genocidio, poiché, oggettivamente, i tutsi erano un gruppo etnico caratterizzato da stabilità e permanenza, determinata dalla trasmissione ereditaria. Inoltre, i tutsi erano considerati un gruppo etnico proprio dagli autori del genocidio.

Il genocidio è definito le noyau dur  della competenza ratione materiae della Corte penale internazionale.

Generalmente, è un crime d’État, vale a dire attuato in esecuzione di decisioni politiche adottate al vertice delle istituzioni statali.

Infatti, il genocidio nasconde il progetto di uno Stato o di una organizzazione statale, la cui conoscenza viene richiesta all’autore del crimine.

Winston Churchill lo definì il crimine senza nome e si dovette attendere la creazione di un neologismo da parte di un giurista polacco, Raphael Lemkin, che coniò il termine “genocidio” (dal greco genos, razza e dal latino cide, uccidere) inteso come uccisione di una nazione o di un gruppo, nel suo lavoro, pubblicato nel 1944, Axis Rule in Occupied Europe.

Raphael Lemkin, giurista polacco che coniò il termine “genocidio”

Nel 1945, i procuratori del Tribunale di Norimberga menzionarono il genocidio nell’atto d’accusa, anche se nella sentenza si parlò di crimini contro l’umanità.

Infatti, il genocidio non era espressamente menzionato tra i crimini contro l’umanità dall’articolo 6 dello Statuto del Tribunale di Norimberga, né dall’articolo 2 della Legge numero 10 del 20 dicembre 1945 emanata dal Consiglio di Controllo Alleato in Germania, che autorizzava ogni Potenza occupante a svolgere processi indipendenti contro sospetti criminali nella propria area di occupazione.

Fu con la risoluzione dell’Assemblea Generale numero 96 (I) del 1946 che il genocidio fu qualificato come crimine internazionale, definito come il “rifiuto del diritto all’esistenza di interi gruppi umani”, un rifiuto che “sciocca la coscienza dell’umanità, infligge gravi perdite all’umanità ed è contrario alla legge morale nonché allo spirito e ai fini delle Nazioni Unite”. Dunque, un crimine internazionale che il mondo civile condanna e per la cui commissione gli autori principali e i loro complici sono punibili, a prescindere se abbiano agito per motivi razziali, religiosi, politici o per qualsiasi altro motivo.

Nella giurisprudenza che si è sviluppata negli anni il genocidio è stato configurato come un crimine autonomo, distinto dai crimini contro l’umanità.

Questo diede il via all’elaborazione della Convenzione di New York per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio, con cui l’autonomia del crimine di genocidio è stata confermata, adottata il 9 dicembre 1948 ed entrata in vigore il 12 gennaio 1951 e ad oggi, adottata da più di 150 Stati.

E’ tuttora il testo normativo di riferimento in questa materia.

La Convenzione sancisce che il genocidio, malgrado il suo carattere politico,  non è considerato un crimine politico, ciò che ne permetterebbe l’estradizione.

La Convenzione non ha ancora ottenuto sul piano internazionale un consenso unanime, poiché non stata ratificata da tutti gli Stati membri delle Nazioni Unite, ciononostante essa ha forza cogente.

Nell’articolo 1 della Convenzione le Parti Contraenti confermano che il genocidio, sia che venga commesso in tempo di pace sia che venga commesso in tempo di guerra, è un crimine di diritto internazionale che esse si impegnano a prevenire e punire.

Questo articolo impone agli Stati contraenti non solo un obbligo di prevenire e reprimere il genocidio commesso da individui che si trovino sotto la loro influenza, ma anche implicitamente un obbligo di non commettere essi stessi genocidio attraverso il loro organi.

Inoltre, l’obbligo di prevenzione e repressione previsto dall’articolo 1  ha natura erga omnes, che deporrebbe a favore della quasi-universalità della giurisdizione, nel senso che i giudici di qualsiasi Stato parte possano processare e punire un individuo per genocidio, anche in assenza di contatti con il foro.

L’articolo 2 della Convenzione offre una definizione del genocidio come uno dei cinque atti indicati, commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, in quanto tale.

I cinque atti indicati sono:

    • uccisione dei membri del gruppo
    • lesioni gravi all’integrità fisica o mentale dei membri del gruppo
    • sottoposizione deliberata del gruppo a condizioni di vita miranti alla sua distruzione fisica, totale o parziale;
    • misure miranti ad impedire le nascite all’interno del gruppo
    • trasferimento forzato di bambini da un gruppo ad un altro gruppo

Quindi l’articolo 2 definisce i due elementi, oggettivo (actus reus) e soggettivo (mens rea), richiesti affinché si configuri il crimine di genocidio.

L’elemento oggettivo può consistere in uno dei cinque tipi di atto sopra menzionati, mentre l’elemento soggettivo, cioé l’intento, consiste nel fatto che tali atti devono essere “commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso”.

Non è genocidio il cosiddetto genocidio politico, ovvero la distruzione degli avversari politici, né il cosiddetto genocidio culturale, cioé la distruzione di simboli culturali di un gruppo.

Non è pacifico se costituisca genocidio la “pulizia etnica“, ossia l’espulsione forzata di civili appartenenti ad un gruppo da un’area geografica in modo da realizzare un’omogeneità etnica locale.

Per la questione dei Rohingya si parlò di pulizia etnica

Infatti, se la commissione di atrocità al fine di convincere un popolo a lasciare il proprio territorio, sono supportate dal mero intento della deportazione e non della distruzione del gruppo, allora non vi è genocidio.

Il Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia attribuisce genocidal characteristics alla pulizia etnica ed in quest’ottica ha collocato il massacro dei musulmani a Srebrenica del 1995.

In altri casi, lo stesso Tribunale, come nel caso Tadić, non ha qualificato la pulizia etnica come atti di genocidio.

Il divieto di genocidio è una norma imperativa del diritto internazionale e come tale, non amette deroghe in nessuna circostanza.

Secondo il Tribunale penale internazionale per il Ruanda, il genocidio è the crime of crimes ed è crimine contro le droit des gens, che può essere commesso tanto in tempo di pace che in tempo di guerra.

L’intenzione di distruggere in tutto o in parte il gruppo richiede una valutazione quantitativa.

Ma secondo la Corte Internazionale di Giustizia, il solo approccio qualitativo non basta.

Anche l’incitamento a commettere genocidio è punibile, laddove diretto e pubblico. Esso consiste nell’azione per la quale un soggetto induce un altro a commettere atti di genocidio.

Questa condotta è stata oggetto di un’innovativa giurisprudenza del Tribunale penale internazionale per il Ruanda in processi che hanno avuto ad oggetto l’uso della radio come veicolo per diffondere i messaggi che incitavano a commettere atti di genocidio, in particolare la famigerata Radio des Milles Collines, o la composizione e la messa in onda di canzoni miranti a promuovere lo sterminio dei tutsi, come quelle del compositore Simon Bikindi.

La disumanizzazione è insita nel genocidio, dove all’altro viene negata la classificazione di umano, operazione mentale che agevola l’azione distruttrice.

Il processo di disumanizzazione separa tra loro gli esseri umani in noi e voi, dove l’altro è visto come estraneo e temibile.

Ma la violenza genocidaria non si ferma alla disumanizzazione, poiché questa necessita di un supporto probatorio su cui fondare l’intento distruttivo del gruppo.

Questo supporto probatorio è dato dalla minaccia che l’altro rappresenta secondo un meccanismo di proiezione che vede l’altro responsabile delle debolezze del carnefice e causa della messa in pericolo di quest’ultimo.

Il meccanismo di disumanizzazione in quest’ottica mette in moto l’autotutela, la legittima difesa. Il movente inconscio del genocidio è la minaccia immaginaria percepita come reale proveniente da un soggetto che, in realtà, non è che una vittima inerme.

Qui la vittima è il gruppo, che è giudicato colpevole collettivamente e per questo, ritenuto meritevole di una punizione.

In tale prospettiva si inserisce la teoria del complotto, che è una recriminazione tipica dei regimi totalitari, portati a considerare le minoranze come l’origine di tutti i mali della società. In questi regimi si è spesso proceduto alla privazione di diritti civili, come quello alla cittadinanza.

Il mancato riconoscimento sociale, infatti, rende l’altro sprovvisto di tutela.

I genocidi sono spesso commessi ai danni di minoranze, che possono essere costituite da gruppi interni allo Stato, in questo caso visti come refrattari a qualsiasi forma di assimilazione, o da gruppi esterni allo Stato, e in tal caso essi vengono visti come estranei e barbari.

Se è vero che il genocidio è sempre un crimine di Stato, la privazione dei diritti fondamentali priva il gruppo del diritto alla protezione contro possibili abusi ad opera dello Stato.

Le situazioni che precedono il compimento di genocidi cominciano con la perdita dei diritti civili e tutte le fasi del genocidio sono segnate dalla negazione.

Il genocidio può essere perpetrato attraverso varie condotte che possono abbracciare diversi aspetti.

Viene in rilievo l’aspetto politico dell‘azione genocidaria, quando le tracce del carattere nazionale vengono cancellate, ad esempio attraverso il cambiamento dei nomi delle strade; vi è poi l’aspetto sociale, attraverso il cambiamento del sistema legale o la soppressione della classe intellettuale.

Vi è anche l’aspetto culturale, mediante la sostituzione della lingua e del sistema scolastico o la distruzione dei beni artistici;.

E ancora l’aspetto economico, tramite l’impoverimento del gruppo, le cui misere condizioni di vita comportano anche un impoverimento intellettuale; l’aspetto biologico, per mezzo di politiche di decremento o impedimento delle nascite; l’aspetto fisico, che va dalla debilitazione fisica attraverso il razionamento del cibo fino ad arrivare all’eliminazione in massa; l’aspetto religioso, come la rinuncia all’affiliazione religiosa a vantaggio di un altro credo; l’aspetto morale, attraverso l’impoverimento dei valori morali, incoraggiando abitudini malsane al fine di indebolire la consapevolezza dell’appartenenza al gruppo.

La perpetrazione del genocidio è un comportamento che si protrae nel tempo e non è che il culmine di un processo preceduto da atti prodromici come: la discriminazione, una politica persecutoria, le aggressioni fisiche, il disconoscimento nazionale, l’espulsione, l’espropriazione, i massacri e la deportazione, secondo la stessa retorica genocidaria volta a neutralizzare il senso di colpa del persecutore e a distruggere l’identità della vittima, anche semplicemente attraverso il linguaggio.

La disumanizzazione porta all’identificazione della vittima come essere malato o animale infimo e disgustoso, come il ratto nella retorica nazista o la blatta in quella del genocidio ruandese.

L’uso offensivo di pesticidi, battericidi, gas asfissianti e velenosi, medicamenti e veleni si colloca in quest’ottica purificatrice che vede spesso il mondo animale o quello della patologia medica come metafora della disumanizzazione.

La propaganda e la macchina burocratica trasformano, attraverso un gioco semantico, il genocidio in intervento disinfestatore o terapeutico-chirurgico indispensabile per purificare e liberare la società. Si accusa, inoltre, la vittima di essere carnefice attraverso la disinformazione, la manipolazione e la falsificazione dei dati, viste come operazioni necessarie per predisporre l’autodifesa.

Il genocidio è un crimine senza tempo, si è compiuto nel passato e continua a perpetrarsi nel presente con le stesse modalità e le stesse caratteristiche.

Le cronache di questi giorno riguardanti l’Ucraina ci dimostrano che il genocidio in Ruanda non ci ci ha insegnato nulla e che la tentazione di cancellare l’identità di interi popoli è sempre presente nelle aspirazioni dei dittatori.

Spetta alle democrazie liberali battersi con ogni mezzo affinché pagine buie dell’umanità non si ripetano.

 

*Avvocatessa, collaboratrice della Corte Penale Internazionale

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