CAOS CAUCASICO (Difesaonline.it 20.07.20)

di Andrea Gaspardo)
20/07/20

Nei giorni recenti si è registrato un inusuale risalto, sia da parte dei quotidiani che delle agenzie di stampa online, riguardo agli ultimi scontri che hanno opposto le forze armate della Repubblica d’Armenia a quelle della Repubblica dell’Azerbaigian. La novità interessante è che, questa volta, gli scontri sono avvenuti lungo il confine di stato internazionalmente riconosciuto e non lungo la “Linea di Contatto” che da 1994 separa le forze armate armene e nagornine da un lato e quelle azere dall’altro segnando inevitabilmente un innalzamento dello scontro ad un nuovo livello.

Per i neofiti, il conflitto tra Armeni e Azeri si trascina ormai da diversi secoli e ha cambiato i suoi connotati a seconda delle stagioni politiche e delle entità che si sono contese il controllo del Caucaso, spesse volte utilizzando la contesa armeno-azera, come pretesto e foglia di fico ad un tempo, per giustificare le proprie macchinazioni. Che si trattasse di Russi, Turchi o Persiani, il Caucaso faceva gola a tutti i contendenti e i conflitti locali dovevano necessariamente essere strumentalizzati ad uso e consumo dell’egemone di turno.

L’attuale fase “calda” del conflitto armeno-azero trova principale (ma non unica) giustificazione nel possesso del territorio del Nagorno-Karabakh (Artsakh), territorio in larga parte montuoso, e caratterizzato da paesaggi mozzafiato, situato sulle estreme propaggini meridionali del Caucaso e noto alle popolazioni turcofone con il nomignolo di “Giardino Nero” (a causa delle sue fitte foreste, così diverse dalle steppe sconfinate caratterizzanti le terre dell’Asia Centrale da dove arrivarono le orde genitrici dei Turchi moderni).

Il primo mito da sfatare quando si parla del Nagorno-Karabakh (Artsakh) è che il suddetto territorio sia stato invaso dagli Armeni e che sia attualmente “occupato” dalle forze militari della Repubblica d’Armenia. Tale versione, ufficialmente adottata dalle autorità di Baku, rappresenta la quintessenza della malafede degli Azeri e dei loro fiancheggiatori a livello internazionale (ahimé, la maggioranza).

La popolazione del Nagorno-Karabakh (Artsakh) è sempre stata costituita da Armeni per la sua assoluta maggioranza sin dall’origine della scrittura ed, anzi, questa regione rappresenta il cuore stesso del territorio d’origine del popolo e della cultura armena, assieme alla finitima provincia di Syunik (facente parte della Repubblica d’Armenia) e alla Repubblica Autonoma del Naxçivan (quest’ultima ancora parte dell’Azerbaigian e completamente “ripulita” in anni recenti dalle autorità di Baku sia della sua popolazione armena che dei monumenti da essa costruiti nel corso del tempo).

Nel 1988, sulla scia degli sconvolgimenti che interessarono l’Unione Sovietica nel periodo della Perestroika e che avrebbero di lì a poco portato alla disintegrazione stessa dell’impero, gli Armeni nagornini dichiararono la secessione dalla Repubblica Sovietica dell’Azerbaigian (dalla quale si erano sempre sentiti a ragione oppressi) e la riunificazione con la Repubblica Sovietica dell’Armenia. La successiva “Guerra del Nagorno-Karabakh” durò fino al 1994 risolvendosi nel collasso delle capacità militari dell’Azerbaigian (che attraversò inoltre un periodo di torbidi politici interni) e alla firma del “Protocollo di Bishkek” che, seppure non riconoscendo né l’indipendenza del Nagorno-Karabakh (Artsakh) né la sua riunificazione con la Repubblica d’Armenia, sancì altresì il controllo congiunto di Armeni ed Armeni nagornini su gran parte del Nagorno-Karabakh (Artsakh) e dei territori azeri confinanti collettivamente noti come “zone di sicurezza”.

Lungi dal tramutarsi in un trattato di pace onnicomprensivo, il “Protocollo di Bishkek” fu un semplice momento di passaggio tra la “guerra vera” e “l’intifada della guerra”. Tra il 1994 ed oggi, le provocazioni reciproche hanno continuato a mietere morti da entrambi i lati, dato che non è passato un singolo giorno senza che avvenissero incursioni di commandos, combattimenti d’artiglieria, azioni di cecchinaggio e attacchi di aerei o elicotteri mentre l’azione diplomatica si riduceva ad una situazione di effettivo stallo.

Dal 2008, le provocazioni hanno avuto un’evoluzione persino peggiorativa, mentre la retorica incendiaria utilizzata soprattutto dall’Azerbaigian sul fronte interno sta solamente facendo aumentare l’odio verso il nemico.

L’escalation peggiore è avuta nell’aprile 2016 quando il Nagorno-Karabakh (Artsakh) è stato teatro di una nuova guerra (la cosiddetta “Guerra dei Quattro Giorni”) che ha mietuto per lo meno diverse centinaia di morti (anche se il segreto militare e l’ampio ricorso alla disinformazione, soprattutto da parte azera, non permettono di apprezzare appieno la gravità dell’evento).

L’estate di quest’anno ha comportato l’ennesima recrudescenza negli scontri, questa volta però spostatisi a nord al confine della provincia armena di Tavush e di quelle azere di Tovuz, Qazakh e Gadabay. Tale sfortunato evento, di per sé tragico, è stato rapidamente strumentalizzato dalle alte sfere di Baku, tuttavia in questa situazione gli Azeri non sono riusciti a “vendere” a livello internazionale l’evento altrettanto bene rispetto a quando invece gli scontri avvengono nell’area del Nagorno-Karabakh (Artsakh). Nondimeno a livello internazionale si sono registrate una serie di durissime prese di posizione da parte di varie istituzioni nazionali ed internazionali.

Interessante la condanna, che potremmo definire “multipartisan”, da parte di diversi centri studio, in genere orbitanti attorno alla figura dell’ex-ministro degli Esteri Giulio Terzi di Sant’Agata, le cui dichiarazioni finali, però, una volta letta, fa sorgere il legittimo sospetto che i nostri “esperti” siano quanto meno scarsamente avvezzi all’analisi degli equilibrismi caucasici quando non totalmente male informati riguardo alla situazione reale sul terreno, come quando richiedono “l’immediato ritiro delle forze armene dalla zona contesa”. Bisognerebbe avere la grazia di spiegare a costoro innanzitutto che l’attuale crisi ha come punto focale un’area lontana da quella del conflitto classico. Secondariamente, anche volendo parlare a tutti i costi di “area contesa”, è bene che essi sappiano che il Nagorno-Karabakh (Artsakh) non è un gigantesco “campo militare”, ma uno stato a tutti gli effetti abitato da 150.000-172.000 persone in larghissima parte “indigene” e discendenti di genti che hanno abitato quel territorio per migliaia di anni. L’autore della presente analisi trova francamente difficile che tutta questa gente accetti di andarsene “con il sorriso sulle labbra”, soprattutto dopo che, tra il 1988 ed il 1994, ha combattuto una sanguinosissima e vittoriosa guerra per la propria salvezza ed autodeterminazione (la quale, per altro, è riconosciuta sia dal “Protocollo di Bishkek” che dai successivi “Principi di Madrid”).

Un altro capitolo che merita di essere trattato è quello delle inevitabili vittime civili che segnano questo tipo di conflitti dato che anche in questa occasione pare che ce ne siano state dalla parte azera. Interrogate a tal proposito, le autorità armene non hanno negato l’accaduto ma allo stesso tempo hanno precisato che la responsabilità delle morti civili ricade sulla scellerata decisione di Baku di piazzare i propri pezzi d’artiglieria in mezzo alle zone abitate. Tale affermazione ci impone di prestare attenzione al diverso valore che i contendenti attribuiscono alla vita dei civili. Mentre infatti lungo tutto il versante armeno della linea del fronte sia le autorità di Yerevan che di Stepanakert (capitale nagornina) hanno imposto una fascia “militarizzata” nella quale, in virtù dello stato di guerra, i civili non hanno possibilità di stanziamento e residenza, dalla parte azera non si è mai provveduto a nulla di simile, anzi, spesso e volentieri trincee, nidi di mitragliatrici, posizioni d’artiglieria e bunker sono situati proprio attorno ai centri abitati in modo da utilizzarne gli abitanti come scudi umani.

Nonostante l’ampio utilizzo da parte delle forze armene di UAV, radar di rilevamento terrestre, sistemi di scoperta all’infrarosso e operatori delle forze speciali in funzione di ricognitori per rendere il fuoco di contro-batteria il più preciso possibile, i danni collaterali con conseguenti perdite civili sono inevitabili, come si è visto anche in questi giorni.

In genere gli scambi d’artiglieria tra le due parti si svolgono nel seguente modo: dopo aver colpito anche per intere giornate le posizioni armene mediante l’utilizzo di fucili e cannoni senza rinculo e mortai da 60 e 82 millimetri gli Azeri possono smettere oppure decidere di alzare la posta del gioco schierando i lanciarazzi campali multitubo TR-107 di produzione turca (a loro volta ampiamente ispirati ai PLA 107 di fabbricazione cinese). Ciò provoca poi l’immediato fuoco di contro-batteria armeno che si risolve nella distruzione delle posizioni di lancio ma che spesse volte porta anche alle perdite civili delle quali ci parla la cronaca. Tuttavia, ad un lettore attento, tali accadimenti suonano assolutamente famigliari. Nel corso della “Guerra dei Quattro Giorni” dell’aprile 2016, sia Armeni che Azeri lamentarono un certo numero di perdite civili. Da investigazioni fatte sul terreno da parte di Murad Gazdiev, corrispondente di RT, mentre i morti ed i feriti dell’Azerbaigian erano stati colpiti dal fuoco armeno quando nei loro centri abitati era stata segnalata una massiccia presenza di truppe, dall’altra parte, le perdite di civili armeni erano tutte incorse quando il fuoco azero aveva colpito le loro case situate a chilometri di distanza dalla linea del fronte e senza che vi fosse la benché minima presenza di forze ostili tale da giustificare un sostenuto fuoco d’artiglieria. Ogni ulteriore commento risulta superfluo.

Sul frangente bellico, non è facile trovare notizie certe relative alle reali perdite umane e materiali sofferte dai contendenti, tuttavia possiamo affermare che, mentre la relativa apertura e democratizzazione della società armena possono farci ipotizzare che le perdite ufficiali armene sostanzialmente corrispondano alla realtà, quelle ufficiali azere sono palesemente false.

L’esperienza empirica di tutti i conflitti umani, dall’introduzione della polvere da sparo ad oggi, dimostra che qualsiasi esercito attaccante è destinato a subire perdite dalle tre alle cinque volte maggiori rispetto all’esercito difensore, a patto che non sia dotato di una potenza di fuoco schiacciate e di soldati meglio addestrati ed equipaggiati. Nel caso specifico, l’Azerbaijan non può contare su alcuna delle due condizioni.

Sebbene negli ultimi vent’anni Baku abbia potuto spendere cifre enormi per ammodernare il proprio strumento militare, ciò non si è tradotto nel dispiegamento di una irresistibile potenza di fuoco. Essendo infatti un membro dell’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva e coltivando da sempre buone relazioni con la Russia, l’Armenia ha potuto rinforzare a sua volta le proprie forze armate potendo acquistare moderni armamenti dal suo imperiale protettore a prezzi scontati o addirittura gratuitamente, cosa preclusa al proprio avversario.

È difficile valutare appieno gli arsenali dei due contendenti, dato che la situazione di “guerra perenne” porta entrambi ad essere alquanto “abbottonati” riguardo a numeri ed organizzazione dei propri strumenti militari. Tuttavia, una rapida occhiata tanto ai bilanci alla difesa quanto alle indiscrezioni giornalistiche, che parlano di tanto in tanto di mega contratti stipulati dall’uno o dall’altro dei due contendenti, ci possono far intravedere un barlume di verità anche oltre la cortina fumogena del segreto militare e della disinformazione di guerra.

Alla luce di quanto detto precedentemente, possiamo affermare che, sulla carta, Baku sia in possesso di forze militari numericamente superiori e dotate di armamenti più numerosi anche se, lo scarto numerico (che, a seconda della tipologia di armamento, varia da 1:2 a 1:3) non è sufficiente ad ottenere quella superiore potenza di fuoco che sarebbe auspicabile per risolvere “manu militari” la contesa del Nagorno-Karabakh. Allo stesso tempo, le forze armate azere sono piagate da una serie di inveterate inefficienze (corruzione del corpo ufficiali, nonnismo, mancanza di addestramento e disciplina) che non gli permettono di stare sullo stesso piano qualitativo delle loro controparti armene e nagornine.

Tali problemi erano già emersi in maniera palese nel corso della “Guerra del Nagorno-Karabakh”, tra il 1988 ed il 1994. Anche allora le forze armate azere erano state sconfitte ed umiliate da un avversario assai meno numeroso e quantitativamente meno armato ma qualitativamente meglio addestrato e determinatissimo a combattere una guerra che la totalità della popolazione armena vedeva come una “guerra per la propria sopravvivenza esistenziale”. Dall’altra parte, invece, gli Azeri vedevano la guerra come niente più che una repressione di un momentaneo moto separatista. Infatti, mentre nel corso dei lunghi anni della guerra le autorità di Yerevan e Stepanakert si adoperavano alacremente per inviare al fronte quanti più uomini (e donne) possibile, dall’altra una buona percentuale dei maschi azeri in età militare non disdegnava di evadere la leva obbligatoria preferendo gli agi del lungomare di Baku al freddo ed alla fame dei monti e delle foreste del Nagorno-Karabakh. Una delle misure adottate dal governo per arginare l’emorragia di renitenze fu la coscrizione massiccia di personale proveniente dalle minoranze etniche del paese (soprattutto Russi, Lezgini, Avari e Talysh, ma non solo) demograficamente incapaci di ribellarsi ai diktat del potere centrale.

A titolo esemplificativo si può citare il fatto che il più importante e celebrato “Eroe Nazionale dell’Azerbaijan” della guerra del Nagorno-Karabakh, il defunto Albert Agarunovich Agarunov (foto) non fosse un “azero in senso stretto” bensì un cosiddetto “ebreo di montagna” (gli Ebrei di Montagna sono un’antichissima comunità ebraica del Caucaso da sempre famosi per le loro eccezionali capacità guerriere), e che prima di morire a bordo del suo carro armato nel corso della battaglia di Shusha nel 1992 pare si fosse lamentato più volte con i giornalisti che, per la maggior parte, fossero i soldati delle minoranze a doversi fare carico del fardello della guerra.

Un’altra, fu il diffuso utilizzo di volontari e mercenari stranieri tra cui migliaia di Turchi, Ceceni, e persino mujaheddin afghani. È interessante notare che tale pratica non sia disdegnata nemmeno oggi, dato che, dopo il confronto militare del 1-5 Aprile 2016, le autorità armene hanno diffuso la notizia di come, in diverse occasioni, le loro forze sul terreno avessero recuperato dai cadaveri dei nemici uccisi in battaglia documenti e valuta attestanti la provenienza straniera dei suddetti armati.

Come ciliegina sulla torta si possono poi citare i rapporti stilati congiuntamente dalle due agenzie di intelligence dell’Armenia, il Servizio di Sicurezza Nazionale ed il Dipartimento di Intelligence delle Forze Armate, nei quali si enunciava espressamente che elementi di al-Qaeda e combattenti dell’ISIS stessero combattendo a fianco delle forze di Baku. L’esistenza di tali rapporti confidenziali è stata pubblicamente svelata da Kaylar Michaelian, rappresentante permanente del Nagorno-Karabakh in Australia e successivamente rilanciata dalle agenzie di stampa siriane SANA e Al-Masdar News.

È doveroso menzionare il fatto che il presidente siriano Assad avesse espressamente citato l’Azerbaijan come uno dei paesi “fornitori di manodopera” per l’ISIS un mese prima degli attentati del Bataclan di Parigi e che poche settimane prima dello scoppio della guerra in Nagorno-Karabakh del 2016 gli stessi servizi segreti siriani, congiuntamente a quelli russi, avessero messo in guardia sul fatto che i servizi segreti turchi stessero favorendo l’esfiltrazione di una sessantina di terroristi dell’ISIS di nazionalità azera probabilmente per farli tornare verso la zona del Caucaso. L’opinione più diffusa sul momento era che tali operativi fossero diretti, congiuntamente ad altri elementi di etnia cecena o caucasica, a colpire obiettivi russi situati in Georgia, in Ossezia del Sud, in Abkhazia o addirittura nello stesso Caucaso russo, laddove le bandiere nere dell’ISIS hanno iniziato a sventolare in luogo della tradizionale resistenza cecena. Il fatto che siano invece stati dirottati all’ultimo momento in Azerbaijan dimostra tre cose fondamentali:

  • il grado di fantasia strategica e di improvvisazione di cui sono dotati i servizi segreti turchi;
  • l’elevato grado di collaborazione e “sinergia” ormai raggiunto tra Ankara e Baku;
  • il fatto che, oltre ad essere un’organizzazione terroristica sviluppatasi in un autentica “organizzazione mafiosa”, l’ISIS (ora profondamente infiltrato ed etero-diretto dai servizi segreti di Turchia, Pakistan ed Arabia Saudita) sia diventato anche un’autentica “banda di mercenari” che può fornire all’uopo contingenti di combattenti più o meno numerosi e assolutamente spendibili a questa o quella potenza per un pronto impiego nei più disparati teatri della “Terza Guerra Mondiale a Pezzi” denunciata da Papa Francesco.

Ma Erdoğan, Aliyev e i loro sodali non si sono fermati qui. Il 18 di luglio, Sham FM, outlet radiofonico siriano, citando nuovamente i servizi segreti di Damasco ha annunciato che, dopo aver fatto capolino in Libia e Yemen, ora i jihadisti siriani appartenenti alle varie fazioni islamiste ingabbiate nella provincia di Idlib e nelle zone sotto occupazione turca starebbero ora venendo dispiegati anche per servire gli interessi turchi nel conflitto tra Armenia ed Azerbaigian. Sham FM ha fatto addirittura l’esempio di un’unità di 300 uomini reclutata tra i membri di Hay’at Tahrir al-Sham, l’ex-Jabhat al-Nusra, che avrebbero firmato i termini per trascorrere un “tour operativo” nell’area caucasica della durata di sei mesi ricevendo un salario di 2.500 dollari mensili.

Lo scenario complessivo che si delinea, perciò, non è quello dell’incidente ma della vera e propria premeditazione; ma da parte di chi? Accettando come assai probabile la “premeditazione” dell’invasione azera, resta da capire chi tra Erdoğan e Aliyev sia stato il vero motore ed artefice del “gambetto di re”.

Chiariamoci: Aliyev non si sarebbe mai lanciato in una simile avventura senza il pieno sostegno di Erdogan. A pensarci bene, c’erano (e ci sono) numerose ragioni di natura interna per spingere l’autocrate azero verso una riaccensione del conflitto (sviamento dell’attenzione dell’opinione pubblica dai problemi interni, riduzione al silenzio dell’opposizione interna facendo leva sul sentimento patriottico, mascherare la catastrofica gestione della crisi del Covid-19, ecc…).

Un altro elemento da non sottovalutare è la perdurante crisi dei prezzi degli idrocarburi che incide molto negativamente sul bilancio di Baku e spinge il dittatore Ilham Aliyev ad usare il conflitto senza fine come una valvola di sfogo per dirigere il malcontento interno verso gli odiati Armeni. Tuttavia, anche considerando queste situazioni, è Erdogan quello che ha più da guadagnarci nell’appiccare il fuoco al Caucaso. Con questa mossa infatti il sultano ha ottenuto i seguenti risultati:

-ha contrattaccato il rafforzamento della presenza russa in Siria;

-ha dimostrato di essere in grado di creare una crisi potenzialmente pericolosa a ridosso dei confini della Russia;

-ha parzialmente screditato il prestigio della Russia nei confronti di tutti gli altri stati ex-sovietici;

-ha spinto ancora di più l’Azerbaijan tra le braccia della Turchia;

-ha dimostrato di perseguire una politica estera che può essere indipendente dai “desiderata” di Washington;

-ha internazionalizzato il conflitto armeno-azero e lo scontro aperto tra Turchia e Russia;

-ha fatto l’occhiolino a Kiev, sempre in cerca di alleati in chiave anti-russa;

-ha lanciato un messaggio ai suoi “alleati” sauditi e pakistani (seguitemi fino alla fine!);

-ha lanciato un altro messaggio ad Europei e Iraniani (sono un uomo pericoloso!);

-ha tentato di mettere all’angolo Yerevan, come ha già tentato di fare molte volte.

Non passerò ora ad analizzare in dettaglio ciascuno dei punti sopra annunciati né valuterò il loro impatto nel breve, medio e lungo termine. Mi limiterò a dire che, tra i dieci punti sopra enunciati uno di essi, l’ultimo, costituisce un madornale errore di valutazione.

Se dall’alto della sua potenza il sultano turco può pensare di aver stretto la piccola Armenia all’interno di un anello di fuco, lasciando gli abitanti di quel paese di fronte all’unica scelta di sottomettersi o perire, egli dimostra, in perfetto stile turco, di non aver minimamente compreso che per gli Armeni, non importa se dell’Armenia, del Nagorno-Karabakh o della diaspora, questa non costituisce una lotta per il potere ma una vera e propria lotta per la sopravvivenza.

In mancanza di un’aperta ammissione di colpevolezza e di avvenuto pentimento per quanto concerne la questione del Genocidio Armeno (foto), la Turchia verrà sempre percepita dagli Armeni di tutto il mondo come un’entità malvagia della quale non ci si può assolutamente fidare e la retorica infiammata sia di Erdogan che di Aliyev non aiuta certo alla comprensione reciproca.

Dall’altra parte, seppur più piccola, povera e caratterizzata dalle stesse contraddizioni presenti in tutte le società ex-sovietiche, l’Armenia ha incominciato già da anni un lento ma progressivo processo di trasformazione interna sull’esempio di quello attuato da Israele negli anni ’50 e ’60 del secolo scorso. Inoltre, sebbene corruzione e nepotismo siano imperanti, la società armena è incomparabilmente più democratica di quella azera, le elezioni politiche sono combattute e partecipate, le minoranze etnoreligiose sono riconosciute e protette (e non sottoposte ad un’opera di progressiva assimilazione ed “estinzione” come avviene in Azerbaigian e, ancora peggio, in Turchia) ed il popolo in generale è attore comprimario e non mero “esecutore” degli ordini dell’élite, specialmente dopo gli accadimenti della cosiddetta “Rivoluzione di Velluto” del 2018 che ha portato al potere Nikol Pashinyan.

Da non sottovalutare poi il ruolo della potentissima Chiesa Armena e della Diaspora sia come “moltiplicatori di potenza” ed “agenti di influenza” sul fronte estero che come “elementi democratizzatori” e “vettori d’innovazione” sul fronte interno. Tenendo conto di tutto ciò, si può ben capire come, in un’ottica di lungo periodo, la “strategia difensiva” portata avanti da Yerevan e Stepanakert abbia maggiori possibilità di risultare vincente mentre il fallimento della “strategia offensiva” di Baku porterà inevitabilmente a galla le contraddizioni interne del regime proprio come avvenne al termine della prima “Guerra del Nagorno-Karabakh” (1988-1994). Prima che si giunga ad un tale esito, però, sarebbe vivamente consigliato che la comunità internazionale prendesse atto di come, ad ogni nuova provocazione ed a ogni nuova vittima lungo la “Linea di Contatto”, l’attuale status quo in Nagorno-Karabakh sia assolutamente insostenibile.

Le azioni sul campo del leader turco, da quando prese il potere nel 2003 fino ad oggi costituiscono una dimostrazione tangibile che quell’uomo è pericoloso per la pace mondiale e non si fermerà mai fino al completo raggiungimento dei suoi scopi: la restaurazione della Turchia a grande potenza planetaria sulle ceneri di Medio Oriente, Nord Africa ed Europa e sua “intronazione” personale a “turco più grande della Storia”.

In questo pericolosissimo gioco, la piccola ma risoluta Armenia rappresenta (proprio come la Siria di Assad, l’Iraq e la Libia) un ostacolo sia simbolico che fisico che il sultano vuole distruggere o sottomettere perché nel suo solipsismo nessuno può permettersi di dirgli di “no” e, per chi lo fa, ci possono essere solamente macerie e lutti.

Anziché siglare improbabili “intese umanitarie” o “partnerships strategiche”, i leader europei dovrebbero invece finalmente capire che le azioni della Turchia non contribuiscono né alla pace né alla stabilità mondiale e che, al contrario, nell’area caucasica sono proprio le istanze dell’Armenia e della Russia quelle che hanno maggiormente a cuore la stabilità e l’equilibrio.

I capi di stato e di governo in Europa e in tutto il mondo libero sono chiamati a riconoscere questa realtà altrimenti le provocazioni turche diventeranno via via più pericolose ed incontrollabili e, tra una ventina d’anni, i superstiti del Nuovo Genocidio Armeno e della “Terza Guerra Mondiale a Pezzi” vedranno la nascita di una “Nuova Era dell’Oro Ottomana”.

In conclusione, che la cosa possa piacere o meno, stiamo assistendo ad una recrudescenza del mai sopito conflitto per il dominio del Caucaso meridionale. Le avvisaglie di questa escalation avrebbero dovuto mobilitare la comunità internazionale già una quindicina di anni fa, ma la miopia dei decisori politici ed il disinteresse generale (quando non la cosciente spregiudicatezza) hanno fatto sì che la situazione continuasse a degenerare fino a quello che appare sempre più come un punto di non ritorno, soprattutto ora che nella partita caucasica ha deciso di entrare in veste di giocatore titolare il presidente-padrone turco Recep Tayyip Erdoğan, fermamente intenzionato a rivendicare anche in quelle lande uno spazio di espansione geopolitica per la Turchia.

vai al sito

Armenia: appello Papa su tensioni in Caucaso. Mons. Minassian, “una grande consolazione per tutti gli armeni. Francesco non ci ha dimenticato” (SIR 20.07.20)

“Le parole del Santo Padre sono una grande consolazione per tutti gli armeni. Sono il segno che Papa Francesco non ci ha dimenticato”. Così mons. Raphaël François Minassian, arcivescovo per gli armeni dell’Europa dell’Est, commenta da Yerevan per il Sir le parole pronunciate ieri all’Angelus da Papa Francesco. Al termine infatti della preghiera mariana, il Santo Padre ha rinnovato l’appello per un “un cessate il fuoco globale che permetta la pace la sicurezza indispensabili per fornire assistenza umanitaria necessaria alle popolazioni che si trovano in paesi in guerra”. Ed ha aggiunto: “Seguo con preoccupazione il riacuirsi delle tensioni armate nella regione del Caucaso, tra Armenia e Azerbaigian. Assicuro le mie preghiere per coloro che hanno perso la vita durante gli scontri e auspico che con l’impegno della comunità internazionale e il dialogo tra le parti si possa giungere ad una soluzione pacifica e duratura che abbia a cuore il bene di quelle amate popolazioni”. “I media – fa sapere subito l’arcivescovo – hanno dato rilievo e hanno rilanciato l’appello e la preghiera per la pace del Santo Padre. Purtroppo, però non c’è ad oggi nessuna reazione positiva sul fronte del dialogo perché malgrado i ripetuti appelli alla pace, gli attacchi sul confine continuano e non c’è un cessate-il-fuoco definitivo”. La situazione al confine tra Armenia ed Azerbaijan in questi giorni è delicatissima. Come riportano varie agenzie internazionali, il primo attacco è stato lanciato lo scorso 12 luglio dalle forze armate azere. Fino ad oggi, gli scontri si sono verificati sempre e solo nell’area del Nagorno Karabakh, mentre ora è l’Armenia stessa ad esser presa di mira. Diversi paesini sarebbero già stati attaccati con artiglieria pesante. Si tratta di una escalation pericolosa. “Tutto il Paese è bloccato”, racconta l’arcivescovo. “La tensione crea un clima di paura diffusa. Siamo abituati al conflitto in Nagorno Karabash ma ora la tensione si sta espandendo coinvolgendo il confine con l’Azerbaijan”. Solo qualche giorno fa, il ministero della Difesa azero ha addirittura minacciato un attacco missilistico sulla centrale nucleare di Metsamor, in Armenia. “Si è creata un’atmosfera di guerra e tensione con minacce continue”, conferma l’arcivescovo Minassian. “Non ultimo la minaccia alla centrale nucleare di Metsamor che si trova a soli 30 chilometri dal confine turco. Se viene attaccata, sarebbe un disastro non solo per l’Armenia ma anche per la Turchia. Quello che si sta verificando ormai da anni è un male internazionale contro l’umanità. Non capisco come la comunità internazionale non sia interessata a questo conflitto. L’Armenia è un Paese dimenticato. Il Paese inoltre è per il 99% cristiano. Quindi per noi è in atto anche una vera e propria persecuzione contro il popolo cristiano in questa Regione”. Mons. Minassian rilancia l’appello “per la pace e la convivenza”. Invita tutte le parti a “mantenere aperto un canale di comunicazione” e si rivolge all’Europa. “Lancio un appello all’Europa perché non dimentichi l’Armenia, questi fratelli e sorelle che soffrono. La società cristiana nel Caucaso – aggiunge – è sempre in pericolo. Penso che un intervento dell’Unione europea e dei Paesi europei, un loro aiuto a trovare una soluzione sarebbe un atto importante, e un segno di carità verso il popolo armeno. Non abbiamo paura. Siamo convinti che il Signore ci ha scelto per testimoniare in questa terra la sua presenza. Le parole del Santo Padre ieri sono state accolte qui in Armenia in modo molto positivo, con affetto e con una simpatia ancora più forte. Sono parole importanti per la costruzione di una pace definitiva e un cessate-il-fuoco immediato”.

Vai al sito

Erdogan sfida la Russia al confine tra Armenia e Azerbaigian (Ecodaipalazzi 20.07.20)

Il 12 luglio si sono riaccese le ostilità al confine tra Armenia e Azerbaigian.

Migliaia di persone sono scese in piazza a Baku per chiedere la mobilitazione e la riconquista del Nagorno Karabakh, mentre l’ambasciatore azero in Russia non esclude la possibilità che tra i due Paesi possa scoppiare un conflitto di grandi proporzioni. Cui prodest?

Per fare luce sulla questione abbiamo intervistato per voi il presidente del movimento armeno “Zargatsum” (“Sviluppo”), Vahan V.  Yeghiazaryan   che ci ha fornito un punto di vista interessante sull’appoggio di Ankara a Baku e, più in generale, sulla politica estera espansionistica che la Turchia sta attualmente conducendo in Medio Oriente.

Lo scorso 12 luglio sono riprese le ostilità al confine tra Armenia e Azerbaigian. Che cosa ha innescato lo scontro e in che modo quest’ultimo si distingue da quelli passati?

In seguito alla vittoria della Rivoluzione di velluto in Armenia nel 2018 e alla sostituzione del negoziatore per la risoluzione della questione del Nagorno Karabakh, è emersa una certa dinamica positiva. La tesi principale del premier armeno, Nikol Pashinyan, riassumibile con la formula “Qualsiasi soluzione al problema del Nagorno Karabakh deve essere accettabile per i popoli dell’Armenia, dell’Artsakh e dell’Azerbaigian”, rappresenta un approccio senza precedenti tra le autorità armene. Purtroppo, però, è stato respinto dalla parte azera, che persegue una politica massimalista di annessione dell’Artsakh con qualsiasi mezzo, inclusa la forza. Il culmine di questa retorica e dell’interruzione del processo di negoziazione è stato raggiunto il 25 giugno con l’intervento del presidente dell’Azerbaigian, Ilham Aliyev, alla cerimonia di inaugurazione della nuova base militare delle forze armate azere: “Il fattore della forza nel mondo sta salendo alla ribalta, e noi dobbiamo accumulare forze e risolvere la questione (dell’Artsakh) in un modo o nell’altro”. Parole che riflettono la natura pianificata dell’aggressione contro l’Artsakh e contro l’Armenia, volta a risolvere la questione del Nagorno Karabakh con la forza. Il 12 luglio 2020, il mondo ha assistito all’inizio di questa aggressione, poi fallita.

Gli scontri sono iniziati a mezzogiorno del 12 luglio nella provincia di Tavowš, nella parte nord-orientale del confine internazionale tra Armenia e Azerbaigian. Un gruppo di soldati azeri ha tentato di attraversare il confine della Repubblica di Armenia e di avvicinarsi al posto di frontiera “Impavido”. Dopo i consueti avvertimenti e le misure di prevenzione intraprese dalla parte armena, il drappello si è ritirato, lasciandosi dietro una jeep militare UAZ. L’esercito armeno, considerandolo un incidente, non ha aperto il fuoco sui soldati. Subito dopo, però, l’esercito azero ha lanciato un bombardamento di mortaio e di artiglieria sulle posizioni armene e sugli insediamenti di confine di Movses e Chinari.

A conti fatti, l’esercito azero ha organizzato un finto incidente con l’obiettivo di innescare un conflitto sul confine nord-orientale dell’Armenia, per distrarre le truppe armene dalla direzione dell’attacco principale, il quale molto probabilmente avrebbe dovuto colpire a Sud-Est, in direzione dell’Artsakh. La tempistica dell’aggressione azera non è stata scelta a caso: l’Azerbaigian sperava che la crisi politica interna in Armenia, in corso da più di un mese, avesse indebolito la coordinazione dell’esercito.

Tuttavia, con grande sorpresa del nemico, l’esercito armeno non solo è riuscito a respingere l’offensiva in breve tempo, ma per mezzo della controffensiva ha anche neutralizzato la minaccia alla popolazione civile, ossia la minaccia di bombardamenti diretti da parte dell’Azerbaigian sugli insediamenti armeni di Movses e di Chinari. L’Armenia ha ripristinato il controllo sulla cresta montuosa di confine, strategicamente importante, e sulla Montagna Nera, da dove sono stati condotti gli attacchi contro le infrastrutture civili e contro gli abitanti di Tavowš. Si tratta delle cime dominanti in questo settore di confine e il loro controllo offre un vantaggio strategico sul nemico.

La “guerra di luglio” ha rappresentato un’escalation senza precedenti negli ultimi anni di scontri militari tra Armenia e Azerbaigian. Per la prima volta si sono verificate azioni militari di grandi proporzioni sul confine di Stato internazionalmente riconosciuto. Azioni in grado di evolvere in un autentico confronto regionale con il coinvolgimento di tutti i principali attori geopolitici, considerata l’adesione dell’Armenia all’Organizzazione del Trattato di sicurezza collettiva (Csto) e l’alleanza strategica dell’Azerbaigian con la Turchia. Le azioni rapide e preventive delle forze armene hanno impedito al conflitto di svilupparsi in un’acuta crisi politico-militare a livello regionale.

Va anche notato che per la prima volta, a seguito di un’operazione speciale delle forze armate armene, sono stati eliminati ufficiali di alto rango dell’esercito azero: il capo del quartier generale del corpo di Tovuz delle forze armate azere e il comandante dell’artiglieria dello stesso corpo. Sono stati loro a impartire i comandi per i bombardamenti di mortaio e di artiglieria sugli insediamenti di frontiera armeni di Movses e di Chinari, a seguito dei quali sono stati liquidati.

Consci della completa sconfitta subita, i funzionari azeri sono arrivati a rilasciare un’altra dichiarazione senza precedenti: il portavoce del ministero della Difesa azero, Vagif Dargahli, ha affermato che i sistemi missilistici in servizio all’esercito azero sono in grado di colpire la centrale nucleare armena di Metsamor con elevata precisione. Tale minaccia rappresenta un crimine internazionale: una violazione del diritto internazionale umanitario in generale e più in particolare del primo Protocollo aggiuntivo alle Convenzioni di Ginevra. Minacce di questo tipo sono una manifestazione diretta del terrorismo di Stato dell’Azerbaigian, di cui riflettono le intenzioni genocide.

Fino a che punto la tensione in Medio Oriente influenza la situazione tra i due Paesi?

La “guerra di luglio” è per molti versi una conseguenza dello stallo nel confronto tra Russia e Turchia nel governatorato siriano di Idlib. L’Armenia è membro del Csto e un alleato strategico della Russia nella regione, mentre le autorità dell’Azerbaigian e della Turchia promulgano a livello ufficiale il concetto di “Un popolo – due Stati”. È vantaggioso per la leadership turca portare la tensione tra Armenia e Azerbaigian al livello di minaccia alla stabilità regionale e agli interessi della Russia, per poi chiedere alla Russia, in cambio della stabilizzazione della regione, concessioni su Idlib. Allo stesso tempo, lo scongelamento del conflitto serve gli interessi dell’Azerbaigian. Hanno cercato di realizzare questo scenario turco-azero nella provincia armena di Tavowš. Il tentativo è fallito.

Di grande rilevanza è anche lo scontro regionale tra Iran e Israele, esso esercita infatti una forte influenza sulla militarizzazione dell’Azerbaigian. Israele è uno dei principali fornitori di armi dell’Azerbaigian. Gerusalemme vede l’Azerbaigian come un alleato contro l’Iran. Non dimentichiamo che nel Nord dell’Iran vivono gli iraniani di lingua turcica, considerati da Baku azeri etnici. L’Azerbaigian sta aumentando sistematicamente la sua influenza su questa “quinta colonna”, mentre Israele, rafforzando militarmente l’Azerbaigian, prepara un punto d’appoggio settentrionale per un attacco all’Iran.

“Sosterremo l’Azerbaigian nella difesa della sua integrità territoriale”, ha dichiarato il ministro degli Esteri turco, Mevlut Cavusoglu, in seguito allo scoppio delle ostilità al confine tra Armenia e Azerbaigian. La reazione di Ankara è cambiata rispetto agli scontri passati?

Di fatto la Turchia è parte del conflitto del Nagorno Karabakh, sostiene l’Azerbaigian con istruttori militari ed equipaggiamento della NATO. I due Paesi conducono una pianificazione congiunta e un’attuazione coordinata delle politiche militari. Nelle prime ore dell’inasprimento della situazione, lo scorso 12 luglio, il ministero degli Esteri turco ha rilasciato una dichiarazione sul pieno sostegno all’Azerbaigian, a cui è seguita una dichiarazione analoga del ministero della Difesa turco. Non solo. Nella fase acuta del conflitto, una grossa delegazione della leadership militare azera si è recata in visita in Turchia. Il giorno successivo, un aereo da trasporto dell’aeronautica turca atterrava all’aeroporto di Baku con un carico militare segreto: secondo alcune fonti, a bordo c’erano armi moderne della NATO donate all’esercito azero. Secondo altre fonti, invece, trasportava diverse centinaia di militanti filo-turchi dell’Esercito siriano libero provenienti dalla provincia siriana di Idlib, da impiegare per un’offensiva su larga scala contro le posizioni dell’esercito armeno, come accadde nell’aprile del 2016. All’epoca i militanti vennero usati come “carne da macello” per evitare grosse perdite tra gli azeri. Infatti la questione dei militari caduti è fortemente sentita nella società azera ed è in grado di provocare tumulti politici interni e persino un cambio di potere in Azerbaigian.
In base alle informazioni disponibili, nelle località siriane di Junderis, Raju e Afrin sono stati aperti centri per il reclutamento di mercenari. Secondo il quotidiano curdo Firat, i militanti riceveranno 3500 dollari mensili sulla base di un contratto di lavoro semestrale. È interessante soffermarsi sulla durata del contratto, segno che l’Azerbaigian e la Turchia stanno pianificando una nuova aggressione contro l’Artsakh e contro l’Armenia.

Inoltre, nei giorni successivi allo scoppio delle ostilità, un drone da ricognizione turco, presumibilmente un Bayraktar TB2, effettuava voli di ricognizione vicino al confine tra Armenia e Turchia, un’altra testimonianza dell’aggressività della politica di Ankara nei confronti dell’Armenia.

Gli Stati Uniti hanno condannato gli scontri e invitato le parti a interrompere immediatamente l’uso della forza, mentre il ministero degli Esteri iraniano ha offerto il suo appoggio per alleviare le tensioni tra i due Paesi Between-Azerbaijan-Armenia).

Stando a queste dichiarazioni, le posizioni di Washington e di Teheran sulla questione collimano. L’apparenza inganna?

La tensione è svantaggiosa sia per la Russia sia per gli Stati Uniti, sia per l’Unione europea sia per l’Iran, e anche per l’Armenia. Serve gli interessi dell’Azerbaigian, e della Turchia che lo appoggia. Turchia e Azerbaigian sopravvalutano le loro forze e conducono una politica estera e militare aggressiva. Creando attorno a sé una coalizione di stati regionali.

Come valuti l’attuale politica estera della Turchia? Le sue forze armate sono impegnate in Libia, in Siria e in Iraq, mentre a livello diplomatico è in conflitto con l’Unione europea per le trivellazioni al largo di Cipro. Perché aprire un nuovo fronte?

La politica estera della Turchia moderna può essere valutata come un tentativo di restaurazione dell’influenza imperiale in tutte le regioni legate agli interessi vitali dello Stato turco. Si tratta di una politica aggressiva, con elementi di panislamismo, panturchismo e neo-ottomanesimo.

Nella regione della Transcaucasia, la Turchia ha ceduto la sua leadership alla Russia già nel XIX secolo. Attualmente la Turchia è in competizione con la Russia non solo in questa regione, ma anche in Siria. È vantaggioso per la leadership turca portare la tensione tra Armenia e Azerbaigian al livello di minaccia alla stabilità regionale e agli interessi della Russia, in modo da ottenere uno strumento con cui spingere Mosca a fare concessioni su Idlib.

Sono profondamente convinto che l’Unione europea, Italia compresa, avrebbe dovuto reagire più severamente all’occupazione di Cipro del Nord da parte della Turchia nel 1974.

Da qui, infatti, è partita la rinascita dell’imperialismo turco e adesso l’Europa, il Medio Oriente e la Transcaucasia stanno soffrendo a causa del proseguimento della politica neo-ottomana di Ankara. Allo stesso tempo, la Turchia si serve del suo status di membro della NATO per raggiungere fini egoistici che non riflettono gli interessi della NATO, né dell’Unione europea.

Qual è la posizione di Mosca in tutto questo?

La Russia è un alleato strategico e politico-militare dell’Armenia nella Csto, ma allo stesso tempo la Russia è anche copresidente del Gruppo di Minsk dell’OSCE. In quanto tale, sin dai primi giorni del conflitto ha negoziato con le parti armena e azera per il raggiungimento di un cessate il fuoco e per il ritorno al tavolo dei negoziati. Gli sforzi della mediazione russa hanno avuto successo durante il conflitto dell’aprile 2016. Anche oggi sono in corso azioni volte al ripristino del regime di cessate il fuoco.

Come si posiziona il governo armeno nello scontro tra grandi potenze, Cina e Russia da un lato, Stati Uniti e loro alleati dall’altro? Qual è lo stato dei rapporti tra Armenia e Iran e tra Armenia e Siria?

L’Armenia non si percepisce come parte dello scontro globale tra centri geopolitici. Erevan intrattiene relazioni eccellenti sia con la Russia che con la Cina, nonché con gli Stati Uniti e con l’Unione europea. Costruisce relazioni di fiducia con i suoi vicini, Georgia e Iran. Uno dei fattori che consentono l’attuazione di questa politica multi-vettoriale è rappresentato dall’enorme diaspora armena presente sia in Russia sia negli Stati Uniti, nell’Unione europea e in altri Paesi.

Anche in Siria c’era una grande diaspora armena, formata dai sopravvissuti al genocidio del 1915 nella Turchia ottomana. Comprendeva gli insediamenti secolari degli armeni cattolici, Kessab e i villaggi adiacenti. Si tratta della regione meridionale – l’unica conservatasi – della Cilicia armena, territorio sotto il mandato francese trasferito alla Turchia nel 1939 dalle autorità francesi. Da qui, nello stesso anno, la popolazione armena fu costretta a trasferirsi in Siria e in Libano, a causa della mancanza di garanzie che scongiurassero il ripetersi di un genocidio come quello del 1915.

L’ambasciatore azero in Russia non esclude lo scoppio di un conflitto tra Armenia e Azerbaigian per la riconquista del Nagorno Karabakh.  A tale proposito, migliaia di azeri sono scesi in piazza nei giorni scorsi a Baku chiedendo alle autorità di ordinare la mobilitazione nel Paese. Come si sentono, invece, gli armeni riguardo al rischio che tra le parti possa scoppiare un conflitto di grandi proporzioni?

Manifestazioni simili si svolsero a Sumgait e a Baku negli anni 1988 e 1990, accompagnate da persecuzioni di massa e da uccisioni di armeni che numerosi esperti, anche europei, hanno definito “genocidio”.

Il raduno di Baku del 15 luglio 2020 non è diverso dai raduni di 30 anni fa. Anche gli slogan sono gli stessi: “Morte agli armeni” o “Morte agli infedeli”, ma anche “Russi, iraniani e armeni sono nemici del nostro Paese”. Allo stesso tempo, i manifestanti hanno chiesto che venisse annunciata la mobilitazione, anche questa una prova della volontà di annettere l’Artsakh all’Azerbaigian con la forza, liquidandone la popolazione armena. Questo odio per gli armeni è il risultato di decenni di politica statale dell’Azerbaigian volta alla promozione dell’odio e dell’armenofobia. L’intera identità azera è costruita sull’odio verso l’Armenia, gli armeni e tutto ciò che è armeno. Consentitemi di ricordare che il corteo, formatosi spontaneamente, è stato diretto dalle autorità dell’Azerbaigian, le quali hanno esercitato il loro controllo sia sulla manifestazione che sui suoi risultati, disperdendo tempestivamente eventuali manifestanti dissidenti.

In una situazione di questo tipo, l’unico garante della sicurezza della popolazione armena dell’Artsakh risiede nell’autodeterminazione e nella protezione del diritto a vivere nel proprio Stato sulla propria terra. Da parte sua, la Repubblica di Armenia agisce come garante del diritto all’autodeterminazione dell’Artsakh. L’Armenia non trae alcun beneficio dalla guerra, ma si riserva il diritto di difendere con risolutezza i suoi interessi nazionali e la sicurezza degli abitanti dell’Artsakh.

Vai al sito

 

ARMENIA vs AZERBAIJAN/ Il console armeno: così Erdogan vuole contare di più in Libia (Ilsussidiario 20.07.20)

Anche il Papa è intervenuto durante l’Angelus di domenica dichiarando la preoccupazione per l’improvviso conflitto scoppiato il 12 luglio tra Azerbaijan (paese musulmano e amico della Turchia) e l’Armenia (cristiano ortodosso e alleato della Russia) che fortunatamente sembra essere stato arginato dalla pronta controffensiva armena. Sono stati infatti gli azeri ad attaccare scagliando missili e droni su quattro villaggi armeni, ci ha spiegato Pietro Kuciukian, console onorario armeno in Italia, che però hanno reagito fermando l’attacco. Al momento si registra una situazione di cessata ostilità. I due paesi sono ai ferri corti sin dalla caduta dell’Unione Sovietica, ci ha detto ancora Kuciukan “per via di una enclave armena in territorio azero che con un referendum pacifico ha chiesto l’unione all’Armenia, subendo un violento attacco da parte azera. La questione viene dibattuta in campo internazionale da allora, il 1994, senza aver mai trovato una soluzione. “È possibile che il presidente azero abbia ricevuto un suggerimento da parte turca, la quale ha voluto così mettere pressione alla Russia per quanto riguarda la situazione in Libia, dove i due paesi mirano a spartirsi il territorio”.

Per la prima volta gli azeri hanno attaccato direttamente il territorio armeno e non quello del Nagorno Karabakh, come mai e perché in modo così improvviso, senza alcun apparente motivo?

Hanno attaccato quattro villaggi, ma era tanto tempo che il presidente azero incitava il suo “invincibile esercito” a farlo. La causa specifica di questo attacco per adesso non la sappiamo, qualcuno può avergli suggerito di attaccare oppure no, però è stato un fatto molto grave. L’attacco è partito attorno a un villaggio azero per far sì che se gli armeni avessero reagito, ci sarebbero state vittime tra a civili, il solito deterrente di certi popoli consistente nell’usare come scudi i civili.

Lo abbiamo infatti visto in Siria questo sistema. Gli armeni hanno reagito abbattendo un drone di fabbricazione israeliana e uccidendo anche un generale azero. C’è poi stata la minaccia azera di colpire la centrale nucleare armena.

Una minaccia di gravità estrema, un attacco alla centrale nucleare coinvolgerebbe molte nazioni, sarebbe una Chernobyl in grado di arrivare in Turchia, Grecia, Georgia, anche Iran. Fortunatamente è stata una boutade del ministro della Difesa azero già licenziato.

Resta la gravità dei fatti. Gli armeni sono alleati dei russi e gli azeri dei turchi, i quali già hanno detto di essere pronti a reagire contro gli armeni. Che ne pensa?

Sono le solite parole alle quali non so se possono seguire dei fatti. C’è però il sospetto che l’attacco sia stato istigato dalla Turchia per aver maggior mano libera in Libia nei dialoghi e mettere sotto pressione la Russia.

Dove i due paesi sono su fronti opposti.

Sì, però in Siria vanno d’accordo, fanno pattuglie congiunte sull’autostrada Damasco-Aleppo. È un gioco delle parti, si confrontano e si combattono. È un’alleanza molto strana e anti storica.

Come mai i dialoghi di Minsk sono fermi e non si arriva a una conclusione?

Il presidente dell’Armenia continua auspicare un controllo congiunto di interposizione che controlli i confini. Teniamo conto che l’Azerbaijan è sotto attacco del Covid in modo molto grave anche se non si conoscono le cifre, lanciare un attacco militare con una situazione interna così è molto pericoloso, ma può essere un modo per distrarre la popolazione.

E il gruppo di Minsk?

Il gruppo Minsk lavora da quasi trent’anni ma non riescono a trovare una soluzione. C’è un trattato firmato che definisce l’inviolabilità delle frontiere e l’autodeterminazione dei popoli che sono due convenzioni contrastanti. Nel caso del Nagorno è diverso, l’inviolabilità delle frontiere non è valida se l’autodeterminazione avviene con mezzi pacifici. Gli armeni del Nagorno hanno fatto un referendum decidendo di staccarsi dall’Unione Sovietica, al che gli azeri hanno attaccato violentemente ma gli armeni hanno resistito. Queste due concezioni non riescono mai a mettersi d’accordo. Solo se lo faranno si arriverà a uno stato di pace.

Vai al sito


Papa Francesco “prego per guerra Armenia-Azerbaigian”/ “Cessate il fuoco subito!”

Arriva da Papa Francesco l’allarme globale sulla guerra in corso tra Armenia e Azerbaigian per il controllo del territorio conteso fin dal 1994 del Nagorno-Karabakh: i violentissimi scontri ripresi nelle ultime settimane per la rinnovata acredine del Governo azero (con il presidente in crisi di consensi e tra i migliori alleati della Turchia nella Regione del Caucaso) hanno portato il Santo Padre a lanciare un appello accorato durante l’ultimo Angelus di questa domenica 19 luglio 2020. «Sulla scorta di una recente Risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, rinnovo l’appello ad un cessate-il-fuoco globale e immediato, che permetta la pace e la sicurezza indispensabili per fornire l’assistenza umanitaria necessaria», spiega il Papa non prima di sottolineare più da vicino il caso del Nagorno che preoccupa la comunità internazionale.

L’ALLARME DEL PAPA PER LA GUERRA DEL NAGORNO-KARABAKH

«Seguo con preoccupazione il riacuirsi, nei giorni scorsi, delle tensioni armate nella regione del Caucaso, tra Armenia e Azerbaigian. Mentre assicuro la mia preghiera per le famiglie di coloro che hanno perso la vita durante gli scontri, auspico che, con l’impegno della Comunità internazionale e attraverso il dialogo e la buona volontà delle parti, si possa giungere ad una soluzione pacifica duratura, che abbia a cuore il bene di quelle amate popolazioni», conclude Papa Francesco nell’Angelus da Piazza San Pietro. Il 12 luglio scorso l’attacco militare condotto dall’Azerbaigian ha visto la dura risposta armena e non solo per il Vaticano l’escalation è un pessimo segnala per la già complicata pace in quella regione. Il portavoce del ministero della difesa dell’Azerbaijan ha annunciato di recente che le forze armate azere potrebbero lanciare un attacco missilistico sulla centrale nucleare di Metsamor che si trova in Armenia (ma al confine con la Turchia): il “rischio Chernobyl” è tutt’altro che inventato con l’Armenia che ha richiesto la protezione della comunità internazionale per la situazione del Medio Oriente e del Caucaso, qualora gli azeri lancino effettivamente l’attacco missilistico. «L’Armenia pagherà il prezzo per lo scontro con l’Azerbaigian», ha invece commentato la diplomazia di Ankara.

Non si lasci sola l’Armenia che sta difendendo l’indipendenza del Karabakh (assadakah.com 19.07.20)

di Letizia Leonardi

In piena emergenza covid-19, il 12 luglio scorso, sono ricominciate le ostilità tra l’Armenia e l’Azerbaijan con un attacco azero sulla linea di confine, precisamente  nel distretto di Tavush in Armenia e il distretto di Tovuz nell’Azerbaijan.  Le forze armate azere hanno bombardato abitazioni dei villaggi armeni e anche una fabbrica che produce mascherine anti-covid. Si sono registrati purtroppo anche delle vittime.

Si tratta di un conflitto che ha radici lontane, a quando Stalin, per ingraziarsi i musulmani, cedette temporaneamente il territorio dell’enclave armena del Nagorno Karabakh all’Azerbaijan in attesa di definire la situazione con la Convenzione di Pace che doveva esserci a breve ma che non si è più tenuta. Dopo la dissoluzione dell’URSS tutte le repubbliche che ne facevano parte hanno cercato di riprendersi la propria sovranità. Ciò ha fatto l’Armenia, nel 1991 con un referendum, ciò ha fatto l’Arzerbaigian e anche il Nagorno Karabakh che si è autoproclamata Repubblica indipendente senza però il riconoscimento a livello internazionale e soprattutto senza quello dell’Azerbaijan. Negli anni ’91-’92 l’Armenia e l’Azerbaijan o Albania caucasica (come la definiscono alcuni) hanno combattuto una terribile guerra con migliaia di morti. Nel 1994 è stata firmata una pace ma cecchini azeri contro i soldati armeni sono sempre al confine e i due eserciti sono schierati. L’esercito armeno è presente per rivendicare l’indipendenza della piccola enclave, che chiamano Artsakh, e l’esercito azero per ribadire la propria sovranità sul territorio. Ha sintetizzato molto bene la questione, in un suo articolo (Su Ln International),  lo storico Bruno Scapini, già Ambasciatore d’Italia e Presidente Onorario e Consulente Generale dell’Associazione Italo-armena per il Commercio e l’Industria che ha precisato che «la via dell’indipendenza  è stata percorsa in virtù della legge sovietica sulla ”Secessione degli Stati” approvata dal Soviet Supremo dell’URSS il 3 aprile del 1990. Un diritto, quello sancito da questa legge, di cui si è naturalmente avvalso l’Azerbaijan per proclamarsi indipendente, senza per contro che venisse riconosciuto lo stesso diritto al territorio autonomo del Karabakh. Ecco in estrema sintesi, e aldilà di considerazioni surrettizie e pretestuose, il vero oggetto del contendere».

Mentre la Turchia si è detta pronta ad affiancare l’Azerbaijan in caso di guerra, tutte le altre istituzioni internazionali hanno reagito invitando le parti a un immediato cessate-il-fuoco. Papa Francesco si è dichiarato fortemente preoccupato. Sul fronte italiano invece c’è purtroppo un assordante silenzio: non c’è una presa di posizione netta e chiara. Purtroppo i Governi dei vari Paesi sono più  interessati ai risvolti economici, alle fonti energetiche dell’Azerbaijan piuttosto che al rispetto della libertà e indipendenza del territorio del Nagorno Karabakh. Lo storico Scapini scrive: «In questo quadro internazionale, sorprende come proprio le Nazioni Unite abbiano adottato sul Karabagh le Risoluzioni del 1993, e più recentemente la n. 62/243 del 2008 (peraltro rigettata dai mediatori dello stesso Gruppo di Minsk),  in totale disprezzo di una imparziale quanto obiettiva valutazione di quel principio di libertà  tanto prima sbandierato dalla medesima Organizzazione per oltre mezzo secolo! Ma la memoria è corta in certi casi, e a fronte della determinata volontà del popolo armeno del Karabagh ci si ostina ancor oggi a non riconoscere le storiche verità vedendo addirittura qualcuno  nell’indipendenza del Kosovo un pericolosissimo precedente per la minaccia alla integrità territoriale degli Stati».

In tutti questi anni l’Armenia ha adottato una strategia di difesa respingendo gli attacchi ma la minaccia del Ministro della Difesa dell’Azerbaijan che ha ufficialmente dichiarato che le forme armate azere potrebbero lanciare attacchi missilistici contro la Centrale Nucleare di Metsamor in Armenia, rischia di trasformare l’azione di difesa armena in azione d’attacco per scongiurare una catastrofe umana e ambientale e salvaguardare un’area particolarmente strategica per l’Europa per il transito di importantissime condotte energetiche. Per questo è di fondamentale importanza l’intervento dell’UE e di tutti gli Stati per risolvere una volta per tutte questa spinosa questione che si trascina ormai da troppi anni e ha sacrificato anche diverse vite di giovani soldati

vai al sito

Armenia, Papa allarmato per attacco militare dell’Azerbajian: «Rinnovo cessate il fuoco globale» (Ilmessaggero.it 19.07.20)

Città del Vaticano – Soffiano minacciosi venti di guerra nel Caucaso: il Papa teme che l’attacco militare dell’Azerbaijan contro l’Armenia nella zona di confine, con scontri e artiglieria pesante, possa allargarsi. All’Angelus ha lanciato un drammatico appello alla comunità internazionale ad intervenire e a ricorrere alla via del dialogo.

«Rinnovo un cessate il fuoco globale che permetta la pace la sicurezza indispensabili per fornire assistenza umanitaria necessaria» alle popolazioni che si trovano in paesi in guerra. «Seguo con preoccupazione il riacuirsi delle tensioni armate nella regione del Caucaso, tra Armenia e Azerbaigian. Assicuro le mie preghiere per coloro che hanno perso la vita durante gli scontri e auspico che con l’impegno della comunita’ internazionale e il dialogo tra le parti si possa giungere ad una soluzione pacifica e duratura che abbia a cuore il bene di quelle amate popolazioni» ha detto.

Il Papa all’Angelus: «Non è compito nostro sopprimere i malvagi ma quello di salvarli»

L’attacco – come hanno evidenziato le agenzie internazionali – è stato lanciato il 12 luglio dalle forze rmate azere. In passato gli scontri si sono sempre concentrati nella zona del Nagorno, ma stavolta l’azione militare ha preso di mira il territorio sovrano dell’Armenia. Anche per il Vaticano è un pessimo segnale. Secondo diversi report arrivati Oltretevere sono stati bombardati alcuni paesini con artiglieria e droni, distruggemdo infrastrutture, case, danneggiando persino la ditta che produceva mascherine contro il Covid.

L’escalation sembra essere il frutto di una serie di concause politiche, come la massiccia propaganda del presidente Azero, in difficoltà internamente per una progressiva perdita di consensi. Ma tutto è da stabilire.

Nei giorni scorsi il portavoce del ministero della difesa dell’Azerbaijan ha annunciato che le forze armate azere avrebbero potuto lanciare un atttacco missilistico sulla centrale nucleare di Metsamor che si trova in Armenia (al confine con la Turchia). Se la centrale nucleare armena fosse colpita da missili azeri sarebbe possibile una pericolosa dispersione di materiale radioattivo che, in stile Chernobyl, non si fermerebbe ai soli paesi confinanti, tra cui la Turchia, ma anche a tutto il Medio Oriente.

L’Armenia chiede alla comunità internanale un sistema di monitoraggio credibile, e al Gruppo di Minsk di intervebire. La Turchia allineata con l’Azerbaigian ha promesso che l’Armenia «Pagherà il prezzo» per lo scontro con l’Azerbaigian.

Vai al sito


 

Francesco: prego per il Caucaso, si arrivi a una pace duratura (Vaticannews 19.07.20)

Francesco ha detto che “sulla scorta di una recente risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite”, rinnova “l’appello a un cessate-il-fuoco globale e immediato…. seguo con preoccupazione il riacuirsi nei giorni scorsi delle tensioni armate nella regione del Caucaso tra Armenia e Azerbaigian”. La preghiera del pontefice per le famiglie di coloro che hanno perso la vita durante gli scontri

Alessandro Guarasci – Città del Vaticano

Dal Papa nel post Angelus un nuovo appello per la pace nel mondo:

In questo tempo in cui la pandemia non accenna ad arrestarsi, desidero assicurare la mia vicinanza a quanti stanno affrontando la malattia e le sue conseguenze economiche e sociali. Il mio pensiero va specialmente a quelle popolazioni le cui sofferenze sono aggravate da situazioni di conflitto.

Dunque, sulla scorta di una recente risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, Francesco ha rinnovato “l’appello a un cessate-il-fuoco globale e immediato, che permetta la pace e la sicurezza indispensabili per fornire l’assistenza umanitaria necessaria”.

Il Pontefice in particolare, ha detto di seguire “con preoccupazione il riacuirsi nei giorni scorsi delle tensioni armate nella regione del Caucaso tra Armenia e Azerbaigian. Mentre assicuro la mia preghiera per le famiglie di coloro che hanno perso la vita durante gli scontri, auspico che con l’impegno della comunità internazionale e attraverso il dialogo e la buona volontà delle parti, si possa giungere a una soluzione pacifica duratura, che abbia il bene di quelle amate popolazioni”.  (Ascolta il servizio con la voce del Papa)

Giovedi scorso, sono ripresi, dopo una breve tregua, gli scontri armati al confine fra Armenia e Azerbaigian, secondo quanto hanno dichiarato  i governativi dei due Paesi caucasici. Nei bombardamenti sarebbero morte almeno 16 persone, per lo più militari.


Il Papa: urgente un “cessate il fuoco” globale per fornire assistenza umanitaria nelle zone di guerra (Ilsecolo XIX)

 

Un  “cessate il fuoco” immediato in tutti e cinque i continenti per permettere di fornire, in sicurezza, l’assistenza umanitaria necessaria ai Paesi già piagati da estenuanti conflitti e ora sofferenti per le conseguenze del Covid-19. Papa Francesco rinnova l’appello già lanciato nell’Angelus dello scorso 5 luglio, col quale dava pieno sostegno alla Risoluzione adottata dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu che chiedeva una tregua globale nelle zone già teatro di guerra.

Dalla finestra del Palazzo Apostolico vaticano, il Papa ricorda la storica mozione approvata da 135 Paesi e, «in questo tempo in cui la pandemia non accenna ad arrestarsi», assicura la sua vicinanza a «quanti stanno affrontando la malattia e le sue conseguenze economiche e sociali». Il pensiero va in particolare «alle popolazioni le cui sofferenze sono gravate da situazioni di conflitto».

Su questa scia, Jorge Mario Bergoglio esprime preoccupazione per il riacuirsi del conflitto tra Azerbaijan e Armenia, riesploso nei giorni scorsi per la contesa, ormai decennale, del controllo della regione del Nagorno-Karabakh, formalmente appartenente a Baku ma di fatto sotto il controllo armeno. Durante duri scontri armati lungo il confine settentrionale sono morti finora 16 persone, per lo più militari, rimasti uccisi durante cannoneggiamenti reciproci.

Il Pontefice, dicendosi preoccupato per le «tensioni armate nella regione del Caucaso», assicura «la preghiera per le famiglie di coloro che hanno perso la vita durante gli scontri». Poi auspica «che con l’impegno della comunità internazionale e attraverso il dialogo e la buona volontà delle parti si possa giungere a soluzione pacifica e duratura che abbia a cuore il bene di quelle amate popolazioni».

Di guerre il Papa parla anche durante la catechesi dell’Angelus, incentrata sul Vangelo di oggi. Non sono gli scontri armati, ma quelle guerre nelle famiglie e nei quartieri generati da gente, che si professa anche cristiana, che «semina zizzania». «Un termine che riassume tutte le erbe nocive», spiega. Le stesse che, a livello spirituale, sono sparse oggi nella società e nella Chiesa e, a livello fisico, in tanti terreni. «Il terreno oggi è devastato da diserbanti ed erbicidi che fanno il male alla terra e alla salute», afferma il Papa, parlando per metafore.

C’è nell’uomo la tentazione di «seminare il male che distrugge», aggiunge. Bastano anche solo le «chiacchiere» per rompere l’armonia: «Tante volte abbiamo sentito che in una famiglia in pace iniziano le guerre, le invidie, che in un quartiere in pace iniziano le cose brutte. Siamo abituati a dire che qualcuno è venuto lì a seminare zizzania… Quella persona in famiglia ha seminato zizzania», spiega Francesco.

È Gesù a mettere in guardia i discepoli da coloro che spargono «zizzania per ostacolare la crescita del grano». Questi fanno il gioco dell’«avversario», «il diavolo», «l’oppositore per antonomasia di Dio», il quale «approfitta dell’oscurità della notte e opera per invidia, per ostilità, per rovinare tutto».

«Il suo intento è quello di intralciare l’opera della salvezza, far sì che il Regno di Dio sia ostacolato da operatori iniqui, seminatori di scandali», sottolinea il Papa. Tuttavia, anche con i «malvagi» Dio usa pazienza e misericordia. «Il male, certo, va rigettato, ma i malvagi sono persone con cui bisogna usare pazienza. Non si tratta di quella tolleranza ipocrita che nasconde ambiguità, ma della giustizia mitigata dalla misericordia. Se Gesù è venuto a cercare i peccatori più che i giusti, a curare i malati prima ancora che i sani, anche l’azione di noi suoi discepoli dev’essere rivolta non a sopprimere i malvagi, ma a salvarli», dice Papa Francesco.

Il Signore invita quindi ad assumere uno sguardo diverso che è «quello che si fissa sul buon grano, che sa custodirlo anche tra le erbacce». «Non collabora bene con Dio chi si mette a caccia dei limiti e dei difetti degli altri, ma piuttosto chi sa riconoscere il bene che cresce silenziosamente nel campo della Chiesa e della storia, coltivandolo fino alla maturazione», rimarca Papa Francesco. «Sarà Dio, e solo Lui, a premiare i buoni e punire i malvagi».


Papa Francesco appoggia l’appello ONU “per un cessate il fuoco globale” per vincere il Covid. Preoccupazione per la crisi tra Azerbaigian e Armenia  (Farodiroma)

Papa Francesco ha rinnovato l’appello delle Nazioni Unite “per un cessate il fuoco immediato e globale che permetta la pace la sicurezza indispensabili per fornire assistenza umanitaria necessaria” alle popolazioni che si trovano in paesi in guerra e che devono affrontare anche la minaccia del coronavirus.

“Seguo con preoccupazione il riacuirsi delle tensioni armate nella regione del Caucaso, tra Armenia e Azerbaigian. Assicuro le mie preghiere per coloro che hanno perso la vita durante gli scontri e auspico che con l’impegno della comunita’ internazionale e il dialogo tra le parti si possa giungere ad una soluzione pacifica e duratura che abbia a cuore il bene di quelle amate popolazioni”, ha sottolineato il Papa dopo l’Angelus in piazza San Pietro.

“La pandemia – ha affermato il Pontefice – non accenna ad arrestarsi, la mia vicinanza va a chi affronta la malattia e le sue conseguenze economiche e sociali, in particolare le popolazioni che vivono un conflitto”.

Il 2 luglio scorso il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha adottato all’unanimità una risoluzione che sollecita un cessate il fuoco globale di 90 giorni per rafforzare la lotta contro il coronavirus.

La risoluzione è passata all’unanimita’ con 15 voti dei membri e dopo gli inutili negoziati dall’inizio della pandemia e chiede “una tregua immediata delle ostilità in tutte le situazioni”.
Il primo appello per un cessate il fuoco globale era stato lanciato il 23 marzo dal segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres. Il risoluzione non include la lotta contro Daesh, Al Qaeda, Al Nusra e individui e gruppi collegati a tali organizzazioni terroristiche.

Da alcuni giorni – spiega AsiaNews – è riesploso l’eterno conflitto tra Armenia e Azerbaigian. Dopo i tentativi di pacificazione nei mesi della pandemia. Il 12 luglio scorso, le due parti si sono reciprocamente accusate di aver aperto il fuoco nella provincia di Tovuz, sul confine tra i due Paesi. Da allora la tensione nella zona non diminuisce, e si contano i primi morti. La mattina del 14 luglio il ministero della Difesa dell’Azerbaigian ha comunicato la morte di un generale maggiore e di un colonnello, in seguito a una sparatoria da parte armena; le agenzie parlano di altre cinque vittime, compresi due ufficiali. Anche le forze armate armene hanno ammesso la perdita di due soldati frontalieri, il maggiore Garush Ambartsumyan e il capitano Sosa Elbakyan.

Nonostante l’apparente superiorità delle forze azerbaigiane, la cui popolazione supera di varie volte quella dello Stato armeno. Gli azeri sono particolarmente frustrati dal numero delle vittime: il ministro della Difesa Ragim Gaziev ne aveva dichiarate 12, ma in effetti le vittime sono poco meno. Eppure egli è stato arrestato con l’accusa di tradimento degli interessi del Paese.
La Russia non rimane indifferente al conflitto in una regione ex-sovietica così strategica, ai confini tra Europa e Asia; il portavoce di Putin, Dmitrij Peskov, ha già dichiarato che la Russia è pronta a organizzare una mediazione tra i due contendenti. Il timore è che gli scontri possano portare a un’escalation secondo la legge “dell’occhio per occhio”.

Lo scorso 14 luglio, nel centro di Baku, la capitale azera, vi sono state manifestazioni di massa in difesa delle forze armate. Al grido di “Il Karabakh è nostro!”, e “Soldati, avanti!”, la folla ha cercato di invadere il palazzo del parlamento, e la polizia ha effettuato decine di arresti. Azioni simili si sono svolte in diverse città dell’Azerbaijian.

Secondo le dichiarazioni dell’ambasciatore dell’Azerbaijian a Mosca, Aleksandr Aleshkin, gli armeni intendono porre ostacoli alla politica estera del suo Paese, che cerca di superare l’isolamento internazionale, cercando di coinvolgere l’Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva tra i Paesi ex-sovietici (ODKB), di cui l’Azerbaigian – a differenza dell’Armenia – non fa parte.
A loro volta gli armeni, secondo le parole dell’ex-ministro della difesa Seyran Oganyan, accusano gli azeri di voler forzare le trattative di pace per ottenere dei vantaggi a livello internazionale.

Conflitto Armenia-Azerbaigian, Baykar Sivazliyan: “Tavush non è una regione azera” (Sardegnagol 19.07.20)

Recentemente il Presidente della delegazione parlamentare italiana presso il Consiglio d’Europa, Alvise Maniero, ha espresso grande preoccupazione per l’aggravamento della situazione al confine tra l’Armenia e l’Azerbaigian, esortando entrambe le parti a fermare lo scontro armato e a rispettare rigorosamente il ‘cessate il fuoco’.

Nei giorni scorsi l’Ambasciatore della Repubblica dell’Azerbaigian, Mammad Ahmadzada, era intervenuto in merito agli ultimi violenti scontri, con una lettera inviata alla nostra redazione, evidenziando l’attuale scenario nell’area caucasica interessata dal conflitto e chiedendo alla comunità internazionale “di condannare fermamente l’aggressione militare dell’Armenia contro l’Azerbaigian e le sue azioni provocatorie perpetrate lungo il confine”.

Oggi, il Presidente dell’Unione degli Armeni d’Italia*, Baykar Sivazliyan, ha rilasciato un’intervista in cui spiega il punto di vista della Comunità armena, sul conflitto con l’Azerbaigian.

Presidente Sivazliyan, recentemente al confine settentrionale tra l’Armenia e L’Azerbaigian sono riesplose le ostilità. Qual è il punto di vista dell’Unione degli Armeni d’Italia?

Durante il periodo sovietico, in particolare durante il periodo staliniano, intere regioni abitate da etnie diverse venivano incluse nelle 15 repubbliche sovietiche socialiste con lo scopo di poter essere tenute sotto controllo.
Una di queste regioni, assorbita dalla Repubblica Sovietica dell’Azerbaigian, fu il Nagorno Kharabakh (Artsakh in armeno).

Bayakar SivazliyanQuesto territorio, popolato pressoché interamente da armeni, decise di staccarsi dall’amministrazione della Repubblica Socialista Sovietica Azera e di unirsi alla Repubblica Socialista Sovietica Armena attraverso un referendum che ebbe luogo il 10/12/1991.
Dopo pochi giorni, il 26/12/1991, ebbe luogo il crollo dell’Unione Sovietica e le forze azere , ben armate e molto più numerose rispetto a quelle armene, attaccarono le zone abitate dagli armeni.
I pogrom organizzati dai nazionalisti azeri fecero migliaia di morti, il centro di tali crimini fu la città petrolifera di Sumgait, vicino a Baku, lontana centinaia di chilometri dal Nagorno Kharabakh.
Si evince dunque il chiaro intento genocidario nei confronti del popolo armeno.
Iniziò una guerra che culminò con la sconfitta degli azeri nel 1993, i quali chiesero una tregua attraverso l’intermediazione russa e nonostante questa richiesta fino ad oggi continuano ad invadere le frontiere armene e il Nagorno Kharabakh.

Nel 2016 gli azeri attaccarono un villaggio di contadini armeni, trucidando dei coniugi anziani, tagliando loro le orecchie, rituale caucasico utilizzato con i cuccioli di cane appena nati…
La Dinastia Aliyev, in carica da più di un quarto di secolo, ogni qual volta ha delle difficoltà interne risolleva la questione del Nagorno Kharabakh fomentando presso il proprio popolo violente proteste e manifestazioni .
Il popolo azero viene istigato ad essere Armenofobo e dunque si sente legittimato a doversi difendere dal “nemico armeno” e ad invadere la terra armena.

Chiesa di San Gregorio Illuminatore, Livorno, foto Etienne licenza CC BY-SA 3.0Desideriamo far presente che la regione di Tavush, teatro delle ostilità degli ultimi giorni, dista centinaia di chilometri dal Nagorno Kharabakh e tale regione è parte della Repubblica d’Armenia.

Pensiamo che i gravi problemi interni che attanagliano l’Azerbaigian, come anche quelli che assillano oggi la Turchia, possono essere risolti soltanto con un maggiore radicamento della democrazia e con il ripristino del rispetto nei confronti dei diritti umani.

Secondo voi la Turchia sta cercando di creare instabilità nella regione, nonostante la richiesta per il cessate il fuoco del Segretario Generale delle Nazioni Unite. Avete degli elementi per provare la responsabilità del Governo turco?

La Turchia, è governata da un sistema liberticida. I turchi più eruditi ed illuminati di nostra conoscenza si trovano in carcere o in esilio all’estero. Le mire espansionistiche della Turchia , oltre ad essere pseudo-ottomane , costituiscono il preludio di un futuro nefasto.
In seguito alla presenza turca in Siria e in Iraq, è venuto il momento della Libia. Esistono basi militari turche in ben 14 paesi del mondo e l’Europa non vede o finge di non vedere cosa sta accadendo.

Avete dichiarato che è l’Azerbaigian a violare la tregua armata. Gli azeri dicono lo stesso dell’Armenia…

Purtroppo la diplomazia, nata come arte di gran raffinatezza e dignità, negli ultimi decenni ha perso il proprio valore. I fatti sono davanti agli occhi di tutto il mondo: Tavush non è una regione azera, cosa ci facevano lì le forze speciali elitarie azere “Yashmà”, addestrate nei campi militari turchi? Oltretutto non hanno nemmeno conseguito alcun successo…

Unione degli Armeni d'ItaliaGli Armeni sono interessati ai territori azeri?

Nella storia millenaria del popolo armeno non è mai accaduto che gli armeni andassero oltre i confini della loro terra storica. Invece gli azeri hanno sempre fatto e continuano a fare il contrario…

Perchè considerate il Nagorno Kharabagh territorio armeno?

Noi armeni visitiamo varie volte all’anno questa bellissima terra.
Esistono quattro moschee : la più antica è quella di Shushi e si chiama Moschea di Juma, è un bellissimo edificio costruito dai persiani nel 1768, nello specifico da Ibrahim Khan, che non ha nulla a che vedere con gli azeri.
Esistono centinaia di chiese e cappelle armeno-cristiane risalenti anche al IV secolo d.C. , come ad esempio il Monastero di Amaras. Mi dica Lei a chi apparteneva e deve appartenere questa terra?

Cosa ne pensate del gruppo di Minsk? Dove la diplomazia ha peccato in questi anni per l’Unione degli Armeni?

Il lavoro del Gruppo di Minsk, con i suoi alti e bassi, in questi anni è stato quello più utile per entrambe le parti, non parlerei di un fallimento. I tre paesi coinvolti, USA, Russia e Francia, hanno ottimi rapporti con entrambe le parti in causa. Pensiamo che i due governi dovrebbero essere più sensibili ai suggerimenti del Gruppo, ma come dicevo prima, deve cambiare la visione politica azera, dev’essere più democratica.

Questa difficile operazione ha avuto luogo in Armenia nell’aprile del 2016, attraverso la Rivoluzione di Velluto del giovane dissidente Pashinyan, attuale Primo Ministro Armeno, che malgrado le oggettive difficoltà correnti, non parla con Aliyev utilizzando il linguaggio minaccioso che il Presidente Azero utilizza con l’Armenia.
Ad esempio un paio di giorni fa Aliyev ha esplicitato il prossimo obiettivo armeno da colpire: la Centrale termonucleare di Medzamor, distante 20 chilometri dalla frontiera turca.
L’eventuale mossa militare causerebbe un grave danno al suo alleato e amico Erdogan…

Unione degli Armeni d'ItaliaE’ veramente impossibile una convivenza pacifica tra Armeni e Azeri nel Caucaso?

La convivenza è sicuramente possibile, basterebbe che lo stato azero non insegnasse e non inculcasse il sentimento di odio nei cuori dei propri cittadini.
Abbiamo letto la dichiarazione del presidente del Daghestan, Ramzan Kadyrov, un islamico osservante del Caucaso del Nord, che supplicava i due presidenti dell’Armenia e dell’Azerbaigian, di ripristinare la Pace.
Noi armeni, tutti, figli e nipoti dei sopravvissuti al Primo Genocidio del Ventesimo Secolo, conosciamo il vero valore della Pace e della Convivenza.
Quando gli interessi personali, lasceranno posto alla giustizia e alla libertà, quando i diritti umani saranno rispettati in tutti i paesi contendenti, sarà sicuramente più facile parlare, riflettere e trovare le giuste soluzioni.

Vai al sito

Ritorni di guerra tra Armenia e Azerbaijan: una considerazione (Ln-international 18.07.20)

La notizia, recentemente giunta dal Caucaso di una ripresa delle ostilità tra l’Armenia e l’Azerbaijan a riguardo del conteso territorio del Nagorno Karabagh, colpisce, ma non ci sorprende.

E’ lo stesso copione che guida insistentemente lo svolgimento del conflitto con ripetuti tentativi di guerra dopo, ammettiamolo pure, il fallimento della mediazione internazionale condotta in primis dall’OSCE con il Gruppo di Minsk.

L’aggressione infatti, consumatasi domenica 12 luglio direttamente sul confine tra i due Paesi, tra le località di Tavush in Armenia e Tovuz in Azerbaijan, peraltro reciprocamente contestata con rimbalzo di responsabilità da parte dei due Governi, confermerebbe ancora una volta lo stallo “tecnico” del processo di pacificazione avviato ormai, ma senza successo, da oltre vent’anni in seno all’OSCE.  Un processo, questo, che non riesce a focalizzare, né tanto meno a far riconoscere, il vizio primigenio di una mediazione fondata sulla inconciliabilità di due principi internazionali fondamentali: da un lato l’integrità territoriale degli Stati, sostenuto da Baku, dall’altro quello dell’autodeterminazione dei popoli voluto da Yerevan.

Superfluo, per fare il punto oggi sulla situazione, ricapitolare tutta la storica vicenda dei rapporti tra Armenia e Azerbaijan per il controllo del Nagorno Karabagh, territorio originariamente armeno e popolato essenzialmente da armeni. Basti tuttavia osservare, per obiettività di cronaca, come la conquista di una propria sovranità e indipendenza sia stato l’obiettivo dichiarato e conseguito da tutte quelle repubbliche ex sovietiche, e dalle regioni a queste interne con vocazioni autonomistiche come il Karabagh, che all’indomani della dissoluzione dell’URSS hanno intrapreso la via dell’indipendenza in virtù della legge sovietica sulla ”Secessione degli Stati”  approvata dal Soviet Supremo dell’URSS il 3 aprile del 1990. Un diritto, quello sancito da questa legge, di cui si è naturalmente avvalso l’Azerbaijan per proclamarsi indipendente, senza per contro che venisse riconosciuto lo stesso diritto al territorio autonomo del Karabagh. Ecco in estrema sintesi, e aldilà di considerazioni surrettizie e pretestuose, il vero oggetto del contendere. Ma i Governi e i circoli politici  interessati più alle fonti energetiche dell’Azerbaijan che al riconoscimento dei valori di libertà, dimenticano molto spesso che l’affermarsi di un mondo prevalentemente libero negli ultimi settant’anni sia stato possibile solo grazie a quel principio di autodeterminazione dei popoli di cui proprio le Nazioni Unite si sono fatte paladino per affrancare dal colonialismo interi continenti. E in questo quadro internazionale, sorprende come proprio le Nazioni Unite abbiano adottato sul Karabagh le Risoluzioni del 1993, e più recentemente la n. 62/243 del 2008 (peraltro rigettata dai mediatori dello stesso Gruppo di Minsk),  in totale disprezzo di una imparziale quanto obiettiva valutazione di quel principio di libertà  tanto prima sbandierato dalla medesima Organizzazione per oltre mezzo secolo! Ma la memoria è corta in certi casi, e a fronte della determinata volontà del popolo armeno del Karabagh ci si ostina ancor oggi a non riconoscere le storiche verità vedendo addirittura qualcuno  nell’indipendenza del Kosovo un pericolosissimo precedente per la minaccia alla integrità territoriale degli Stati.

L’esasperazione del popolo armeno è alta di fronte a simili episodi di guerra che ormai si ripetono con ricorrenza. E se da una lato il prolungarsi di una situazione di stallo nel processo di pace non giova di certo all’Armenia che rischia, per la pubblica opinione, di vedersi trasformare e capovolgere la sua linea di difesa addirittura in aggressione, dall’altro si dovrebbe da parte di tutti i Governi occidentali ed europei interessarsi più da vicino all’evolversi di questa crisi caucasica onde evitare che l’Armenia messa alle strette da aggressioni portate direttamente sul suo stesso  territorio e con vittime civili, come è stato il caso coi fatti del 12 luglio scorso, reagisca mutando con la forza ancora una volta i confini in un’area per giunta particolarmente strategica per l’Europa per via del transito di importantissime condotte energetiche.

             La Storia dell’Umanità, come ben sappiamo, è stata segnata da un continuo mutamento dei confini; guerre, rivoluzioni, rivolte, insurrezioni  hanno da sempre puntato a cambiare a seconda degli interessi in gioco le frontiere tra le Nazioni, ma il fine ultimo dei tanto invocati processi di libertà non è mai cambiato, è stato invece sempre lo stesso: conseguire una propria autonomia e una sovrana indipendenza!

Ecco, dunque, che la questione del Nagorno Karabagh, a distanza ormai di oltre un ventennio dallo scoppio della guerra, ci ripropone in tutta la sua drammaticità il dilemma di quale principio debba sacrificarsi e quale debba prevalere. Ma per noi non c’è dubbio: sono i confini al servizio dei popoli e non il contrario!

Bruno Scapini

già Ambasciatore d’Italia

Presidente Onorario e Consulente Generale

Ass.ne Italo-armena per il Commercio e l’Industria

Vai al sito

AZERBAIGIAN: Cancellata la storia armena in Nachicevan (Eastjournal 18.07.20)

Nel dicembre del 2005 un gruppo di uomini è intento a distruggere le khachkar – croci di pietra scolpite – di un antico cimitero armeno a Culfa, una cittadina azera sulle sponde dell’Aras, il corso d’acqua che segna il confine tra Azerbaigian e Iran. Le khachkar, una volta estratte dal suolo e frantumate, vengono buttate nel letto del fiume, a pochi metri di distanza. Dal lato iraniano della frontiera un uomo riprende quanto sta avvenendo e quelle immagini sgranate faranno presto il giro del mondo.

Inizialmente, arrivano le condanne internazionali, come quella del parlamento europeo; la distruzione in corso a Culfa non è una novità, ma si tratta dell’ultimo atto di un processo iniziato negli anni novanta. Come spesso accade, però, il tutto passa presto nel dimenticatoio. Nel frattempo a Denver, negli Stati Uniti, Simon Maghakyan viene a sapere di questi fatti da un sito di informazioni russo. L’evento segnerà la sua vita negli anni a venire, dando inizio a una ricerca decennale.

Il Nachicevan

Osservando una cartina politica del Caucaso meridionale, si nota una particolarità, una exclave azera separata dal resto del paese dall’Armenia. Si tratta  della  Repubblica Autonoma di Nachicevan, il territorio dove si trova Culfa.

Fonte: Wikipedia

Nonostante il suo isolamento, il Nachicevan riveste una importanza particolare per l’Azerbaigian. Nella regione si trovano, infatti, importanti testimonianze della storia azera. Inoltre, è la terra di origine dell’attuale presidenteIlham Aliyev, e dei suoi due predecessori, il padre Heydar e Abulfaz Elchibey.

Un’altra popolazione storica della zona è quella armena, presente con numeri sempre più ridotti in epoca sovietica, per poi sparire negli anni del conflitto per il controllo del Nagorno-Karabakh. Per effetto della guerra irrisolta con l’Armenia, il Nachicevan è oggi raggiungibile dalla madrepatria solo per via aerea o con un lungo giro attraverso l’Iran.

La fine della convivenza tra armeni e azeri che ha per lungo tempo caratterizzato la regione, ha comportato anche la cancellazione sistematica di tutte le testimonianze architettoniche della storia armena in Nachicevan di cui la distruzione del cimitero di Culfa è solo la punta dell’iceberg.

Una ricerca decennale

Maghakyan, intervistato da East Journal nel corso della stesura di quest’articolo, è un americano di origine armena. La sua famiglia ha lasciato l’Armenia nei primi anni duemila, quando Simon aveva sedici anni. Nel 2005, venendo a sapere di quanto stava avvenendo a Culfa, gli sono affiorati alle mente i racconti del padre che, in epoca sovietica, aveva visitato “il più grande cimitero armeno medievale del mondo” accompagnato  da amici azeri.

Da allora si è impegnato per fare in modo che la distruzione del patrimonio architettonico armeno in Nachicevan non passasse sotto silenzio. “Mi disturbava il fatto che l’Armenia non potesse arrestare il processo, il mondo non prestasse attenzione e l’Azerbaigian negasse il tutto” spiega Maghakyan. “La comunità armena è ancora alle prese con il negazionismo turco del genocidio armeno e adesso che stavamo subendo un altro torto, non facevamo niente per contrastare il negazionismo azero”, aggiunge.

Motivato da quello che  definisce come un “senso di colpa”, Maghakyan ha lavorato più di dieci anni con l’archeologa Sarah Pickman per documentare in modo accurato la distruzione. Base di confronto della lora analisi, è il lavoro dello storico Argam Ayvazyan che tra il 1964 e il 1987 ha catalogato e fotografato il patrimonio architettonico armeno del Nachicevan.

I risultati delle ricerche di Maghakyan e Pickman sono raccolti in un articolo sul portale Hyperallergic, in cui si parla dell’abbattimento di 89 chiese, 5840  khachkar e 22 mila pietre tombali in tutta la regione. Al di là dei numeri, gli autori hanno raccolto una serie importante di testimonianze fotografiche.

Secondo Maghakyan le immagini sono la parte più importante del suo lavoro, in quanto constituiscono l’elemento che con maggiore facilità può fare breccia sul grande pubblico. Le fotografie si possono visualizzare sull’articolo di Hyperallergic oltre che sulla pagina Facebook Djulfa.com e colpiscono nella loro dura semplicità.

Scatti satellitari prima e dopo la distruzione del cimitero di Culfa, chiese e cattedrali in tutto il Nachicevan al cui posto sono sorte moschee o delle quali è rimasta solo una distesa di terra. Gli esempi sono innumerevoli e piuttosto lampanti. Ciononostante, Nasimi Aghayev, console azero a Los Angeles, interrogato da L.A. Times sul lavoro di Maghakyan lo ha definito come “il prodotto dell’immaginazione dell’Armenia”.

La chiesa del Santo Precursore ad Abrakunis tra il 1979 e il 1981 (fonte: Argam Ayvazyan archive).

 

La moschea sorta al posto della chiesa dopo il 2005 (fonte: Djulfa.com).

La cancellazione di una storia condivisa

Viste le sue dimensioni, tutto lascia pensare che il governo azero fosse al corrente se non il committente della distruzione, ormai completata, dei monumenti.

Tuttavia, Baku ha sempre respinto qualsiasi accusa. Alcuni, come lo stesso Aghayev, hanno messo in dubbio l’esistenza stessa di un patrimonio architettonico armeno nella regione, accusando, al contempo l’Armenia di aver distrutto moschee e cimiteri islamici sul suo territorio e nelle aree dell’Azerbaigian sotto l’occupazione armena per effetto della guerra del Nagorno-Karabakh. Altri, per esempio, Zaur Ibragimli, uno scienziato politico di Culfa, hanno ammesso l’esistenza di cimiteri cristiani nella zona, ascrivendoli però alla civiltà albana del Caucaso, argomentazione sempre gettonata quando in ballo ci sono conflitti territoriali. Infine, c’è chi ha semplicemente negato la presenza di una  popolazione armena in Nachicevan. Nel 2006, il governo di Baku ha impedito a una delegazione del parlamento europeo di visitare l’area, cosa che ha, di fatto, chiuso il dibattito internazionale sull’argomento.

Non tutti in Azerbaigian hanno, però, accettato passivamente che la storia armena della regione venisse cancellata. Lo scrittore Akram Aylisli – di cui abbiamo scritto qui – già nel 1997 ha inviato un telegramma all’allora presidente Heydar Aliyev per condannare i danni fatti alle chiese e ai cimiteri di Aylis, il suo villaggio natale in Nachicevan.

Distruggere questi monumenti, significa cancellare secoli di storia condivisa. Durante la guerra in Nagorno-Karabakh, la minoranza azera in Armenia è fuggita in Azerbaigian nel frattempo abbandonato  dalla sua comunità armena. Questo ha fatto sì che nei due paesi una generazione sia cresciuta nell’odio reciproco e senza sapere che una vita in una società multietnica, pur con tutti i suoi problemi, era possibile.

Testimoniare dell’esistenza di una comunità armena in Nachicevan non significa mettere in discussione la sovranità azera della regione, modo di pensare piuttosto comune in Armenia. Raccontare questa storia serve, piuttosto, a condannare l’atto barbarico di distruggere un patrimonio storico unico e a ricordare che una coesistenza tra armeni e azeri è stata possibile in passato ed è ancora una realtà in paesi come Georgia e Iran.

Vai al sito