Armenia-Italia: al via visita del premier Pashinyan, previste tappe a Venezia, Milano e Roma (Agenzianova 20.11.19)

Roma, 20 nov 08:48 – (Agenzia Nova) – Il primo ministro armeno Nikol Pashinyan è atteso da oggi in visita ufficiale in Italia. Il premier sarà accompagnato da un’ampia delegazione governativa che lo seguirà nelle sue tappe italiane che saranno Venezia, Milano e Roma. La visita del primo ministro inizia oggi nel capoluogo veneto, dove Pashinyan visiterà l’isola di San Lazzaro degli Armeni, il monastero della congregazione mechitarista. Successivamente, il premier partirà per Milano dove è previsto l’incontro con i rappresentanti della comunità armena. Pashinyan visiterà anche la se dee dell’Istituto italiano di studi politici internazionali (Ispi), dove incontrerà il sindaco di Milano Giuseppe Sala e parteciperà a una discussione dal titolo “Dialogo sul futuro”. Nel capoluogo lombardo, il primo ministro incontrerà anche rappresentanti della regione e dei circoli economici italiani e parteciperà a un forum congiunto bilaterale ospitato presso la sede di Mediobanca. Da Milano, Pashinyan si recherà a Roma, dove incontrerà l’omologo Giuseppe Conte. Al termine dell’incontro, i primi ministri dei due paesi rilasceranno delle dichiarazioni ai media. A Roma, il premier armeno incontrerà anche la presidente del Senato italiano, Maria Elisabetta Alberti Casellati, e il direttore dell’Ice, Carlo Ferro. La visita di Pashinyan prevede inoltre una tappa alla Chiesa cattolica armena di San Nicola e al Levonian Priestly College. (Res)

Il passo avanti di Washington sul genocidio armeno (Ilcaffegeopolitico 19.11.19)

Analisi – La Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti ha approvato l’attesa risoluzione sul riconoscimento del genocidio armeno, chiedendo ufficialmente al Governo di prendere le distanze da qualsiasi forma di negazionismo. In attesa dell’approvazione anche del Senato, sono numerose le manifestazioni di entusiasmo per questo storico risultato. Tuttavia le autorità turche hanno accolto negativamente l’esito del voto statunitense. Quella del “Grande male” è una ferita vecchia di un secolo che provoca ancora nuove tensioni.

UNA TRAGEDIA FINALMENTE “RICONOSCIUTA”

Un altro importante tassello si aggiunge al doloroso mosaico del genocidio armeno, tragico evento avvenuto tra il 1915 e 1923. Lo scorso 29 ottobre, con una grandissima maggioranza, la Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti ha approvato una risoluzione (H. Res. 296) in favore del riconoscimento ufficiale di tale genocidio. Il documento non vincolante, che invita il Governo statunitense a rifiutare ogni tentativo di negazionismo, ha trovato 405 voti favorevoli su 435 totali. Qualora dovesse esserci anche l’approvazione del Senato, gli Stati uniti si aggiungerebbero ai 29 Paesi che hanno già riconosciuto ufficialmente il genocidio armenoIn principio fu l’Uruguay nel 1965, cui seguirono, tra gli altri, Italia, Francia, Federazione Russa, Canada e Germania. Si annoverano nella lista anche il Vaticano e l’Unione europea.

A margine della seduta è stato diffuso un comunicato con le osservazioni di Nancy Pelosi, Presidente della Camera. Nel testo si evidenzia la gravità della persecuzione subita dagli armeni per mano dell’estinto Impero Ottomano, bollata come “una delle più grandi atrocità del XX secolo”. Una posizione condivisa dall’ex Vice-Presidente Joe Biden, che ha affermato tramite social network quanto il riconoscimento del genocidio onori la memoria delle vittime, concludendo enfaticamente con la frase “never again”. Soddisfazione a lungo attesa soprattutto dalla comunità armena internazionale: l’Assemblea armena d’America, il Comitato Nazionale Armeno per l’America (ANCA) e la Comunità armena di Roma ad esempio, nei rispettivi siti web lodano il risultato finalmente conseguito anche da Washington e condannano lo storico negazionismo turco.

Nella medesima sessione, la Camera ha approvato anche un’altra risoluzione (H. Res. 4695) con la quale si chiedono al Presidente degli Stati Uniti Donald Trump nuove sanzioni contro Ankara, in risposta all’offensiva turca nel nord-est della Siria. Nei giorni precedenti al voto Eliot Engel, Presidente della Commissione Esteri della Camera, aveva anticipato la prevedibile delusione da parte del Governo turco. In effetti la reazione è stata rapida e dura. Il ministro degli Esteri Mevlut Cavusoglu tramite social network ha definito la risoluzione “vergognosa”. Il 31 ottobre il Parlamento turco ha votato a sua volta una risoluzione in cui si condanna fortemente quella approvata a Washington, dove tra l’altro si e recato in visita lo scorso 13 novembre proprio il Presidente turco Recep Tayyip Erdoğan.

Fig. 1 – Manifestazione della comunità turca di Washington contro il possibile riconoscimento del genocidio armeno, 24 aprile 2019

IL “GRANDE MALE” NEGATO

Da parte sua il Governo turco non accetta la natura di genocidio relativamente al massacro armeno, di cui si contesta persino la veridicità storica. In tal senso eclatante fu un’iniziativa del 2005, con la quale Erdoğan, allora Primo Ministro, propose all’allora Presidente armeno Robert Kocharian l’istituzione di una commissione congiunta di esperti e storici per analizzare gli eventi del 1915. Kocharian rifiutò la proposta.

Il Medz Yeghern (il “Grande male” in armeno) avvenne principalmente tra il 1915 e l’anno successivo, ma l’evento si trascinò almeno fino ai primi anni Venti. Precedenti eccidi si erano verificati vent’anni prima sotto il regno del sultano ottomano Abdul Hamid II (cosiddetti “massacri hamidiani”), deposto nel 1909 dal movimento nazionalista dei Giovani turchi. Da allora la guida effettiva dell’Impero fu assunta da esponenti del movimento, al cui vertice nel 1913 si costituì il triumvirato dei pascià Mehmed Talaat, Ismail Enver e Ahmed Semal. Il 24 aprile 1915 centinaia di armeni furono arrestati e uccisi in diverse città. Da quel giorno iniziò ufficialmente il genocidio, fatto di torture, deportazioni e pulizia etnica, con un bilancio stimato di almeno 1,5 milioni di vittime. Gli armeni erano d’ostacolo al progetto nazionalista di una grande comunità turca e turcofona che si estendesse dal vicino Oriente all’Asia centrale.

In Turchia parlare del genocidio è perseguibile penalmentel’art. 301 del codice penale puniva, fino al 2008, chiunque offendesse “l’identità nazionale”. Nel caso in oggetto si configurava un reato di vilipendio, e molti casi giudiziari hanno avuto eco internazionale. Nel 2005 allo scrittore turco Orhan Pamuk fu contestata una dichiarazione rilasciata ad una rivista svizzera nella quale parlava apertamente del genocidio armeno. Un altro caso degno di nota riguardò la scrittrice turca Elif Şafak e i riferimenti contenuti in un suo romanzo sull’innominabile genocidio. Nel 2006 le inchieste a carico dei due scrittori furono entrambe interrotte.

Nel 2008, su pressione dell’UE, il Parlamento turco modificò l’art. 301. Il vilipendio verso l’identità turca fu sostituito con la più circoscritta fattispecie contro lo “Stato turco”. Inoltre quello che prima era il minimo della pena, cioè due anni, divenne il massimo, e il procedimento giudiziario poteva essere aperto solo su decisione del Ministro della Giustizia. Nel 2010 la Corte europea dei diritti dell’uomo si pronunciò sul ricorso del giornalista turco di origine armena Hrant Dink, condannato quattro anni prima in Turchia per aver parlato più volte del genocidio armeno nei suoi articoli. La Corte sostenne che le autorità turche violarono il diritto alla libertà di parola del ricorrente sulla base dell’art. 10 CEDU. Dink si era distinto per l’attivismo nei confronti della questione armena e della democrazia in Turchia. Purtroppo non visse abbastanza da vedere la sentenza, poiché fu ucciso nel 2007.

Fig. 2 – Lo scrittore turco Orhan Pamuk, finito nel mirino delle autorità per aver parlato del genocidio armeno su una rivista svizzera nel 2005

I PRECEDENTI TENTATIVI

Prima del successo bipartisan del 29 ottobre vi erano stati altri tentativi di riconoscere ufficialmente genocidio armeno negli Stati Uniti. Nel gennaio 2008, durante la sua campagna elettorale, il futuro presidente Barack Obama promise che questo genocidio sarebbe stato finalmente riconosciuto. Due anni dopo con una mozione non vincolante, votata dalla commissione Esteri della Camera dei Rappresentanti nel marzo 2010, si chiese espressamente a Obama di procedere in tal direzione. La proposta fu lasciata cadere a causa delle pressioni politiche. Tra queste, una forte opposizione vi fu dall’allora Segretario di Stato Hillary Clinton, che invitò i deputati a non votare positivamente onde evitare l’inasprirsi dei rapporti con la diplomazia turca. Una posizione ribadita anche nel 2012, che la rese bersaglio di pesanti critiche da parte del Comitato Nazionale Armeno per l’America (ANCA).

Hillary Clinton non fu l’unica personalità di rilievo ad avanzare riserve. Impressioni simili erano già state condivise da suo marito, Bill Clinton. L’allora Presidente degli Stati Uniti si dichiarò “profondamente preoccupato” in un comunicato del 19 ottobre 2000, nei confronti della risoluzione H. Res. 596. Anche in quel caso, come Clinton stesso affermò, a prevalere erano ragioni di politica estera (tra cui la questione Saddam Hussein), in un’area che va dai Balcani al Medio Oriente, e che vedeva la Turchia come un importante partner strategico da non allontanare.

Fig. 3 – Ilhan Omaruna delle poche deputate democratiche a non aver votato a sostegno della risoluzione del Congresso sul genocidio armeno

Fin dall’inizio del suo mandato Trump ha condiviso le sue posizioni sull’argomento nei comunicati stampa annuali in occasione della Giornata della memoria armena, nella data simbolo del 24 aprile. In quello del 2019 il Presidente esprime cordoglio e vicinanza per gli “eventi orribili” subiti a suo tempo dagli armeni, auspicando un futuro migliore da costruire insieme. Nei tre comunicati diffusi dal 2017 ad oggi non compare mai la parola “genocidio”. Al suo posto è usata l’espressione armena Medz Yeghern.

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Italia-Armenia, il ct Khashmanyan resta senza parole: “la partita di oggi è l’immagine del nostro calcio” (Sportfair.it 18.11.19)

Il commissario tecnico dell’Armenia ha ammesso di essere pronto a dimettersi nel caso in cui la Federcalcio dovesse chiederglielo

La pesantissima sconfitta subita contro l’Italia potrebbe costare cara al ct dell’Armenia, Khashmanyan, impotente davanti alla netta superiorità mostrata dagli azzurri al Barbera.

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Italia-Armenia

Alfredo Falcone/LaPresse

Un ko che potrebbe spingere il commissario tecnico a dimettersi, nel caso in cui la Federazione dovesse chiederglielo: “la partita di oggi ci dà l’immagine del calcio armeno, quando sono stato messo alla guida della Nazionale, ho subito pensato che poteva capitare una situazione simile. Mi prendo tutte le mie colpe. Siamo arrivati qui con una squadra priva di tanti giocatori fondamentali: se i miei dirigenti pensano che io sia l’unico responsabile sono pronto a dimettermi domani, se invece vogliono che continui io devo completamente cambiare la squadra. Mancano le parole per spiegare una partita del genere“.

Per approfondire https://www.sportfair.it/2019/11/italia-armenia-dimissioni-ct-khashmanyan/986498/#deGw5Yx5WHv4jugb.99

Venezia: Primo ministro armeno in visita all’ Isola di San Lazzaro (Adnkronos 18.11.19)

Venezia, 18 nov. (Adnkronos) – Le recenti devastazioni causate dall’alta marea alla città di Venezia e sull’intera area del Convento dei Mechitaristi, non poteva lasciare indifferente l’intera comunità armena e soprattutto il governo dell’Armenia. Il Primo Ministro armeno, Nikol Pashinyan, mercoledì 20 novembre alle ore 10, 30, farà una visita straordinaria presso l’Isola di San Lazzaro degli Armeni, per constatare personalmente i danni causati dall’acqua alta dei giorni scorsi.

Alla delegazione armena faranno parte l’ambasciatrice armena presso il Quirinale, Victoria Bagdassarian e il neo Console generale onorario a Venezia Gagik Sarucanian. Sono previsti inoltre contatti con le autorità locali di Venezia, per scambi di idee, per potere meglio organizzare la ricostruzione delle mura perimetrali danneggiate e dell’intero pian terreno degli edifici.

Roza, l’armena di Palermo allo stadio per la sua nazionale (Repubblica. palermo 18.11.19)

Il suo campione non sarà in campo, ma il suo tifo sarà ancora più forte per sostenere la squadra in «una partita tutta da giocare». Roza Safaryan, 25 anni, è una dei pochi cittadini armeni che vivono a Palermo, sono appena una ventina in tutta la provincia, e domani sarà allo stadio Barbera con addosso la maglia rossa e la bandiera del suo Paese.

«So che Mkhitaryan non giocherà a causa di un infortunio – dice Safaryan – è davvero una grande tristezza, e sarà di certo più dura resistere in campo per il nostro team, ma anche gli altri giocatori sono bravi, sono forti, sarà una partita molto interessante da seguire».

La maglia e la bandiera le ha comprate già ad agosto quando è tornata in vacanza in Armenia.
«Appena ho saputo della partita della nazionale a Palermo – dice la ragazza – ho subito comprato la maglia e la bandiera, mi sono sentita una privilegiata al pensiero che io, a differenza della mia famiglia e di tanti altri amici, sarei potuta essere allo stadio a vedere giocare la mia squadra in una partita così importante. La mia famiglia non vede l’ora di vedermi in tv, penso sarò l’unica a sventolare la bandiera dell’Armenia».
Roza Safaryan è a Palermo da un anno per studiare Commercio internazionale all’università. Il suo obiettivo è conseguire il diploma di laurea magistrale in un corso di laurea, quello di Relazioni internazionali, completamente in lingua inglese che lei parla correntemente. «All’inizio è stato difficile – racconta – nessuno parlava inglese in città e anche avere una semplice informazione era un’impresa. Adesso le cose vanno molto meglio. Ho scelto Palermo perché in occasione dell’Erasmus in Bulgaria ho conosciuto degli studenti palermitani molto simpatici con cui sono rimasta in contatto. Così quando ho deciso di continuare i miei studi in Europa, non ho avuto dubbi, e ho scelto questa bellissima città».

Allo stadio “Barbera” è stata già una volta, per Palermo-Ascoli, ma questa volta l’occasione è davvero più importante. «Come la prima volta – dice la ragazza – andrò allo stadio con i miei amici palermitani. Loro tiferanno per l’Italia e io per l’Armenia. Loro sono super tifosi del Palermo e vanno sempre allo stadio, ma sono certa che saranno degli ottimi compagni di partita anche se io tifo per la squadra avversaria».

Anche se Mkhitaryan non ci sarà, perché da 40 giorni è fermo a causa di un infortunio, per lei sarà in ogni caso un “esempio” per gli altri giocatori della nazionale armena in campo.
«Lui è il più famoso giocatore armeno – dice con entusiasmo Safaryan – grazie a lui l’Armenia è stata conosciuta in tutta l’Europa, questo significa tantissimo per noi armeni. La sua carriera calcistica significa molto di più per il nostro Paese, è un percorso diverso da quello degli altri grandi calciatori perché per noi si porta dietro questo significato. È seguitissimo, così ogni persona che arriva a lui attraverso il calcio, arriva anche a scoprire il nostro Paese. È un grande orgoglio».

Roza Safaryan sarà al “Barbera” anche per tutti i tifosi armeni che non potranno esserci. «Non so quanti alla fine potranno arrivare dal mio Paese – dice la tifosa – Ci sono grosse difficoltà economiche e sono davvero fortunata a essere già a Palermo e a potere vedere la partita. Farò il tifo anche per tutti quelli che non potranno essere allo stadio, e sono certa che anche da parte di miei amici palermitani ci sarà grande solidarietà».
Nello studentato dell’Ersu dove vive ha cercato di coinvolgere altri studenti stranieri. «Ho cercato di portare dalla mia parte tutti quelli che non sono italiani – racconta sorridendo Safaryan – E alcuni hanno comprato i biglietti per venire con me alla partita. Comunque vada sarà un’esperienza indimenticabile. Sono pronta. Il mio cuore è per l’Armenia».

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Siria. Padre Ayvazian (Qamishli): “Il martirio di abuna Ibrahim Hanna e di suo padre è un battesimo di sangue destinato a portare frutti” (SIR 16.11.19)

La comunità cristiana di Qamishli tenta di riprendersi dopo l’attentato terroristico, rivendicato dall’Isis, in cui hanno perso la vita il parroco armeno-cattolico di san Giuseppe, Ibrahim (Hovsep) Hanna, e suo padre. Il vicario episcopale della comunità armeno-cattolica dell’Alta Mesopotamia e della Siria del Nord, Antonio Ayvazian, racconta l’affetto con cui tutta la popolazione della regione si è stretta intorno alla famiglia delle vittime e il rinnovato impegno della chiesa a perdonare e a portare avanti il proprio servizio verso tutti, senza distinzioni. E già si intravvede un primo frutto di questo martirio: l’idea per tutte le Chiese della regione di celebrare la Pasqua 2020 in un’unica data

(Foto AFP/SIR)

“È stato un battesimo di sangue. Il sangue versato di questi martiri farà germogliare frutti di fede, di amore, di pace e di bene per tutti”. Non si placa l’emozione e lo sdegno della popolazione di Qamishli (provincia siriana nord orientale di Hassake) per l’attentato terroristico, l’11 novembre scorso, in cui sono rimaste vittime il parroco armeno-cattolico di san Giuseppe, ‘abuna’ Ibrahim (Hovsep) Hanna, e suo padre.

Padre Ibrahim Hanna, Qamishli (Siria)

Una vera e propria esecuzione compiuta nel distretto di Busayra, nella regione sotto controllo delle forze curdo-siriane, nel villaggio di Zar, a est di Deir ez-Zor e rivendicata dallo Stato Islamico. Tre giorni fa i funerali nella cattedrale di san Giuseppe, a Qamishli, davanti a una folla di fedeli commossi. A celebrarli padre Antonio Ayvazian, vicario episcopale della comunità armeno-cattolica dell’Alta Mesopotamia e della Siria del Nord che al Sir racconta lo stato d’animo della popolazione locale. “Queste morti – dice – hanno provocato tanto sdegno in tutta la popolazione. Migliaia di persone in questi giorni, in continuazione, sono venute a porgere le condoglianze e ad esprimerci solidarietà. È un segno chiaro di quanto la nostra Chiesa sia amata, apprezzata e rispettata da tutti, senza distinzione di etnia o fede. È stato commovente – rivela padre Antonio – vedere tante donne musulmane buttarsi in ginocchio davanti alla moglie e ai figli del nostro sacerdote. Un dolore comune a tantissimi perché siamo una famiglia. Sono venuti a dare le condoglianze alti rappresentanti del presidente siriano Assad e – rivela – anche esponenti dell’opposizione, quest’ultimi coscienti del pericolo che avrebbero corso con la loro presenza”.

“Nessuna vendetta”. “Il martirio di padre Hanna e del suo papà è un ulteriore segno di testimonianza dell’amore che Gesù ha riversato su tutti gli uomini” aggiunge il vicario episcopale che ha una certezza:

“la mano che ha ucciso è venuta da fuori. Non vogliamo vendetta ma giustizia”.

“Abbiamo perdonato, come ci insegna Gesù Cristo”. Ma in padre Antonio resta il dubbio che forse troverà una spiegazione se e quando i colpevoli di questo delitto saranno scoperti: “Allora – dice – chiederò loro: perché lo avete fatto? Che male vi abbiamo fatto? Siamo al servizio di tutti, perché questo male? Questo per noi rimane un gesto incomprensibile, avvenuto peraltro in una zona sotto controllo militare di Stati Uniti e Curdi. L’esplosione causata alla macchina, il giorno dopo, è avvenuta non distante da un check point curdo”.

Siria, l’auto esplosa dopo l’uccisione di padre Hanna

“Nessuno ci ha mai fatto del male anche quando qui la presenza di milizie jihadiste composte da ceceni, daghestani, afghani, pakistani era notevole. I loro superiori ci rispettavano. Adesso invece tutto è cambiato. La situazione è davvero complessa. Mi hanno raccomandato di usare prudenza, di essere cauto ma io continuo a fare tutto quello che facevo prima insieme ai miei collaboratori. E se possiamo anche meglio”.

Il primo frutto. “Dobbiamo riprendere la strada interrotta e portare avanti il nostro impegno a favore del bene, della pace, del perdono e della riconciliazione. È il modo migliore – rimarca il vicario – per onorare la memoria dei nostri martiri. Abbiamo oltre 20 istituzioni che in tutta la regione si adoperano nel campo dell’istruzione, dei servizi sociali e sanitari. Un servizio offerto a tutti, senza eccezioni. Non smetteremo di impegnarci a favore del bene, questa è la risposta più forte che possiamo dare a gesti efferati come l’omicidio di padre Hanna”. La paura non sembra vincere sulla comunità cristiana locale.

Oggi a vigilare sulle chiese ci sono “i nostri giovani”, e in alcuni momenti anche macchine della polizia locale. Ma ciò che rende la comunità cristiana ancora più forte in questo momento è il senso di “una mai sopita unità”. Padre Antonio la descrive rivelando “l’immagine più bella dei funerali: vedere la bara del nostro confratello portata a spalla, a turno, da tutti i sacerdoti di ogni rito e confessione cristiana. È stata una fortissima testimonianza di ecumenismo e di unità”. Ed è proprio da questo “ecumenismo del sangue” che potrebbe nascere il primo frutto di questo martirio:

“inviterò – dice padre Antonio – tutti i capi delle chiese cristiane di questa regione a celebrare la prossima Pasqua insieme. Sono certo che questa proposta verrà accettata e sarà un frutto bellissimo di questo martirio. Stiamo vivendo questo Calvario tutti insieme, e insieme vogliamo celebrare la Resurrezione e la sconfitta della morte”.

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Siria: giovani siriani armeni rifugiati in Grecia scrivono a Papa Francesco (SIR 15.11.19)

n “saluto e un grande ringraziamento”: a rivolgerlo a Papa Francesco i giovani rifugiati siriani accolti dall’Ordinariato armeno cattolico di Atene, guidato da mons. Bezozou, ordinario per i fedeli armeni cattolici in Grecia. In un messaggio letto al card. Leonardo Sandri, prefetto della Congregazione per le Chiese orientali, durante un incontro ieri nella sede dell’Ordinariato nella capitale greca, una delle tappe del suo viaggio in Grecia, i giovani hanno ricordato, citando le parole del Pontefice, “l’amata e martoriata Siria”. “Noi che viviamo lontani dai nostri famigliari senza saper se un giorno li potremo incontrare – hanno detto i giovani – la Sua presenza tra di noi equivale alla presenza di un padre tra i suoi figli. Ancora sono tantissimi i nostri compagni giovani feriti al cuore che continuano a vivere in Siria con la speranza di trovare una soluzione pacifica dalla guerra”. “Noi amiamo la nostra patria la Siria, la terra dove abbiamo vissuto la nostra infanzia, abbiamo avuto l’educazione ed abbiamo goduto dei suoi beni, se non ci fosse la guerra non saremmo usciti. In questo periodo difficile della nostra vita ringraziamo la bontà del Signore, perché come una volta eravamo nella nostra patria figli delle nostre parrocchie, anche qui ad Atene abbiamo trovato accoglienza presso la Chiesa armena cattolica, che ci aiuta ad addolcire un po’ le sofferenze della nostra strada verso l’ignoto”. Infine la richiesta al prefetto “di far arrivare la nostra supplica al Santo Padre affinché guardi il nostro caso”. Durante l’incontro mons. Bezozou e il card. Sandri hanno ricordato la memoria del sacerdote Ibrahim Hovsep Hanna, ucciso insieme al padre in un agguato lunedì 11 novembre sulla strada verso Deir Er Zor. In particolare si è sottolineato che per la comunità armena quella cittadina della Siria è una di quelle che conservano le memorie della messa in salvo degli scampati al genocidio del 1915.

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Padre Petoyan, martire in Siria (Vocetempo.it 14.11.19)

I cristiani tornano nel mirino dei terroristi islamici anche in Siria. Li hanno uccisi a raffiche di mitra. Non c’è dubbio, si tratta di un’esecuzione mirata per colpire di nuovo i cristiani e tentare di sradicare le nostre comunità dalla regione. Non hanno colpito a caso. Sull’auto su cui viaggiavano il sacerdote Hovsep Petoyan, parroco armeno-cattolico di San Giuseppe, la cattedrale di Qamishli, e suo padre, c’era la scritta in arabo «Chiesa armena cattolica». Ferito il diacono Fati Sano, della chiesa di al-Hasakeh, che viaggiava con loro. Sono caduti in un’imboscata jihadista lungo la strada che collega Hassakè e Deir ez-Zor, al confine con l’Iraq.

L’attacco, rivendicato dal Daesh, ora guidato da Abu Ibrahim al Qurashi, succeduto ad al-Baghdadi eliminato in un blitz degli americani il 26 ottobre, è la prova che si vuole cancellare i cristiani già minacciati dall’offensiva militare turca. Ieri era toccato al gesuita olandese Van der Lugt, ucciso a Homs nel 2015 e al francescano Francois Murad, decapitato dai miliziani dell’Isis nel 2013. Il gesuita romano Paolo Dall’Oglio è stato rapito a Raqqa nel 2013 e non si è saputo più nulla, così come di due vescovi ortodossi Bulos Yazigi e Yohanna Ibrahim, l’armeno cattolico Michel Kayyal e l’ortodosso Maher Mahfuz, anche loro rapiti e spariti.

Ora è stata la volta di padre Petoyan, sacerdote cattolico armeno, solo uno dei numerosi preti assassinati o scomparsi in Siria. «Per noi sono tutti martiri», ha detto Boutros Marayati, arcivescovo armeno cattolico di Aleppo, «e quello che è accaduto è una conferma che la guerra in Siria non è finita come invece avevamo sperato». Padre Petoyan era il sacerdote della comunità armena cattolica di Qamishli, nella provincia siriana nord-orientale di Hassakè.

Da tempo si occupava dei progetti volti a ricostruire le case dei cristiani e le chiese a Deir ez Zor distrutte dalla guerra. Ogni due settimane si recava in questa città della Siria orientale per controllare i lavori in corso ed era sempre andata bene. Lungo il percorso tutto era filato liscio, nessun problema, nessun posto di blocco, fino a lunedì scorso. La Chiesa cattolica armena, formata dai sopravvissuti al genocidio turco-ottomano di inizio Novecento, è un’antica comunità cristiana che conta oltre mezzo milione di fedeli. È una Chiesa strettamente legata a Roma pur conservando una certa autonomia nei riti religiosi. Oltre alla Siria la troviamo anche in Iraq, Iran, Egitto, Turchia, Israele e in Libano, dove c’è la sede centrale. Proprio a Deir ez Zor si trovano una chiesa e un memoriale dedicato ai martiri del genocidio armeno. La città è controllata dalle forze curde, appoggiate da unità speciali americane rimaste nella zona, ma è contesa dall’esercito siriano che vuole tornare in possesso dei pozzi petroliferi di cui è ricca l’area e da gruppi jihadisti fedeli all’Isis che, secondo fonti curde, avrebbero compiuto almeno 30 attacchi a novembre alzando notevolmente la capacità operativa sul campo.

L’intervento militare di Ankara contro i curdi nel nord-est ha sconvolto la regione creando più confusione e instabilità oltre a dare nuova forza alle cellule dell’Isis tornate sulla scena con più violenza di prima. Attivisti e organizzazioni umanitarie internazionali puntano il dito contro i militari turchi e i loro alleati accusandoli di gravi violazioni e crimini di guerra contro i curdi.

I soldati della Mezzaluna e le milizie filo-jihadiste che sostengono l’intervento turco nel nord sarebbero responsabili di una sorta di ‘pulizia etnica’ contro i curdi e le altre minoranze religiose tra cui i cristiani. La stessa accusa è giunta nei giorni scorsi anche da William Roebuck, inviato speciale americano presso la Coalizione anti-Isis, secondo cui gli Stati Uniti non hanno fatto abbastanza per fermare l’attacco contro i curdi.

Nelle prigioni anatoliche ci sono oltre 1.200 foreign fighters del califfato mentre altri 300, in gran parte stranieri, sono stati catturati nel nord siriano dall’inizio dell’offensiva turca il 9 ottobre scorso. Assiri, caldei e siro-cattolici si sono trovati improvvisamente nel mirino dell’esercito turco, dei loro alleati jihadisti e degli stessi terroristi dell’ex Stato islamico. La paura e l’insicurezza hanno spinto migliaia di cristiani a fuggire in luoghi più tranquilli. L’escalation della tensione si è fatta sentire anche a Qamishli, dove i cristiani sono protetti sia dai guerriglieri curdi che dai governativi siriani, ma gli ultimi attentati hanno dimostrato che il Daesh ha già rialzato pericolosamente la testa.

Auto e moto riempite di tritolo sono esplose nelle vicinanze di una chiesa caldea  e vicino a un mercato lasciando sul terreno sette morti e decine di feriti. Un nuovo trauma per una comunità pesantemente colpita da otto anni di guerra civile e di atrocità jihadiste. Una tragedia senza fine che continua anche con la profanazione di chiese e il saccheggio di case abitate da cristiani nella fascia di sicurezza creata dai turchi a nord-est, mentre Aleppo è ancora oggi sotto il tiro di razzi e colpi di artiglieria da parte di ribelli e jihadisti.

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I cristiani fuggono dal nordest della Siria (Voltairenet.org 14.11.19)

Conformemente alla mappa anticipata dall’agenzia di stampa ufficiale turca Anadolu Agency, le truppe turche si sono limitate a occupare una striscia frontaliera con la Siria di 32 chilometri di profondità, con l’eccezione della città di Qamishli.

Tuttavia oggi emerge chiaramente che la Turchia e lo YPG stanno facendo una politica comune di espulsione dei cristiani dalla zona, anche dalla città di Qamishli.

Alla fine del XIX secolo e agli inizi del XX gli Ottomani e i loro suppletivi kurdi massacrarono 1.400.000 armeni, 200 mila assiri e cristiani di rito greco, nonché 50 mila assiri di Persia (1914-1918) e altri 800 mila armeni e greci (1919-1925) [1].

A marzo 2014, durante la guerra contro la Siria, centinaia di jihadisti del Fronte al-Nusra (Al Qaeda) e dell’Esercito dell’Islam (filo-sauditi), inquadrati dall’esercito turco, saccheggiarono la città armena siriana di Kessab [2].

In un simile scenario la comunità armena ha interpretato l’assassinio dell’11 novembre 2019 del sacerdote Hovsep Petoyan (foto) e della sua famiglia come un attacco ordinato dalla Turchia a Daesh. Il prete si era recato a Deir-er-Zor per sorvegliare la ricostruzione di una chiesa armena distrutta da Daesh.

Traduzione
Rachele Marmetti
Giornale di bordo

Rapporto Unicef sulla Siria: ‘Cinque milioni e mezzo di bambini senza assistenza’ (papaboys.org 13.11.19)

Nella martoriata Siria, sono ben cinque milioni e mezzo i bambini che hanno bisogno di assistenza.

Lo denuncia un rapporto dell’Unicef, il Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia. A solo 8 settimane dalla fine dell’anno, le operazioni di emergenza sono state finanziate appena della metà, circa il 53 per cento.

Dei 295 milioni di dollari necessari per il 2019, denuncia l’agenzia umanitaria dell’Onu, ne sono stati raccolti solo 138 milioni. Nonostante la grande insicurezza e le sfide per l’accesso nelle zone di combattimento, la mancanza di fondi adesso rappresenta l’ostacolo più grande per raggiungere i bambini che hanno urgente bisogno di cibo, medicine e aiuto.

Nel nordest della Siria, dove vivono alcuni dei minori più vulnerabili del paese, nel 2019 l’Unicef è riuscito a vaccinare oltre mezzo milione di bambini, fornito supporto psicosociale ad altri 150.000 e consentito a oltre 100.000 bambini di iscriversi a programmi di istruzione formale.

A causa delle ripetute violenze, nelle prossime settimane non verranno forniti acqua e servizi igienico sanitari di emergenza a oltre 100.000 persone, né saranno ampliate le scarse fonti di acqua utili per oltre 300.000 persone.

Inoltre, 55.000 bambini non riceveranno vaccinazioni di routine e circa 140.000 donne e bambini non riceveranno consulenza sanitaria e nutrizionale. 70.000 bambini non avranno alcun supporto per l’istruzione informale, compresi spazi per l’apprendimento e materiali scolastici.

E senza ulteriori fondi, le conseguenze per i bambini che vivono nelle regioni nordorientali sottoposte di continuo a bombardamenti e attacchi armati saranno atroci.

Secondo il documento dell’Unicef, infatti, 1.700 bambini non riceveranno assistenza specializzata dopo le brutali violenze che hanno vissuto, sia i bambini costretti con la forza a combattere, sia quelli che hanno vissuto in aree controllate da gruppi armati.

Inoltre, 170.000 persone non saranno raggiunte con informazioni sul rischio della micidiali mine antiuomo: un siriano su 2 è a rischio di ordigni inesplosi, soprattutto i più piccoli.

Con il veloce calo delle temperature, l’Unicef intende fornire a 578.000 bambini (sotto i 14 anni), abiti invernali nei campi, nei rifugi collettivi, nelle comunità ospitanti e nelle aree in cui c’è estremo bisogno.

A oggi ci sono fondi per 356.000 bambini e senza ulteriori donazioni 222.000 bambini non riceveranno assistenza. «Stiamo affrontando tanti ostacoli nel fornire assistenza salvavita», afferma l’agenzia dell’Onu.

E la difficile situazione in Siria – ricorda l’edizione quotidiana de L’Osservatore Romano – è stata ieri al centro di un colloquio tra i capi delle diplomazie di Russia e Francia, Serghiei Lavrov e Jean-Yves Le Drian, che si sono incontrati nella capitale francese.

Lavrov ha dichiarato che i colloqui si sono concentrati sull’inizio dei lavori del Comitato costituzionale siriano a Ginevra.

Intanto, ieri, in un’messaggio rilasciato a “Vatican News”, Boutros Marayati, arcivescovo armeno-cattolico di Aleppo, è intervenuto sull’uccisione del sacerdote armeno-cattolico Apraham Joseph Bedo, parroco della chiesa di San Giuseppe a Kamichlié, da parte degli uomini di un gruppo di jihadisti.

Il sarcerdote — ha detto l’arcivescovo — «è un martire della Siria, ucciso perché faceva del bene ed era impegnato nella ricostruzione della chiesa e delle case della comunità armena a Deir er Zor».

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Tutte le ombre sull’incontro tra Trump e Erdogan (Lettera43 13.11.19)

l voto del Congresso sul genocidio armeno. Le nuove sanzioni per le operazioni in Siria. La richiesta di estradizione di Gulen. Il business delle armi e il riavvicinamento tra Turchia e Russia. I nodi e le incognite della visita del Sultano alla Casa Bianca.
Visita confermata. Il 13 novembre Recep Tayyp Erdogan è pronto a incontrare Donald Trump alla Casa Bianca. Una telefonata tra i due presidenti ha fatto sciogliere le riserve ad Ankara dopo le tensioni scatenate dalla recente mozione del Congresso Usa sul genocidio armeno e dalle nuove sanzioni imposte da Trump. Tutti nodi che evidentemente restano sul tavolo del bilaterale.
LE TENSIONI PER IL GENOCIDIO ARMENO E LE NUOVE SANZIONI USA

Andiamo per ordine. Ankara, come era prevedibile, non ha gradito il voto del Congresso americano che a larghissima maggioranza ha riconosciuto il genocidio armeno in Turchia, il massacro di almeno 1,5 milioni di armeni sotto l’impero ottomano tra il 1915 e il 1916. Il governo turco si è limitato a definire l’eccidio come «un fatto tragico», ma non ammette la parola «genocidio». «Nella nostra fede il genocidio è assolutamente vietato», ha sottolineato Erdogan. «Consideriamo questa accusa come il più grande insulto al nostro popolo». A complicare la situazione, però, è stata anche una seconda risoluzione dei deputati statunitensi su nuove sanzioni alla Turchia per l’operazione militare nel Nord della Siria. A cui va aggiunta la recente incriminazione da parte degli States di Halkbank, la seconda banca statale turca accusata di aver aver aiutato l’Iran a violare le sanzioni economiche.

LA RICHIESTA DI ESTRADIZIONE DI GULEN

Altro tema caldo tra Ankara e Washington è la richiesta di estradizione di Fethullah Gulen. Il magnate ed ex imam residente in Pennsylvania è considerato dalla Turchia la mente del fallito golpe del 2016. Ankara ha proposto uno scambio di quelli che definisce «terroristi»: Gulen al posto della sorella di Abu Bakr al Baghdadi, l’ex Califfo del sedicente Stato islamico, catturata dai turchi (arresto al quale è seguito anche quello della moglie dell’ex leader di Daesh). «Gulen è importante per la Turchia quanto al Baghdadi lo era per gli Stati Uniti», ha ribadito Erdogan. Finora da Washington è arrivato un secco no, che però potrebbe ammorbidirsi alla luce degli interessi economici e militari americani.

IL NODO SIRIANO E LA VISITA DELL’EX COMANDANTE DEL PKK

I rapporti tra Usa e Siria rappresentano un altro motivo di tensione. Erdogan, infatti, aveva chiesto di cancellare un’altra visita programmata alla Casa Bianca: quella del capo delle Syrian Democratic Forces Ferdi Abdi Sahinex comandante del Pkk che sia la Turchia che gli Usa hanno riconosciuto come organizzazione terroristica. La Casa Bianca non ha smentito l’incontro, scatenando la reazione del governo turco: gli Usa «sanno che razza di terrorista sia, di quali razza di atrocità si sia reso responsabile in passato», hanno dichiarato alcune fonti vicine al presidente Erdogan citate da Middle East Eye. «Sanno che caos si scatenerebbe se il Congresso trattasse da eroe uno che difende l’Isis».

IL BRACCIO DI FERRO CON MOSCA

Infine a preoccupare Washington è anche il riavvicinamento tra Turchia e Russia. Mosca si è detta pronta a vendere il proprio sistema di difesa anti missilistico S-400 e la prima reazione statunitense è stata l’interruzione della fornitura di F35, non senza conseguenze economiche e strategiche dal momento che la Turchia rappresenta il secondo esercito in termini numerici della Nato. A pochi giorni dall’incontro tra Trump e Erdogan, inoltre, il ministro della Difesa turco, Hulusi Akar, ha confermato una esercitazione congiunta in Russia proprio sul sistema missilistico S-400, spiegando che per la Turchia è necessario difendersi da una doppia minaccia terroristica: l’Isis e i curdi. L’ennesima ombra sull’incontro tra il tycoon e il Sultano.

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