“L’Acqua Alta e i denti del lupo” di Emanuele Termini: quel misterioso soggiorno di Stalin a Venezia (oubliettemagazine 26.12.19)

Nel libro “L’Acqua alta e i denti del lupo” presentato da Edizioni ExòrmaEmanuele Termini riprende in mano una vecchia inchiesta giornalistica del 1957 ad opera di Gustavo Traglia, un giornalista anconetano. L’inchiesta fu insabbiata ai tempi per “scomodità politica” e poi ripresa sotto forma di racconto nel 2005 all’interno del libro di Alberto Toso Fei “Misteri della laguna e racconti di streghe” (ed. Elzeviro).

Questo è il punto di inizio delle indagini di Termini, ovvero la leggenda cara ai “compagni” veneziani di “Bepi del Giasso” (Giuseppe del Ghiaccio), in cui si narra che nel gennaio del 1907 un giovane rivoluzionario georgiano sbarcò ad Ancona da un mercantile proveniente da Odessa. Aveva circa 30 anni, occhi azzurri, capelli neri e barba incolta. Lo chiamavano Koba, aveva molti altri pseudonimi e falsi documenti, ma il suo vero nome era Ioseph Vissarionovič Džugašvili: l’uomo che dal 1913 si fece chiamare Stalin.

Ad Ancona viene nascosto e appoggiato dagli anarchici locali, e si nasconde per un periodo nell’Hotel Roma e Pace. Da Ancona, sempre grazie all’aiuto degli anarchici anconetani e veneziani raggiunge Venezia, dove trova rifugio nell’isola monastero di San Lazzaro degli Armeni, sotto la protezione del Padre Armeno Ignazio Giurekian, e qui si nasconde sotto pseudonimo nei mesi di febbraio e marzo del 1907, per poi ripartire senza lasciare alcuna traccia del suo passaggio.

Numerose sono le dicerie che si raccontano tra Venezia e Mestre, spesso narrate dagli ex barcari dei burci che scaricavano le granaglie trasportate sino al Molino Stucky dai mercantili provenienti da Odessa, e dai cui oblò venivano passati libretti e propaganda rivoluzionaria[1]Questa è una via che Termini non ha sondato, tuttavia le ricerche spesso si intrecciano.

Dietro le quinte del mistero di Stalin all’Isola degli Armeni, affiora una complessa trama internazionale di servizi segreti e di massoneria, di disseminazione e di depistaggio delle informazioni. Ne rimase colpito anche il Maestro Segreto della Loggia Hermes Hugo Pratt, che nei suoi fumetti fa salvare Corto Maltese da morte certa grazie ad una telefonata nientemeno che a Stalin:

“Perché non ti hanno lasciato fare il campanaro nella chiesa degli Armeni a Venezia?” – Hugo Pratt

Termini rimane morbosamente intrappolato nella vicenda, e si lancia in una indagine che lo porterà a scomodare mezza Ancona, e a fare numerose incursioni a Venezia nei preziosi archivi della città a caccia delle pochissime tracce che Stalin ha lasciato della sua permanenza in laguna.

Secondo le teorie più accreditate, il giovane rivoluzionario era segretamente in viaggio per incontrarsi – altrettanto segretamente – a Berlino con Lenin.

Lo scopo dell’incontro fa parte di una delle pagine più oscure e sanguinarie della storia del Partito Operaio Socialdemocratico Russo: il finanziamento della Rivoluzione russa contro lo Zar Nikolai II. Come si alimentava la rivoluzione? Riciclando all’estero i rubli delle rapine operate in tutto il territorio sovietico (e specialmente in Georgia) ad opera dei rivoluzionari.

La faccenda metteva in cattiva luce il Partito, e nel congresso di Londra fu proibita la pratica della rapina, pena l’espulsione dal Partito stesso, ma Lenin sapeva bene che occorrevano denari per armare i rivoluzionari, per stampare la propaganda, per mantenere tutti i compagni sparsi per l’Europa, e per corrompere i servizi segreti dell’Ochrana zarista.

Secondo le teorie più accreditate, l’incontro tra Josif e Lenin a Berlino era volto proprio a programmare un enorme colpo nella cittadina di Tbilisi: con certezza è possibile affermare che la mattina del 26 Giugno 1907 una carrozza portavalori entrò nella piazza Yerevan scortata da molti cosacchi a cavallo. Una serie di esplosioni e una sparatoria diedero il via ad una strage, ma il colpo andò a segno: 250 mila rubli (circa 2.350.000 euro odierni) destinati alla Banca Statale dell’Impero Russo finirono in mano ai rivoluzionari. Dalla rivoluzione di Ottobre del 1917, il resto è storia ben nota, e il libro si conclude con una citazione imprecisa dalla memorabile intervista di Emil Ludwig a Stalin, che ho voluto ripescare dal testo originale[2]:

Emanuele Termini
Emanuele Termini

Ludwig – Non pensa che tra i tedeschi come nazione l’amore per l’ordine sia molto più sviluppato dell’amore per la libertà?

Stalin – C’è stato un tempo in cui le persone in Germania mostravano davvero un grande rispetto per la legge. Nel 1907, quando mi capitò di passare due o tre mesi a Berlino, noi bolscevichi russi spesso ridevamo di alcuni dei nostri amici tedeschi a causa del loro rispetto per la legge.”  Emil Ludwig

Purtroppo l’indagine di Termini nulla aggiunge a questo mistero. Stalin, se mai è stato a Venezia, e se questa sua presenza in laguna ha realmente avuto una qualche importanza nella Rivoluzione russa, riuscì veramente bene a occultare la sua presenza, e “Bepi del Giasso” continuerà ad alimentare i racconti dei veneziani nelle calli più sconosciute di Venezia, quelle dove non si arriva da turisti, o a bordo di qualche sanpierota tra i canali. Il taglio del libro ha preso infatti più volte più l’aspetto di un racconto delle vicende personali dell’autore nelle sue escursioni tra calli ed una nota libreria veneziana da cui il libro stesso prende il titolo. Tuttavia, nell’attività diligente e sistematica della ricerca, volta alla scoperta della verità intorno a fatti determinati, anche il non aver trovato niente, è pur sempre un dato, e Venezia è ricca di archivi e cimiteri di libri anche in luoghi insospettabili.

“Il monaco aveva ribadito l’appuntamento, invitandomi nel frattempo a pregare Sant’Antonio. Sant’Antonio? Quale? Avevo risposto io pensando ai due santi omonimi. Quello delle cose perdute! Mi aveva detto.” – Emanuele Termini

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Siria: le minacce dell’Isis non fermano i cristiani di Qamishli. Natale in ricordo del martire padre Hanna ucciso poco più di un mese fa (SIR 24.12.19)

A Qamishli, nel nord-est al confine con la Turchia e vicino all’Iraq, la comunità cristiana locale si prepara a vivere il Natale tra speranza e paura di nuovi attentati dell’Isis. Il ricordo di padre Ibrahim (Hovsep) Hanna, parroco armeno-cattolico di san Giuseppe, ucciso poco più di un mese fa, dall’Isis. “Non cambieremo i nostri programmi – dice padre Antonio Ayvazian, vicario episcopale della comunità armeno-cattolica – non possiamo avere paura se Dio è con noi”.

Il presepe nella chiesa di Qamishli

Sarà un Natale nel segno di padre Ibrahim (Hovsep) Hanna, parroco armeno-cattolico di san Giuseppe a Qamishli (provincia siriana di Hassake), freddato, con il padre Ibrahim Bidu Hanna, l’11 novembre scorso da due miliziani dell’Isis, mentre in auto si stava recando nel villaggio di Zar, a est di Deir ez-Zor, nella regione controllata dalle forze curdo-siriane.

Nella città di Qamishli, nel nord-est al confine con la Turchia e vicino all’Iraq, la comunità cristiana locale si prepara a vivere il Natale tra speranza e paura di nuovi attentati. Gli scontri provocati dall’operazione militare “Fonte di pace”, avviata dai turchi lo scorso 9 ottobre – con l’obiettivo di neutralizzare le forze curde siriane presenti sul territorio – sembrano, almeno in apparenza, essersi placati dopo gli accordi siglati dai presidenti Recep Tayyip Erdogan e Vladimir Putin il 22 ottobre a Sochi. Ma la tensione resta alta.

Nel nome del martire. Padre Antonio Ayvazian, è il vicario episcopale della comunità armeno-cattolica dell’Alta Mesopotamia e della Siria del Nord: “è passato poco più di un mese dal battesimo di sangue di Ibrahim (Hovsep) Hanna e di suo padre, e questo Natale non può non essere vissuto senza rendere omaggio ai nostri martiri. Il loro sangue farà germogliare frutti di fede, di amore, di pace e di bene per tutti”.

Due, in particolare le iniziative messe in campo dalla comunità armeno-cattolica locale, “un recital per ricordare la figura di padre Ibrahim Hanna e un presepe”. Quest’ultimo, spiega il vicario episcopale, “è stato allestito dal figlio del nostro sacerdote ucciso, che si prepara al sacerdozio, Hovik Hovsep Bedoyan, proprio sulla tomba del padre.

C’è un legame stretto tra la nascita, dunque la vita, la morte e la resurrezione. È questo passaggio che dona senso alla vita di un cristiano. Padre Ibrahim lo ha testimoniato con la sua morte. La Natività sulla tomba del sacerdote indica come la vita rinasce sul sangue dei martiri”.

Una città in festa. Il programma natalizio prevede, come tradizione, le feste con i bambini, “Oggi pomeriggio – afferma padre Antonio – abbiamo organizzato la festa dei bambini con Babbo Natale che distribuirà doni a tutti. Musica, cibo, danze e giochi allieteranno i bambini e le loro famiglie. Tutti avranno un dono da portare a casa. Ci ritroveremo poi in chiesa per la messa di Mezzanotte”. Ma non saranno solo i cristiani a fare festa, “tutta la popolazione – precisa il vicario – partecipa al Natale. La municipalità provvede e contribuisce con luminarie al clima natalizio. Non c’è un angolo buio in città. Questo è molto bello perché, nonostante la guerra, i siriani hanno il desiderio di condividere le loro feste senza distinzioni etniche e religiose. La Siria è un Paese tollerante dove tutti possono esprimere la propria fede liberamente. Gesù porta gioia nonostante i drammi che viviamo da 9 anni, da quando cioè è cominciata la guerra”.

Le minacce dell’Isis. “Dire che non abbiamo paura è dire una bugia”, ammette padre Antonio che rivela: “Siamo a conoscenza che

l’Isis starebbe preparando attentati con autobombe da far esplodere durante le messe di Natale,

davanti le nostre chiese. I nostri fedeli hanno timore che ciò possa avvenire veramente e per questo abbiamo chiesto alle Autorità di adottare delle misure per prevenire ogni genere di attacco, cominciando dal chiudere alcune strade”.

“Da parte nostra – rimarca il vicario – noi non cambieremo i nostri programmi e pertanto celebreremo nella chiesa di san Giuseppe la Messa di mezzanotte, a partire dalle 23, in modo tale da unirci spiritualmente a tutta la Chiesa universale. Non possiamo avere paura se Dio è con noi.

Durante la Settimana Santa facciamo la processione con il Cristo morto per le strade della città, con la quale diamo la nostra testimonianza di fede. Faremo così anche a Natale. Siamo orgogliosi di appartenere a Gesù”. Sentirsi uniti alla Chiesa universale “ci consola e ci incoraggia” dice padre Ayvazian che chiede un regalo per questo Natale “a tutti i fratelli italiani”: “Vi chiediamo di pregare per la Siria, avete un cuore sensibile verso tutta l’umanità. In questo Natale vi chiediamo di rivolgere un pensiero alla Siria, al suo popolo e ai cristiani che la popolano”.

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CAUCASO: Le mani dei governi sulla magistratura in Armenia e Georgia (East Journal 24.12.19)

La democrazia è in declino nel Caucaso? La “rivoluzione di velluto” dell’anno scorso in Armenia, che aveva portato alle dimissioni del Primo ministro ed ex presidente Serzh Sargsyan e all’elezione del leader delle proteste Nikol Pashinyan, era stata salutata come un successo della società civile e della democrazia. Un anno dopo, però, iniziano a intravedersi le prime crepe. Un po’ come sta succedendo nella vicina Georgia, da quest’estate in tumulto per proteste contro il governo del Sogno Georgiano. In entrambi i paesi, i governi sembrano voler minare il sistema democratico, un obiettivo che si riflette in particolare nelle riforme dei sistemi giudiziari dei due Paesi del Caucaso.

Armenia: pensione anticipata per i giudici scomodi

La settimana scorsa, il parlamento armeno ha approvato una legge che introduce la possibilità per i giudici della Corte Costituzionale di pensionarsi in anticipo. Una manovra aspramente criticata dai partiti di opposizione Armenia Prospera e Armenia Luminosa, che la considerano non soltanto uno spreco di soldi pubblici, ma soprattutto una manovra per costringere al pensionamento anticipato i giudici più vicini alla precedente amministrazione in modo da nominarne di nuovi favorevoli al governo.

In particolare, Il mio passo, il partito di Pashinyan, vorrebbe le dimissioni del presidente della Corte Costituzionale Hrayr Tovmasyan, vicino a Sargsyan e all’ex presidente Robert Kocharyan. I tre sono tutti indagati, con motivazioni che i loro sostenitori ritengono politicamente motivate. Tovmasyan è accusato di appropriazione indebita di fondi pubblici; il parlamento ha già votato per rimuoverlo dall’incarico, ma la decisione finale spetta agli altri membri della Corte Costituzionale entro fine anno. Stessa accusa anche per Sargsyan, mentre Kocharyan è sotto processo per aver autorizzato la repressione violenta di proteste nel marzo 2008, che causò 10 vittime. In seguito alle proteste, Pashinyan, allora leader dei manifestanti, aveva trascorso due anni in prigione.

Quando Kocharyan è stato scarcerato su cauzione nel maggio scorso, Pashinyan aveva invitato i cittadini armeni a bloccare gli ingressi dei tribunali del paese, un primo segno delle ingerenze dell’esecutivo nel sistema giudiziario. Da allora Kocharyan è stato nuovamente arrestato, anche se la Corte Costituzionale aveva dichiarato l’arresto incostituzionale, mentre Pashinyan continua a sostenere che una riforma radicale del sistema giudiziario sia la “seconda fase della rivoluzione” armena, dopo le manifestazioni del 2018.

Georgia: il Sogno Georgiano rinnova la Corte Suprema

Anche nella vicina Georgia la questione dell’indipendenza del giudiziario dall’esecutivo è  alquanto spinosa: il 12 dicembre il Parlamento ha approvato la controversa lista di nomine per la Corte Suprema proposta dal governo, in una seduta turbolenta durante la quale si è persino assistito al lancio di una bomba puzzolente nel parlamento, apparentemente un’azione di protesta del gruppo antigovernativo Per la libertà.

La riforma costituzionale del 2017 ha aumentato il numero di giudici della Corte Suprema georgiana, lasciando al partito di governo, il Sogno Georgiano, il compito di nominare 20 giudici in carica a vita. Un solo governo avrebbe così l’opportunità di influenzare l’organo giudiziario principale del paese per decenni, situazione criticata non solo dall’OSCE e dal Consiglio d’Europa, ma anche da membri del Parlamento e dell’Alto Consiglio della Giustizia georgiani. L’approvazione della lista dopo mesi di polemiche è quindi l’ennesima indicazione della volontà del Sogno Georgiano di concentrare il potere nelle proprie mani, senza curarsi dell’opinione pubblica, come del resto era già successo con la decisione di bloccare il passaggio a un sistema elettorale proporzionale.

Per ora sia Georgia che Armenia sono ben lontane dall’essere regimi autocratici come il vicino Azerbaigian; tuttavia, la lenta erosione delle istituzioni democratiche è un processo da monitorare prima che diventi irreversibile. I governi post-transizione nei due paesi continuano a voler accaparrarsi tutte le istituzioni, secondo uno schema di autoritarismo competitivo da cui sembra difficile trovare una via d’uscita.

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Armenia: sondaggio Gallup, 46,6 per cento ha piena fiducia nel primo ministro (Agenzianova 23.12.19)

Erevan, 23 dic 11:44 – (Agenzia Nova) – Il 46,6 per cento degli intervistati nel quadro di un sondaggio condotto dalla società di indagine e consulenza internazionale Gallup ha espresso la piena fiducia nell’operato del primo ministro Nikol Pashinyan e del suo governo. Lo ha detto il direttore della filiale armena di Gallup, Aram Navasardyan, parlando con i giornalisti. “Il 46,6 per cento degli intervistati ha dichiarato di avere piena fiducia nell’operato del premier”, ha detto.

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Armenia: presidente Sarkissian a “Il Foglio”, l’America ci illude sul riconoscimento del genocidio (Agenzianova 19.12.19)

Roma, 19 dic 09:32 – (Agenzia Nova) – Nella politica occidentale, il genocidio degli armeni riemerge a tratti come un fiume carsico. Negli Stati Uniti, per esempio, se ne è parlato molto quando, a fine ottobre, il Congresso americano ha approvato a larghissima maggioranza una mozione che infine ha riconosciuto il primo genocidio del Ventesimo secolo. Il governo armeno esultò con giubilo ma la mozione non è vincolante, e il suo contributo è soprattutto simbolico. La settimana scorsa anche il Senato ha votato all’unanimità il riconoscimento del genocidio armeno, con testo bipartisan. Venerdì il governo turco – che nega il genocidio perpetrato dagli ottomani nel 1915 – ha convocato l’ambasciatore degli Stati Uniti e ha minacciato di chiudere la base militare di Incirlik, dove sono ospitate testate nucleari americane. Così due giorni fa l’Amministrazione Trump ha bloccato il processo di riconoscimento, una portavoce del dipartimento di stato ha detto che Trump non ci pensa nemmeno a infastidire la Turchia in un momento così delicato, in cui bisogna tenersi buono Erdogan in Siria, in Libia e nella Nato. L’America mantiene la posizione che ha sempre avuto, il genocidio armeno è stato un terribile “massacro di massa”, ma non un genocidio. (segue) (Res)

Sahak II Machalyan:”E’ in corso un attacco contro i nostri antenati” (Interris 18.12.19)

Ci addolora vedere gli eventi capitati agli armeni 100 anni fa su queste terre, trasformati in strumenti di pressione economica, politica o strategica da parte dei Parlamenti di altri Stati. Riteniamo che questo conduca a una situazione che si rivolta in maniera inappropriata contro i nostri antenati”, denuncia il nuovo Patriarca armeno di Costantinopoli, Sahak II Machalyan, nelle prime dichiarazioni pubbliche diffuse dalla stampa turca dopo la sua elezione patriarcale e con evidente riferimento alla risoluzione approvata giovedì 12 dicembre dal Senato Usa che ha riconosciuta il carattere genocidario dei massacri di armeni perpetrati durante la Prima Guerra Mondiale nei territori della Penisola anatolica, riferisce Fides. Quattro anni fa, Papa Francesco, nel contesto della liturgia celebrata nella Basilica di San Pietro con i fedeli di rito armeno, aveva parlato del “Grande Male” a cento anni dalla tragedia.

Il voto del Senato Usa

I media nazionali danno ampio spazio alla netta presa di posizione da parte del nuovo Patriarca, proposta come un tratto di forte connotazione dei primi passi del suo nuovo mandato ecclesiale. In un’intervista rilasciata a Sabah, subito dopo il voto del Senato Usa, il neoeletto Patriarca armeno aveva minimizzato: “Queste cose non vanno prese troppo sul serio” aveva detto Sahak II, facendo notare che i parlamenti hanno il compito istituzionale di approvare leggi e risoluzioni, e questo non comporta nessun coinvolgimento da parte delle comunità e delle autorità ecclesiali armene. Nel contempo, evidenzia l’agenzia di stampa vaticana, il Patriarca ha comunque suggerito che le campagne di mobilitazione sul riconoscimento del genocidio armeno fanno parte di strategie più ampie, e vengono usate come strumenti di pressione geopolitica. “Avremmo voluto” ha aggiunto il nuovo Patriarca “che gli eventi vissuti su queste terre fossero trattati dalle persone che vivono in queste terre; avremmo voluto il miglioramento delle relazioni tra Turchia e Armenia. E che le due parti potessero dialogare tra loro. È proprio perché le due parti non parlano tra loro che altri Paesi, dell’altra sponda dell’Atlantico, si arrogano il diritto di immischiarsi in queste vicende”.

Armonia con tutte le componenti

In altre dichiarazioni rilanciate negli ultimi giorni dai media turchi, precisa Fides, Sahak II ha richiamato la condizione singolare vissuta dagli armeni In Turchia, che in parte li differenzia dal resto delle comunità armene sparse nel mondo, anche riguardo alla memoria dei sanguinosi eventi del 1915. “Come armeni” ha detto il Patriarca di Costantinopoli “siamo integrati in Turchia e abbiamo legato il nostro avvenire con quello della Turchia. Siamo in armonia con tutte le componenti di questa nazione”. La scelta di vivere in Turchia – ha riconosciuto Sahak – comporta un modo particolare di vivere la memoria dei fatti di sangue vissuti dagli armeni nella Penisola anatolica (eventi che il Patriarca non definisce mai pubblicamente con l’espressione “Genocidio”). “Abbiamo vissuto il trauma del 1915” sottolinea Sahak II “e l’abbiamo superato in qualche modo, continuando a vivere qui. E naturalmente gli sviluppi politici registrati al di fuori della comunità armena della Turchia ci riguardano. E l’eccitazione provocata in Turchia ha come effetto quello di fomentare odio”.

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La missione del Giusto nelle deportazioni…(Gariwo 18.12.19)

AGRIGENTO Cerimonia 7 dicembre 2019 – Interpreto il titolo proposto per questa sessione del “Premio Internazionale Empedocle per le scienze umane” dalla Presidente onoraria professoressa Assunta Gallo Afflitto, anima dell’Accademia, come un invito alla testimonianza.

Esprimo alla Presidente tutta la mia gratitudine.

Tempo fa ho ricevuto una lettera da un medico siriano rifugiato ad Aosta, il dott. Mejid. Mi chiedeva se avevo delle fotografie della sua casa natale di Der es Zor sulle rive dell’Eufrate, in Siria, dove ci eravamo incontrati. La casa è stata distrutta dai terroristi del Daesh.

Prima della guerra ero stato in Siria per un documentario sui luoghi della deportazione e del genocidio del 1915. Avevo visto i resti di un ponte costruito dagli armeni deportati, mai terminato perché il sindaco ottomano “buono”, il Giusto Ali Souad Bey lo faceva continuamente distruggere e ricostruire per poter ritardare l’eliminazione dei giovani armeni che vi lavoravano. Ho visitato le grotte dove il sindaco malvagio Zekki Bey aveva bruciato vivi più di 500 orfani armeni. A Shaddadeh mi sono inoltrato nelle caverne del deserto dove venivano gettati i deportati armeni. Sulla collina di Markadeh ho raccolto i resti delle loro ossa imbiancate e le ho portate nella chiesa armena di Milano. In quel mio viaggio della memoria ero stato ricevuto nel palazzo dei Mejid, ora distrutto. Cosa era successo più di un secolo fa in quei luoghi dove oggi si rinnova lo scempio dello sterminio dei curdi?
Un milione e cinquecentomila armeni, donne, anziani, bambini, deportati. La meta finale: il deserto siriano di Der es Zor; gli uomini e i giovani inviati sulla costruenda ferrovia Berlino-Bagdhad e eliminati.

Ho affondato lo sguardo nel male, ho calpestato la sabbia del deserto, ho messo lo sguardo nel buio delle caverne, ho intervistato i beduini che avevano nonne armene, bambine e adolescenti rapite dai convogli, ho toccato il male con le mie mani, visto, udito, raccolto. Posso testimoniare la verità della storia del mio popolo e della mia famiglia.

Ma di fronte al male estremo potevo impazzire.

Sono figlio di un minore non accompagnato. Nella primavera del 1915 il cielo di Costantinopoli si era oscurato. Il 24 aprile tutti i notabili armeni erano stati arrestati e uccisi. Il nonno Andon, consapevole che non lo avrebbe più rivisto, affidò suo figlio Ignadios, mio padre, dodicenne, a un marinaio. La grande nave partiva dalla banchina del Corno d’Oro diretta a Venezia. Mio padre si avviava all’esilio, il nonno destinato alla deportazione o, nella migliore delle ipotesi, al carcere.

Nel collegio armeno di Venezia a mio padre fu aperta la strada del futuro. Divenne medico. Anche a me dodicenne, molti anni dopo, furono aperte le porte del collegio. Ero italiano, nulla sapevo delle mie origini. Mio padre non parlava mai del passato.
E tuttavia mio padre aveva progettato per me una formazione armena. Ho studiato sugli stessi banchi di mio padre, attanagliato dalla nostalgia del mio paese di origine, Arco, nel Trentino, diviso tra l’impulso a rafforzare la mia identità italiana dimenticando il mio nome impronunciabile e l’impulso a capire perché ero lì, tra studenti armeni di tutti i paesi, di fronte ai padri che tutto spiegavano in lingua armena, anche filosofia e apologia del cristianesimo. Ho vinto la nostalgia, ho completato gli studi, sono diventato medico e ho ripreso la mia identità italiana.
E’ stata la morte di mio padre e il totale silenzio sulla sua condizione di profugo a riconsegnarmi alle mie origini armene. Da quel momento è iniziato il mio viaggio della memoria, memoria del male inferto al mio popolo. Viandante alla ricerca di testimonianze, verità di un crimine senza nome che voglio riproporre citando un passaggio di uno scrittore austriaco, di origine ebraica,Friedrich Torberg:

“Ma perché, perché? Cosa abbiamo fatto? Perché ci odiano così tanto?
“Non è una buona domanda. Non ci odiano per quel che facciamo. Ci odiano per quel che siamo”
.

Questa è la sostanza della definizione di genocidio coniata da Raphael Lemkin nel 1944 per i “crimini senza nome” con cui si è aperto il ventesimo secolo.
Tra la fine dell’Ottocento, se vogliamo ricordare lo sterminio degli Herrero e dei Nama operato dai tedeschi in Namibia, e l’inizio del Novecento che si apre con il genocidio degli armeni e continua con gli ebrei, i cambogiani, i ruandesi, la ex Iugoslavia, fino alla contemporaneità con gli yazidi, e ora i curdi, si è voluto e si vuole colpire il “nemico innocente”.
Perché? Difficile rispondere.
Si rischia di essere travolti dall’orrore. Disperazione per l’uomo, per la brutalità incontenibile, per il male estremo di cui è capace. Deportazioni, esodi, umanità dispersa, si spezza l’unità della specie umana, viene meno l’idea di una comunità possibile nella diversità dei popoli e delle culture.
E tuttavia il “Tempo dell’odio e della vergogna”, va superato. L’odio è distruttivo, così come il risentimento. Se non si vedono vie d’uscita il male non può che riproporsi. La memoria che si concentra sull’orrore è una memoria tragica e può indurre alla paralisi emotiva.
Sono riemerso. Il mio viaggio nella memoria nel male ha subito una battuta d’arresto grazie alla scoperta casuale di una pagina di storia della mia famiglia salvata, al tempo dei massacri del Sultano Abdul Hamid II, da un vicino turco che ha deviato le bande dei massacratori. Il nonno aveva raccontato questo episodio a mio padre quando aveva cominciato la scuola, per insegnargli il valore di rapportarsi alle persone, non alle categorie. Il fronte dei carnefici non è mai compatto.
Della memoria si può fare un uso positivo pur nel contesto tragico da cui emerge. A me, figlio di minore scampato al genocidio, sono venute in soccorso le azioni dei giusti.
Ho percorso le strade della memoria del bene, intrecciata al male. Non più la disperazione che paralizza, ma la fiducia che muove all’agire.
Questa la missione del Giusto, essenziale negli esodi, nelle deportazioni, nelle migrazioni, di fronte a un’umanità che subisce l’esperienza dello sradicamento.

– Esodi
Ebrei e armeni: inevitabile un raccordo tra le memorie, non solo per la vicinanza culturale o per le appartenenze religiose su cui si fondano le loro identità, non avendo potuto contare su una territorialità stabile. Siamo nell’ordine della “solidarietà dei traumatizzati”, secondo l’espressione usata da Jan Patocka.
Rileggiamo l’esodo del popolo ebraico, schiavo degli egiziani, liberato da Mosè.
Il Dio di Israele, il Dio dell’Alleanza, è accanto al suo popolo in fuga dall’Egitto e annienta gli egiziani nelle acque del Mar Rosso. Un midrash racconta: gli ebrei, salvi sull’altra riva festeggiano la salvezza. Ma il cielo si apre e la voce ammonisce: “Perché festeggiate se i miei figli egiziani sono morti!”
Il Dio di Israele, il Dio dell’Alleanza, il Dio degli eserciti, compie un atto di giustizia. Il popolo liberato deve essere all’altezza della sua umanità riconoscendo l’umanità dell’altro, riconoscendo la comune umanità.

Tredici secoli prima di Cristo l’esodo degli ebrei, undici secoli dopo Cristo l’esodo degli armeni.
La Grande Armenia nell’est dell’Anatolia con capitale Ani non riuscì a reggere l’orda dei selgiuchidi di Alp Arslan, che vinsero a Manzikert nel 1071 e presero prigioniero l’imperatore bizantino. I superstiti armeni, guidati dal principe locale Ruben, un salvatore per gli armeni, si trasferirono verso il sud est anatolico, fondando il regno della Piccola Armenia in Cilicia, che sopravvisse fino al 1375. Alleata dei crociati, baluardo della cristianità, divenne il fulcro della cultura e dell’identità nazionale armena.
Percorsi identitari quelli degli ebrei e degli armeni segnati da fenomeni di “transculturazione “ . La storia ci mostra i risvolti positivi degli esodi e dell’esilio: integrazioni tra le culture e l’emergere delle capacità di innovare.
Gli antropologi li definiscono “i doni delle avversità”, che hanno, a livello personale, costi alti. Trauma dello sradicamento, professioni interrotte e affetti lacerati, insicurezza, malinconia forse attenuata dalla speranza di poter ricominciare.
– Deportazioni
Il lavoro della memoria mette a nudo i frutti avvelenati del nazionalismo estremo del Ventesimo secolo, espressione della modernità, che hanno portato sulla scena della storia il crimine di genocidio e messo a tacere, nei tanti volonterosi carnefici, ogni istanza etica. Le deportazioni di massa sono lo strumento attraverso il quale i regimi totalitari portano a compimento lo sterminio delle minoranze etniche, di interi gruppi di individui, o dei loro sudditi.
Alla deportazione, trasferimento coatto immediato con conseguente abbandono e confisca di beni, pochi sopravvivono. Nel caso armeno la destinazione è il “nulla del deserto”. Marce forzate verso la morte di bambini, donne, anziani.
Siamo in Anatolia, nel 1915, sulle strade della deportazione.
E’ la testimonianza di una sopravvissuta, Veron, allora bambina, madre del poeta e scrittore David Kherdian .
Una carovana di disperati, cenciosi, nudi, malati, morenti, attraversa un villaggio turco. La gente distoglie lo sguardo e rientra nelle case, sbarrando porte e finestre. Sulla strada solo un anziano turco non gira la testa dall’altra parte, corre verso la fila dei deportati e cerca con affanno di offrire del pane; un soldato lo colpisce facendogli cadere il pane a terra. L’uomo si siede in mezzo alla strada per non fare passare la carovana. I soldati lo spingono di lato con la canna del fucile e gli sputano addosso. Nella carovana il padre di Veron, ancora vivo, stringe la mano della bambina: « Vedi, voleva darci il pane, è abbattuto come noi, ci sono momenti in cui un uomo si accolla la coscienza di un intero popolo» . 
Un uomo che prende su di sé le responsabilità di un popolo, un «traditore» per i gendarmi turchi, un «uomo» che compie un atto giusto per interrompere la catena del male.
Sono tante le storie dei giusti che ho raccolto negli anni, giusti non armeni coevi agli eventi tragici che hanno cercato di fermare la deportazione o di denunciare ciò che stava accadendo.
Ho onorato questi giusti portando un po’ di terra raccolta nei luoghi di sepoltura al Memoriale del genocidio di Yerevan, e fondando nel 1996 Il Comitato dei Giusti per gli armeni: la memoria è il futuro. Dall’incontro con Gabriele Nissim nel 2001 è nato poi il comitato Gariwo, la foresta dei Giusti, e dal 2003 alberi e cippi sono stati dedicati ai Giusti per gli armeni nel Giardino di Monte Stella, a Milano, nella Valle dei Templi, qui ad Agrigento e in tanti altri giardini in Italia e all’estero, l’ ultimo, nel giugno del 2019, in Libano. Proprio dal raccordo tra le memorie è nata l’universalizzazione del concetto di Giusto, applicato a tutti i genocidi e totalitarismi del Ventesimo secolo e alle emergenze della contemporaneità, in un percorso dal passato al presente che vede al centro il tema di una memoria attiva che conduce al principio di responsabilità globale.
Una delle testimonianze di questo approdo è proprio il Giardino dei Giusti della Valle dei Templi.
Vi furono anche Giusti turchi, dignitari, governatori, che tentarono di fermare i massacri: 15 di loro furono giustiziati per non avere obbedito agli ordini del governo; fra questi Mustafa Agha Azizoglu, Hilmi Bey, Gelal Bey. Ho raccolto le storie di circa cento ottomani che hanno disobbedito agli ordini a rischio della vita. L’esistenza di questi giusti che hanno rotto la compattezza del fronte dei carnefici ci conduce alla distinzione tra popolo e governo. Attendo il giorno in cui in Turchia saranno eretti monumenti ai salvatori, ai funzionari disobbedienti, alle persone che hanno scelto di ascoltare la voce della coscienza e di agire.
– Migrazioni
Il buon uso della memoria storica si misura sulla capacità di proiettarsi sul presente e di leggere le ferite della contemporaneità. Guerre, conflitti religiosi, persecuzioni, mutamenti climatici, povertà, innumerevoli le cause delle migrazioni che appartengono alla storia dell’umanità. Teniamo fermo il termine ampio di “migranti” e “migrazioni che può essere scomposto in specifici movimenti di singoli, di famiglie, di comunità, di popoli.

Molto è stato detto sul tema dei migranti e sui Giusti dell’accoglienza.

Quotidianamente assistiamo alle tragedie del mare e poche voci di giusti vincono la furia delle onde e sovrastano il fragore della politica.

Una testimonianza.

Mi trovo sull’isola di Lesbo, in lontananza le coste della Turchia si accendono di luci. Vicino a me Daphne Vloumidi, onorata tra i Giusti a Monte Stella a Milano nel marzo del 2018. Un incontro che ha lasciato il segno. Questa la sua voce:

Esiste un valore su tutti: i diritti umani. Abbiamo lottato per conquistarli e queste persone che affrontano i mari per lo più senza speranza alcuna, ne sono stati privati, e dunque io devo fare qualche cosa per loro”.

L’ albero e la targa a me dedicata nel Giardino dei Giusti di tutto il mondo è un onore che voglio continuare a meritarmi“.

Ma poi Daphne si fa seria e aggiunge: “Senza l’educazione gli alberi restano solo alberi”.

Conoscendo la sua storia si capisce che l’aiuto dato ai migranti sbarcati a migliaia sulle coste dell’isola di Lesbo visitata anche da Papa Francesco e che continuano a sbarcare sino ad oggi, nasce da una sua qualità interiore: Daphne si sente sino in fondo parte dell’umanità e mai potrebbe distogliere lo sguardo da chi chiede aiuto, perché è capace di mettersi dalla parte dell’altro.

Mentre aiuto gli altri”, mi dice, “trovo anche me stessa“.

Daphne mi accompagna al campo dei rifugiati di Moria.

Siamo vicini alla recinzione: capienza 2500, presenti 12.000
Migliaia di tende ammassate sui terrazzamenti: fili spinati, rifiuti, donne, uomini, giovani, anziani, bambini che vagano sotto un sole cocente, occhi aggrappati alla rete.
Tutti sono preda dell’ansia“, osserva Daphne, “perché il loro orizzonte è vuoto, la loro vita sospesa nel nulla“.
Anche Daphne, una Giusta per l’accoglienza, così come Alganesh, la Guardia Costiera, i pescatori di Lampedusa e tanti altri: hanno visto con i loro occhi e hanno agito.

Lo ius migrandi è la sfida del XXI secolo, per usare le parole della filosofa Donatella Di Cesare , per la quale esiste una connessione tra la migrazione e l’essenza della condizione umana. Abitare non significa radicamento, anche chi “abita” è straniero. Se riuscissimo a concepire per noi un altro modo di stare al mondo, se ci sentissimo “stranieri, residenti temporanei ”, non proietteremmo all’esterno le nostre paure, non sentiremmo lo straniero come minaccia. Riconoscere la nostra fragilità, la nostra solitudine, significa poter riconoscere la fragilità, la solitudine dello straniero, del profugo, dell’immigrato, del richiedente asilo.
C’è oggi un sentire che spinge sempre più verso l’identificazione tra Stato e Nazione, verso l’omogeneità che espelle chi alla Nazione non appartiene, erigendo recinti giustificati da motivi politici, giuridici, economici, sociali. Riappare il rischio delle espulsioni e delle pulizie etniche e sembra non esserci speranza per l’Europa unita nelle diversità.

Ho già sottolineato che l’identità armena non si è radicata su una territorialità stabile, ma su una appartenenza religiosa, linguistica, culturale, ma soprattutto sull’apertura all’altro. Più di cento etnie del Caucaso sono scomparse, ma gli armeni esistono ancora, tre milioni nella patria ritrovata, dieci milioni in diaspora, cittadini svincolati dal possesso del territorio, portatori di una identità capace di riconoscere nell’altro la comune umanità, impegnati a sostenere una condivisione dello spazio comune.

Chiudo ricordando un episodio che mi è accaduto in Armenia. Negli anni 1988 e 1989 , in un quadro di conflittualità nascente che ha portato poi alla guerra tra l’ Azerbaigian e l’enclave armena del Nagorno Karabagh, un mullah azero che viveva con la sua comunità musulmana in terra armena, a Evlu, e un maestro di scuola armeno che viveva con la sua comunità armena in un villaggio dell’Azerbaigian si sono incontrati, hanno abitato insieme per conoscersi e sono poi riusciti a concordare lo scambio tra le due comunità: ognuna di esse ha messo a disposizione dell’altra le proprie case, le scuole, i campi, gli animali, gli attrezzi. Non è bastato ad evitare la guerra, ma i due Giusti, hanno salvato delle vite, evitando che venissero snaturate dalla guerra e chi salva una vita non salva il mondo intero, ma opera per la realizzazione della nostra comune umanità.

Esprimo profonda gratitudine alla Presidente emerita Assunta Gallo Afflitto, alla Giuria e a tutti i presenti.

Voglio dedicare questo premio all’amico Gabriele Nissim, Presidente di Gariwo, con il quale percorro da anni una strada che ci vede impegnati a scoprire e far vivere nei Giardini le storie dei Giusti dell’Umanità per donarle a chi verrà dopo di noi, nella speranza che queste luci restino accese nei tanti momenti bui della storia e rendano visibile e chiara la strada da percorrere.

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Erdogan sfida gli Usa: “Riconosceremo genocidio la strage dei nativi” (Ilgionrale 18.12.19)

Il presidente turco Erdogan ha di recente annunciato la sua ritorsione verso gli Usa dopo che il Congresso di Washington ha definito “genocidio” il massacro degli armeni: riconoscere a sua volta come “genocidio” la strage degli indiani d’America.

La contromisura del leader dell’Akp è stata da lui annunciata durante un’intervista all’emittente turca filogovernativa A Haber, subito rilanciata da The Independent e dal portale web News.am.

Nel suo intervento, Erdogan, riporta quest’ultimo organo di informazione, ha innanzitutto rigettato le accuse di negazionismo lanciategli finora dall’occidente, affermando di avere messo a disposizione degli storici di tutto il mondo i documenti degli archivi nazionali turchi relativi al periodo in cui si sarebbe verificato il “genocidio armeno”.

Il presidente ha infatti affermato: “Abbiamo messo a disposizione degli studiosi più di un milione di documenti sui fatti del 1915; vengano qui e li studino”.

L’esponente dell’Akp ha in seguito rimarcato, riferisce il giornale inglese, la propria irritazione per la risoluzione del parlamento statunitense sul“genocidio armeno” minacciando il via-libera, da parte dell’assemblea legislativa di Ankara, a una misura simbolica che rinfacci a Washington le sue altrettanto gravi responsabilità storiche: “Noi dovremmo opporci alla risoluzione del Congresso mediante un provvedimento analogo votato dal nostro parlamento. E questo è proprio ciò che faremo”.

Egli ha quindi fatto riferimento alla tragedia dei nativi americani, sterminati prima dai coloni europei e successivamente dal governo degli Stati Uniti:“Come si può parlare dell’America e tralasciare la questione indiana? Il massacro dei nativi è una pagina vergognosa della storia di quel Paese”.

La mossa di Erdogan di equiparare a un genocidio la strage degli indiani d’America è stata preceduta, precisa The Independent, dalle dichiarazioni di tono analogo della deputata Usa di origini somale Ilhan Omar. La parlamentare musulmana aveva infatti nei giorni scorsi criticato la risoluzione del Congresso sugli armeni, affermando che anche alcuni controversi aspetti della storia a stelle e strisce, come appunto la questione indiana e lo sfruttamento degli schiavi africani, andrebbero condannati con uguale forza dalle istituzioni di Washington.

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Patriarca armeno di Turchia critica il Congresso Usa per avere riconosciuto il genocidio del 1915 (Il Messaggero 18.12.19)

Città del Vaticano – Dopo avere letteralmente benedetto i soldati turchi prima dell’invasione della Siria in territorio curdo per l’operazione militare Primavera di Pace (che ha visto l’utilizzo anche di armi non convenzionali), il neo eletto patriarca armeno di Costantinopoli, Sahak Masalyan è di nuovo tornato a fare discutere. Stavolta per avere aspramente criticato il Congresso americano che ha appena approvato (dopo diverse traversie) una mozione che riconosce il genocidio armeno costato la vita a un milione e mezzo di cristiani armeni nel 1915 a causa di un piano di sterminio programmato dal governo ottomano di allora.

«Ci addolora vedere gli eventi capitati agli armeni 100 anni fa su queste terre, trasformati in strumenti di pressione economica, politica o strategica da parte dei Parlamenti di altri Stati. Riteniamo che questo conduca a una situazione che si rivolta in maniera inappropriata contro i nostri antenati».

Il Patriarca armeno (la cui elezione è stata a dir poco controversa spaccando la minuscola comunità armena che ancora oggi sopravvive in Turchia) ha sottolineato che i parlamenti che nel mondo riconoscono la verità storica di quello che è avvenuto nel 1915 in Turchia dovrebbero pensare ad altro, visto che hanno «il compito istituzionale di approvare leggi e risoluzioni, e questo non comporta nessun coinvolgimento da parte delle comunità e delle autorità ecclesiali armene».

Secondo diversi media locali il patriarca avrebbe anche affermato che le relazioni tra la Turchia e l’Armenia (già oggi ai minimi storici o quasi inesistenti) potrebbero avere ulteriori contraccolpi negativi proprio per la recente mozione adottata dal Congresso americano. In Turchia esiste ancora un articolo del codice civile che punisce con l’arresto coloro che parlano apertamente di ‘genocidio’ riferendosi ai fatti storici del 1915.

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Il nuovo Patriarca armeno: la questione del Genocidio armeno strumentalizzata per strategie economico-politiche (Fides 17.12.19)

Istanbul (Agenzia Fides) – “Ci addolora vedere gli eventi capitati agli armeni 100 anni fa su queste terre, trasformati in strumenti di pressione economica, politica o strategica da parte dei Parlamenti di altri Stati. Riteniamo che questo conduca a una situazione che si rivolta in maniera inappropriata contro i nostri antenati”. Lo ha detto il nuovo Patriarca armeno di Costantinopoli, Sahak II Machalyan, nelle prime dichiarazioni pubbliche diffuse dalla stampa turca dopo la sua elezione patriarcale e con evidente riferimento alla risoluzione approvata giovedì 12 dicembre dal Senato USA che ha riconosciuta il carattere genocidario dei massacri di armeni perpetrati durante la Prima Guerra Mondiale nei territori della Penisola anatolica.
I media nazionali danno ampio spazio alla netta presa di posizione da parte del nuovo Patriarca, proposta come un tratto di forte connotazione dei primi passi del suo nuovo mandato ecclesiale. In un’intervista rilasciata a Sabah, subito dopo il voto del Senato USA, il neoeletto Patriarca armeno aveva minimizzato: “Queste cose non vanno prese troppo sul serio” aveva detto Sahak II, facendo notare che i parlamenti hanno il compito istituzionale di approvare leggi e risoluzioni, e questo non comporta nessun coinvolgimento da parte delle comunità e delle autorità ecclesiali armene. Nel contempo, il Patriarca ha comunque suggerito che le campagne di mobilitazione sul riconoscimento del Genocidio armeno fanno parte di strategie più ampie, e vengono usate come strumenti di pressione geopolitica.
“Avremmo voluto” ha aggiunto il nuovo Patriarca “che gli eventi vissuti su queste terre fossero trattati dalle persone che vivono in queste terre; avremmo voluto il miglioramento delle relazioni tra Turchia e Armenia. E che le due parti potessero dialogare tra loro. È proprio perché le due parti non parlano tra loro che altri Paesi, dell’altra sponda dell’Atlantico, si arrogano il diritto di immischiarsi in queste vicende”.
In altre dichiarazioni rilanciate negli ultimi due giorni dai media turchi, Sahak II ha richiamato la condizione singolare vissuta dagli armeni In Turchia, che in parte li differenzia dal resto delle comunità armene sparse nel mondo, anche riguardo alla memoria dei sanguinosi eventi del 1915. “Come armeni” ha detto il Patriarca di Costantinopoli “siamo integrati in Turchia e abbiamo legato il nostro avvenire con quello della Turchia. Siamo in armonia con tutte le componenti di questa nazione”. La scelta di vivere in Turchia – ha riconosciuto Sahak – comporta un modo particolare di vivere la memoria dei fatti di sangue vissuti dagli armeni nella Penisola anatolica (eventi che il Patriarca non definisce mai pubblicamente con l’espressione “Genocidio”). “Abbiamo vissuto il trauma del 1915” sottolinea Sahak II “e l’abbiamo superato in qualche modo, continuando a vivere qui. E naturalmente gli sviluppi politici registrati al di fuori della comunità armena della Turchia ci riguardano. E l’eccitazione provocata in Turchia ha come effetto quello di fomentare odio”. (GV) (Agenzia Fides 17/12/2019).

Cosa c’è dietro le scintille fra Ankara e Washington (Formiche.it 17.12.19)

La settimana scorsa la commissione Esteri del Senato Usa ha dato il proprio via libera all’imposizione di sanzioni contro Ankara, in risposta all’acquisto dei sistemi di difesa aerea russi S-400. Inoltre il Senato ha votato una risoluzione per riconoscere come “genocidio” il massacro degli armeni del 1915. La risposta della Turchia non si è fatta attendere

Fine d’anno con scintille fra Turchia e Stati Uniti. In pochi giorni a Washington è andata in scena una doppietta che ha irritato non poco la Mezzaluna. La settimana scorsa, la commissione Esteri del Senato Usa ha dato il proprio via libera all’imposizione di sanzioni contro Ankara, in risposta all’acquisto dei sistemi di difesa aerea russi S-400. Pochi giorni dopo il Senato ha votato una risoluzione per riconoscere come “genocidio” il massacro degli armeni del 1915.

La reazione della Turchia non si è fatta attendere. Ankara ha minacciato di chiudere la base di Incirlik, nel sud-est del Paese e particolarmente strategica per la sua posizione geografica, ma soprattutto contenente materiale Nato fra cui una cinquantina di testate nucleari di vecchia generazione.

Alla fine della scorsa settimana la notizia aveva iniziato a circolare sui principali mezzi di informazione turchi, fino a quando, due giorni fa, a minacciare questo provvedimento, è stato il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, in persona.

“Se si renderà necessario per noi fare questo passo, avremo certamente l’autorità necessaria a farlo. Se necessario, chiuderemo Incirlik” ha detto Erdogan durante una intervista televisiva quando gli si è chiesto di commentare le decisioni del Senato Federale. Il presidente turco ha aggiunto che potrebbe essere chiusa anche la base radar di Kurecik.

Sembra insomma che il 2019 si chiuda con presupposti per il 2020 tutto fuorché pacifici. Di certo diversi dal clima di grande cordialità e sinergia che aveva caratterizzato la visita del presidente Erdogan a Washington lo scorso novembre.

“L’affare S-400″ ormai si trascina da mesi, da quando la Russia ha iniziato a consegnare alla Turchia le testate missilistiche che sono state impiantate sul territorio di un Paese che è membro della Nato. Washington ha reagito estromettendo Ankara dal programma F-35, i caccia da guerra di ultima generazione, nonostante il governo guidato da Erdogan abbia più volte assicurato che i due sistemi non sarebbero entrati in conflitto fra di loro.

Il prossimo anno potrebbe segnare un punto di non ritorno fra i due Paesi. La Turchia ha da tempo annunciato l’intenzione di acquistare nuovi caccia da guerra. Il presidente americano Trump è convinto che i prescelti potrebbero essere gli F-35, ma da Mosca è arrivata un’offerta che potrebbe rivelarsi molto allettante per Ankara, intenzionata a creare una sua industria di difesa: l’acquisto di nuovi missili e caccia da guerra con una parte delle testate prodotta in Turchia.

La scelta di questa seconda opzione potrebbe provocare una frattura con gli Usa senza precedenti.

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