ARMENIA: Trent’anni di indipendenza e sentirli tutti (Eastjournal 21.09.21)

Il 21 settembre 2021, l’Armenia festeggia i trent’anni d’indipendenza. In seguito ad una risoluzione approvata dal Consiglio Supremo il 23 agosto 1991, un referendum storico sanciva l’indipendenza dell’Armenia dopo settant’anni di dominio sovietico. A novembre dello stesso anno, Levon Ter-Petrosyan veniva eletto primo presidente della Repubblica Armena indipendente.

Da allora, il 21 settembre è diventato una data storica per gli armeni in tutto il mondo, con celebrazioni e parate per l’anniversario dell’indipendenza organizzate in Armenia, e non solo. Questo perché anche le nuove generazioni sono consapevoli di quanto questo traguardo sia stato raggiunto dopo secoli caratterizzati da una storia difficilissima. Una storia che ha visto gli armeni diventare le vittime del primo genocidio del ventesimo secolo, vedere svanire l’esperienza di una prima repubblica tra il 1918 e il 1920 e, infine, vivere sette decenni come parte dell’Unione sovietica.

Tirare le somme

Trent’anni si fanno una volta sola e, alla luce dei recenti avvenimenti politici e militari che stanno colpendo il paese, chiedersi quale bilancio possano trarre gli armeni da questo trentennio di indipendenza risulta doveroso. Proviamo a farcene un’idea qui.

Nonostante il clima di euforia e di entusiasmo iniziale, la strada dell’indipendenza si è rivelata per l’Armenia insidiosa e ricca di ostacoli. Il paese risentiva ancora delle conseguenze del terremoto dello Spitak, che aveva colpito le regioni settentrionali nel 1988 con una intensità di 7 gradi magnitudo della scala Richter. Oltre ad aver provocato decine di migliaia di vittime, feriti e sfollati, il sisma aveva danneggiato, o in alcuni casi annientato, alcune delle infrastrutture chiave del paese.

La carenza di risorse energetiche e la conformazione montuosa del territorio armeno hanno fatto sì che l’economia armena si sia sviluppata su una base produttiva limitata. Ciò ha portato ad un fenomeno di migrazione di massa, nonché a sua volta ad una estrema vulnerabilità dell’economia al peso delle rimesse provenienti dall’estero.

Sebbene alcune riforme economiche supportate dal Fondo monetario internazionale nella seconda metà degli anni Novanta abbiano promosso una certa crescita economica, con il PIL armeno in crescita a tassi annui medi del 13% tra il 2002 e il 2007, non tutti hanno beneficiato di questo trend positivo. Basti pensare che, secondo i dati della Banca mondiale, nel 2010 il 36% della popolazione armena viveva sotto la soglia nazionale di povertà.

È sul fronte della politica estera che però l’Armenia ha vissuto e vive le maggiori difficoltà. Il crollo dell’Unione Sovietica ha trascinato il paese in un conflitto tutt’ora irrisolto con il vicino Azerbaigian. L’oggetto del contendere è stata la regione del Nagorno-Karabakh; un territorio montuoso abitato da una maggioranza armena, ma riconosciuto internazionalmente come parte dell’Azerbaigian. Erevan e Baku si sono scontrate in due guerre; la prima, combattuta tra il 1989 e il 1994 e vinta dall’Armenia, e la seconda, durata 44 giorni nella seconda metà del 2020 e vinta dall’Azerbaigian.

Dopo lo scoppio del primo conflitto, l’Armenia si è ritrovata con due dei suoi cinque confini, quello azero e turco, chiusi. Un ulteriore scacco alla già ristretta connettività del paese.

Le clausole dell’accordo di pace del 9 novembre 2020, firmato tra le due parti con la mediazione del presidente russo Vladimir Putin hanno imposto a Erevan diverse concessioni. Duemila peacekeeper russi sono stati schierati nel corridoio di Lachin, la strada che collega l’Armenia con il Nagorno-Karabakh, con un incarico di cinque anni prorogabile di altri cinque. L’Azerbaigian ha ottenuto che venga costruita anche una strada di collegamento, attraverso il territorio armeno, con l’enclave del Nachicevan e con la Turchia. Gli armeni si sono dovuti ritirare dai sette distretti che circondano la regione contesa, nonché da molte aree del Nagorno-Karabakh stesso. Tra le perdite maggiori vi è la storica città di Shushi/Shusha, ora sotto controllo azero. Secondo le stime governative, i soldati armeni morti durante la Seconda Guerra del Nagorno-Karabakh sono oltre tremila, ma altre stime sostengono che le vittime potrebbero raggiungere anche le cinquemila unità.

Le ostilità tra le due parti non si sono limitate alla regione contesa e continuano tutt’ora.

L’alleato russo

Nonostante l’istanza indipendentistica sia stata in Armenia più sentita rispetto ad altre ex repubbliche socialiste sovietiche, il periodo di transizione non ha allontanato Erevan dalla sfera di influenza politica e militare della Russia. Al contrario, l’Armenia partecipa nelle principali organizzazioni regionali promosse dal Cremlino per mantenere la sua influenza nei paesi dello spazio post-sovietico; Dall’Organizzazione del Trattato di Sicurezza all’Unione Economica Eurasiatica. Mediante la concessione di prestiti a fondo perduto, aiuti militari, acquisizioni di compagnie statali e infrastrutture strategiche ottenute grazie ad una serie di rapporti di favore con una parte della politica armena, Mosca si è assicurata il pieno controllo dell’economia del paese. Non è un caso che, a seguito della crisi del rublo russo del 2014, anche il dram armeno ha subito una forte svalutazione.

Dopo essere salito al potere nella primavera del 2018, attraverso la cosiddetta rivoluzione di vellutoNikol Pashinyan ha tentato di promuovere riforme radicali per rilanciare l’economia armena e combattere la corruzione, guadagnandosi un ampio sostegno popolare. Sebbene con il disastro militare del 2020, il suo consenso si sia ridimensionato, Pashinyan è riuscito a vincere le elezioni anticipate straordinarie tenutesi nel giugno 2021. La situazione è più che mai complicata, ed è difficile immaginare una via di uscita ora.

Il 21 settembre non sarà quindi un giorno come gli altri per l’Armenia. Sia perché trent’anni si fanno una volta sola, sia perché la situazione economica e politica del paese senza precedenti ha lasciato l’intera popolazione in uno stato di sgomento e incertezza. Non a caso, quando il governo ha annunciato piani per le celebrazioni dell’anniversario all’inizio di settembre, l’opinione pubblica ha risposto in maniera critica. Soprattutto i familiari dei soldati uccisi nella guerra del Nagorno-Karabakh del 2020 hanno ritenuto inappropriati i festeggiamenti. Al posto della parata, questi ultimi hanno proposto un incontro al cimitero di Yerabur, luogo di sepoltura dei soldati armeni che hanno perso la vita durante il conflitto del Nagorno-Karabakh.

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Sandri al Sinodo armeno: il nuovo Patriarca sia un padre e una guida (Vaticannews 21.09.21)

Celebrata ieri pomeriggio a Roma la Divina Liturgia per l’apertura del Sinodo della Chiesa armeno cattolica chiamato ad eleggere il nuovo Patriarca che succederà a Gregorio Pietro XX Ghabroyan scomparso nel maggio scorso. Il prefetto della Congregazione per le Chiese Orientali ha portato la vicinanza del Papa, invitando a scegliere una figura capace di unire memoria e sguardo al futuro della comunità armena

Gabriella Ceraso – Città del Vaticano

Si è aperto un “tempo di preghiera, riflessione, condivisione e discernimento” per la Chiesa armena riunita con i padri sinodali, da ieri a Roma, per eleggere il nuovo Patriarca che succede a Gregorio Pietro XX Ghabroyan, morto nel maggio scorso. E la prima invocazione è alla discesa dello Spirito Santo, “portale d’ingresso” di questa esperienza che inizia, cui si unisce la preghiera e la vicinanza del Papa. Proprio la sua “parola sarà la bussola per solcare il mare della storia nella multiforme unità della Chiesa Cattolica”. Così il cardinale Leonardo Sandri Prefetto della Congregazione per le Chiese Orientali, nella Divina Liturgia in rito Armeno per l’apertura del Sinodo che mercoledì inizierà le votazioni.

A Cristo Eucaristia “il primato” oltre ogni “logica, pensiero o schieramento umano”, ha detto il porporato, per una ” purificazione” che, come San Gregorio di Narek intendeva, vuol dire “spalancare quanto più possibile l’animo dell’uomo di ogni tempo alla luce della grazia, affinchè essa possa tutto pervaderlo e guarirlo”:

Ciascuno di noi è dunque convocato in questi giorni come i discepoli di Gesù dopo la Resurrezione, in Galilea, il luogo della prima chiamata e del discepolato, perché attraverso di voi e delle vostre scelte la Chiesa Patriarcale di Cilicia degli Armeni possa vivere un nuovo inizio. Ponete dunque col pane e il vino sull’altare la vostra vita personale e quella dei vostri confratelli Vescovi, chiedendo per voi stessi e per loro il dono della purificazione, della trasformazione e della missione.

Caput e Pater

Traendo poi ispirazione dalle Scritture, il cardinale Sandri, nell’introdurre la figura del nuovo Patriarca, ha voluto ricordare la storia e le vicende del popolo armeno, specie quello in diaspora in quasi tutti i continenti: una storia intessuta di spostamenti forzati, di violenze e di persecuzioni e che hanno però lasciato intatto sulle “labbra” di ciascuno “il nome di Cristo”. “Le sofferenze del passato e del presente, la ricerca di una dimora stabile e di sicurezza, la fuga dai poteri che ne hanno insidiato la vita li ha condotti a disperdersi. Hanno bisogno di pastori che li conducano, li ricerchino, sappiano chiamarli per nome come fa il buon pastore descritto nel Vangelo”:

Il nuovo Patriarca dovrà essere non solo per definizione tradizionale Caput et Pater. Capo soltanto nella misura in cui potrà farsi servo, Padre perché sentirà la responsabilità per tutti i suoi figli.

E ancora, dovrà saper attingere come “lo scriba del Vangelo alle cose antiche e a quelle nuove”, custodendo il passato e guardando al nuovo con impronta evangelica:

Dovrà essere certamente custode della memoria e della tradizione, perché un popolo che non conosce il suo passato non ha neanche un futuro, ma insieme a tutti i fedeli dovrà essere capace di cercare il sogno di Dio per le vostre comunità, ciò che consenta non di preservare le pietre ma sciogliere le vele e prendere il largo sulla parola del Signore.

Un Sinodo sostenuto dalla preghiera del popolo di Dio e del Papa

E nel cammino futuro – ha soggiunto il cardinale Sandri – il nuovo Patriarca dovrà contare su tutte le componenti che la storia gli ha consegnato, “il popolo santo di Dio che sta pregando per voi”. “Preziosa – ha detto il Prefetto della Congregazione per le Chiese Orientali – sarà la memoria dei santi e dei martiri del passato e del presente, la consapevolezza della vitalità delle famiglie e delle istituzioni educative, l’urgenza di coltivare e rinsaldare il rapporto con i fratelli della Chiesa Apostolica, in Armenia come nel Libano e in tutto il mondo”.

Quindi l’affidamento a Maria e la supplica del Santo, caro agli armeni, Gregorio di Narek:

Ricevi da me che ti acclamo questa preghiera di supplica,
presentala, offrila a Dio.Intreccia, unisci in essa i miei sospiri amari di peccatore
con le tue felici intercessioni e col profumo di incenso,o pianta di vita, del Frutto benedetto del tuo grembo,
affinché sempre soccorso da te e ricolmo dei tuoi benefici,
avendo trovato rifugio e luce presso la tua santa maternità,
io viva per il Cristo, tuo Figlio e Signore. Amen

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Parla Taner Akçam, lo storico turco che ha trovato le prove del genocidio armeno (Ilfoglio 21.09.21)

Il docente della Clark University nel Massachusetts ha scritto un saggio basato sull’imponente schedario del sacerdote cattolico Krikor Guerguerian: uno sterminio pianificato con lo scopo di una sistemica, seriale confutazione da parte delle autorità, perché “il negazionismo è una struttura politica”

Franz Werfel aveva raccontato il genocidio armeno ne I quaranta giorni del Mussa Dagh. È il 1915, gli abitanti di sette villaggi posti ai piedi della Montagna di Mosè resistono all’avanzata ottomana, fino a quando sono tratti in salvo da un incrociatore francese che pattuglia il golfo di Antiochia. Anche un poeta americano, Peter Balakian, con la silloge Ozon Journal allude allo scavo dei resti delle vittime nel deserto siriano. Il prozio di Peter è Grigoris Balakian, vescovo della Chiesa apostolica armena e memorialista scampato alla strage. Padre Grigoris è citato nel saggio di Taner Akçam, Killing orders. I telegrammi di Talat Pasha e il Genocidio armeno (a cura di Antonia Arslan, traduzione di Vittorio Robiati Bendaud e Alice Zanzottera, Guerini e Associati, 312 pp., 25 euro).

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Riunito a Roma il Sinodo elettivo dei vescovi armeni cattolici per eleggere il nuovo patriarca della Cilicia (Farodiroma 20.09.21)

“Il Santo Sinodo elettivo svoltosi a partire dallo scorso 22 giugno presso il Convento libanese di Nostra Madre di Bzommar non è andato a buon fine. In quindici giorni, nessun candidato alla guida dei vescovi armeni cattolici ha ottenuto i due terzi dei voti dei dodici vescovi partecipanti al Sinodo, soglia richiesta per essere eletto successore del Patriarca Krikor Bedros XXI Ghabroyan, scomparso lo scorso 25 maggio. A quel punto, secondo quanto è stabilito dal Codice dei Canoni delle Chiese orientali, le sessioni del Sinodo elettivo sono state interrotte, e la questione è stata rimessa al Papa. Ora ci ritroveremo il prossimo 20 settembre, presso il Pontificio Collegio armeno di Roma, per due giorni di ritiro spirituale. Poi, a partire dal 22 settembre, inizierà l’assemblea sinodale per eleggere il nuovo Patriarca, che si svolgerà sotto la presidenza del cardinale Leonardo Sandri, Prefetto della Congregazione per le Chiese orientali”. Lo scrive l’agenzia vaticana Fides. La Chiesa armeno-cattolica è una Chiesa cattolica patriarcale sui iuris nata nel 1742 dalla Chiesa nazionale armena. Fu riconosciuta da papa Benedetto XIV (1740-58).
È presente con comunità in Libano, Iran, Iraq, Egitto, Siria, Turchia, Israele, Palestina ed in altre realtà della diaspora armena nel mondo; in minima parte è presente anche nella madrepatria armena. Il numero dei fedeli è stimato in 585.000 (2010).
La sede della Chiesa armeno-cattolica è a Bzoummar, in Libano.
Il primate della Chiesa armeno-cattolica è il patriarca di Cilicia che ha sede a Beirut.

Riguardo alle procedure di elezione dei Patriarchi, il canone 72 del Codice dei Canoni delle Chiese orientali, al primo comma, stabilisce che “è eletto colui che ha riportato due terzi dei voti, a meno che per diritto particolare non sia stabilito che, dopo un conveniente numero di scrutini, almeno tre, sia sufficiente la parte assolutamente maggiore dei voti (eventualità attualmente non contemplata nel diritto particolare della Chiesa armena cattolica, ndr) e l’elezione sia portata a termine a norma del canone 183, §§3 e 4”. Il secondo comma del medesimo canone 72 chiarisce che “Se l’elezione non si porta a termine entro quindici giorni, da computare dall’apertura del Sinodo dei Vescovi della Chiesa patriarcale, la cosa viene devoluta al Romano Pontefice”.

Se anche il Sinodo elettivo della Chiesa patriarcale armena cattolica dovesse registrare una nuova situazione di stallo, l’esito positivo dell’assemblea elettorale sarà comunque garantito dal ricorso a alcune deroghe, che dopo un certo numero di votazioni avvenute senza esito consentiranno di eleggere Patriarca il candidato che raggiunge la maggioranza assoluta (la metà più uno) dei voti espressi. Se l’impasse elettorale dovesse perpetuarsi, sarà eletto Patriarca il candidato che ottiene la maggioranza relativa dei consensi. Se infine i voti dei vescovi votanti dovessero concentrarsi in maniera assolutamente paritaria intorno a due candidati, diverrà Patriarca il vescovo più anziano per ordinazione sacerdotale.

Fonte: Fides

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Armenia-Russia: siglato accordo fra ministro Economia di Erevan e banca Veb (Agenzianova 20.09.21)

Erevan, 20 set 12:34 – (Agenzia Nova) – Il ministero dell’Economia dell’Armenia, la banca statale Veb e la Corporazione per lo sviluppo e gli investimenti dell’Armenia hanno firmato un accordo di cooperazione a Erevan. Lo ha detto il ministro dell’economia armeno Vahan Kerobyan in un briefing con la stampa. Secondo Kerobyan, questo accordo renderà più facile negoziare le fonti di finanziamento quando si individueranno dei progetti comuni. La firma è avvenuta durante una tavola rotonda sul tema “Cooperazione economica russo-armena”. Secondo Kerobyan, un altro accordo di cooperazione è stato firmato tra l’organizzazione armena Imagine Hub by Soft e la Fondazione Skolkovo a sostegno delle start up del Paese caucasico. (Rum)

Hrant Dink: il giornalismo e la libertà di informazione (Lamiacittanews 18.09.21)

Perché scrivere e leggere articoli di giornale?

Quale è la meravigliosa bellezza di questa professione?

Cosa non andrebbe mai perduto? Cosa dovrebbe essere considerato inviolabile?

Informare e informarsi è un diritto sacrosanto e il giornalismo non dovrebbe mai smarrire il suo filo rosso, la sua deontologia.

Fare giornalismo è un atto comunitario, è un operare che guarda verso l’altro, che fa l’occhiolino alla collettività.

Fare informazione dovrebbe intendersi come un contributo dato alla libertà.

È proprio grazie all’informazione infatti, quella libera, quella giusta, quella scevra da condizionamenti e interessi, siano essi politici, economici o quant’altro, che nasce e si rafforza la democrazia.

È solo tramite una conoscenza approfondita e attenta, tramite un’investigazione mirata che non escluda alcun punto di vista, che si formano le coscienze, le buone coscienze, che si solidificano le opinioni degli uomini: non importa se vicine o antistanti, quel che conta è che abbiano un solido fondamento.

Fare giornalismo e farlo bene è un obbligo morale verso la comunità, la società, verso gli altri e se stessi.

Non sono mancati però, personaggi che hanno pagato per tutto ciò, un conto salato. Di nomi ce ne sono tanti, se ne ricorda uno, il cui anniversario di nascita ricorreva solo qualche giorno fa, proprio il 15 settembre.

Nasceva in questa stessa giornata del 1954 Hrant Dink, uno scomodo giornalista, che ha pagato con la sua stessa vita l’audacia di un “mestiere” ben svolto.

Merita di essere ricordato, Dink, eretto a simbolo della libertà informativa.

È stato assassinato con tre colpi di pistola il 19 gennaio del 2007 a Istanbul, proprio all’ingresso della sede del settimanale che egli stesso dirigeva.

“Agos”, pubblicato sia in turco sia in armeno, si tradusse ben presto in un punto di riferimento per quanti credevano in una possibile Turchia più democratica.

In un editoriale poi, uscito poco prima della sua morte, Dink rese nota l’origine della figlia adottiva di Atatürk, che sarebbe stata appunto, un’orfana armena.

Di lì, il processo, con l’accusa di oltraggio all’identità turca.

Si è trattato di un assassinio di Stato per gran parte dell’opinione pubblica, data dalla mancanza di protezione per il giornalista e dall’insabbiamento delle prove nel processo.

L’indignazione generale si è tradotta, nel corso del tempo, in una marcia che, anno dopo anno, ha saputo unire tutti, non ha escluso nessuno, non ci fu individuo che ne rimase indifferente; né politici né apolitici, non i turchi né gli armeni, non i suoi amici e neppure chi aveva imparato in quella stessa occasione a conoscerlo; tutti insieme, in onore del suo ricordo nella marcia del 19 gennaio, data che segna la sua morte.

“Siamo tutti armeni, siamo tutti Hrant Dink” urlava la folla che annualmente scendeva spontaneamente in piazza per lui, per quell’uomo comune ma di spiccato coraggio, quello con il quale potersi facilmente identificare, quello mite e aperto al dialogo.

La popolazione sapeva finalmente essere unita, accorpata, senza curarsi delle barriere e dei simboli che invece, per loro stessa natura, dividono.

È un grido che ha bisogno di rimanere vivo, sono frasi che meritano di risuonare ancora.

È necessario che continuino ad esistere, che lo facciano in onore della sua memoria, affinché possa divenire oggi una guida tanto urgente quando necessaria, affinché si trasformi in un esempio per quanti si accostano a questo modo;

per i fruitori di notizie sì, ma anche e soprattutto per chi, le notizie le cerca, le scova, le raccoglie e le condivide.

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ARMENIA. NAGORNO KARABAKH: INTENTATA UNA CAUSA ALL’AZERBAIJAN (Notizie Geopolitiche 18.09.21)

di Alberto Galvi –

Il governo di Erevan ha intentato una causa presso l’ICJ (International Court of Justice) nei confronti dell’Azerbaigian, accusando decenni di violazioni dei diritti, inclusa la guerra dello scorso anno per il Nagorno Karabakh. L’ICJ è il tribunale dell’ONU per la risoluzione delle controversie tra paesi, ma ancora deve esserne stabilita la competenza sul caso.
Entrambi i paesi sono stati firmatari della Convenzione internazionale sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale, ma per via dei combattimenti tra settembre e novembre l’Armenia ha accusato le forze azere di aver distrutto il patrimonio culturale e religioso armeno e di aver preso di mira infrastrutture civili.
Le truppe azere hanno cacciato le forze armene da aree che controllavano dagli anni ’90, all’interno e intorno alla regione del Nagorno-Karabakh. A quell’epoca i separatisti sostenuti dagli dichiararono l’indipendenza dall’Azerbaigian, cosa che ha comportato una guerra che ha provocato circa 10mila morti.
L’Azerbaigian durante il conflitto ha accusato le forze armene di crimini di guerra.
L’alleato dell’Armenia, la Russia, si è rifiutata di intervenire militarmente protendendo per il dialogo, mentre l’Azerbaijan ha potuto contare sull’appoggio della Turchia.
A seguito dei colloqui trilaterali la Russia ha dispiegato diverse migliaia di peacekeeper nel Nagorno-Karabakh, ma stando alle accuse armene dal cessate-il-fuoco del 10 novembre l’Azerbaigian avrebbe continuato a perpetrare violenze di ogni genere nei confronti di prigionieri di guerra armeni, ostaggi e altre persone detenute. L’Armenia pertanto ha deciso di chiedere all’ICJ di ritenere l’Azerbaigian responsabile di violazioni.

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Lecco racconta l’Armenia. Un’amicizia che continua (Mi-Lorenteggio 18.09.21)

(mi-lorenteggio.com) Lecco, 18 settembre 2021 – Tre giorni di eventi per “Lecco racconta l’Armenia. Un’amicizia che continua”, iniziativa organizzata da Amici Lecco-Vanadzor Italia-Armenia, Casa Armeno Hay Dun e Unione Armeni d’Italia, in collaborazione con Comune di Lecco e Provincia di Lecco.

In programma da venerdì 24 a lunedì 27 settembre, l’iniziativa partirà con la conferenza di venerdì 24, alle 20.45, a Palazzo delle Paure, sul futuro dell’Armenia in un dialogo fra Gigi Riva, giornalista, e il professor Aldo Ferrari, docente e storico. Nella seconda giornata di sabato 25 sono previsti tre appuntamenti: alle 10.30 nel cortile di Palazzo Bovara si terrà l’inaugurazione della mostra “Lecco racconta l’Armenia. Un’amicizia che continua” (la mostra è visitabile a partire da sabato 18 settembre negli orari di apertura del Comune); alle 12.30 al ristorante Giardino è organizzata una degustazione di piatti della cucina armena; alle 18.30 presso la chiesa di Santa Marta si terrà una funzione religiosa armena apostolica officiata da Padre Tìrayr Hakobyan. Domenica 26 alle 10 a Palazzo delle Paure laboratori per bambini a tema armeno con Tommaso Pusant Pagliarini; alle 18 alla Scuola Civica di Musica di Villa Gomez è in programma un concerto di musica armena “Suoni dall’Ararat”, con il pianista Ani Martirosyan. Lunedì 27 alle 20.45 una conferenza in sala Ticozzi chiuderà la manifestazione raccontando ruoli, storie e impegni di solidarietà contro il ‘genocidio infinito’ degli armeni e del loro patrimonio culturale con gli interventi di Pietro Kuciukian, console onorario della Repubblica di Armenia in Italia, e Gaianè Casnati, Council Member di Europa Nostra.

Tutti gli eventi saranno soggetti alle norme vigenti anti Covid-19. La prenotazione è obbligatoria al numero 335 7421775.

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La guerra in Nagorno Karabakh negli occhi di una pacifista azera(Osservatoriodiritti 17.09.21)

Gunel Movlud è una giornalista, scrittrice e difensore dei diritti umani azera. È nata nel 1981 nella regione di Jabrail, in Nagorno Karabakh, e quando aveva solo 12 anni è stata costretta a fuggire con sua madre e i suoi fratelli perché i combattimenti tra le truppe armene e quelle azere investirono anche la sua città.

Movlud ha trascorso i successivi 5 anni in un campo profughi nella regione di Sabirabad, in Azerbaijan, poi l’università, gli studi di lettere ed è stato a quel punto che ha deciso di dedicarsi, attraverso i suoi scritti e il giornalismo, alla difesa dei diritti umani, alla promozione di una cultura di pace e all’impegno nel promuovere una politica di convivenza tra i due popoli.

Un lavoro estremamente difficile e anche pericoloso se fatto in un Paese, l’Azerbaijan, che stando al World Press Freedom Index, la classifica stilata da Reporter senza frontiere che indica il livello di libertà dei media in una determinata nazione, è al 167esimo posto su 180. Una situazione che infatti l’ha portata ad abbandonare la sua terra caucasica e a trasferirsi in Europa.

In seguito alla guerra dei 44 giorni che tra settembre e novembre 2020 ha infiammato di nuovo il Caucaso, la scrittrice azera si è così espressa, in una lunga intervista, in merito alle sue prospettive e alle sue convinzioni su quello che è uno scontro armato che perdura ormai da più di 30 anni.

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Originaria del Nagorno Karabakh, ha vissuto da bambina la guerra degli anni ’90 ed è cresciuta in un campo profughi in Azerbaijan. Oggi crede in una convivenza tra i popoli armeno e azerbaijano. Com’è maturata questa scelta?

Proprio in virtù della mia esperienza ho capito che la guerra è un qualcosa di amorale. La prima guerra del Nagorno Karabakh, quella degli anni ’90, oltre ad aver provocato 30 mila morti ha visto più di un milione di persone perdere la propria casa e dover fuggire e rifugiarsi nei campi profughi. Se alla guerra fa seguito la propaganda dell’odio non ci sarà mai una fine alle sofferenze della gente.

Occorre invece coltivare un pensiero e una cultura pacifista ed è quello che io ho fatto in questi anni grazie anche a un approfondito studio della cultura umanista. Quando poniamo l’uomo come valore più alto, al di là del fatto che sia originario di un Paese o di un altro, possiamo capire che il nemico costruito attraverso la propaganda e la retorica belligerante non esiste.

Chi è il nemico? Se andiamo oltre agli slogan e alle parole d’ordine ci rendiamo conto infatti che il ”nemico” concretamente non è un soldato armato fino ai denti ma è un vecchio nonno, oppure una donna molto tenera, o un bambino con bisogno di aiuto. Queste sono le persone che vivono in Azerbaijan e in Armenia e non sono dei carnefici o degli assassini, ma uomini e donne di ogni giorno. Ed è partendo da questa riflessione, che guarda all’uomo nella sua essenza, che possiamo capire come viene costruita l’immagine del nemico e di conseguenza capirne il vuoto che la compone.

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Che ricordi ha della guerra degli anni ’90?

Ero poco più di una bambina quando è scoppiata la guerra nel 1991. Con mia madre e i miei fratelli siamo dovuti scappare perdendo tutto quello che avevamo, per sempre. Abbiamo attraversato il fiume Aras e una volta in Azerbaijan abbiamo ricominciato una nuova vita in una tendopoli. Migliaia di persone hanno trovato un rifugio temporaneo nei campi profughi dove l’inverno era freddissimo e l’estate caldissima.

Per decenni centinaia di migliaia di sfollato hanno vissuto in questi campi dove mancava l’acqua, ricevevamo solo l’aiuto e l’assistenza delle organizzazioni umanitarie, una casa era una tenda di 8 metri quadrati e d’inverno spesso ci svegliavamo nella neve. Molte persone morivano anche perchè non c’era assistenza sanitaria, le donne, come mia madre, per sopravvivere, raccoglievano cotone per salari bassissimi e questo stato delle cose ha portato a una situazione grave sia da un punto di vista fisico ma anche morale.

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Quando a novembre ha visto le immagini dei cittadini armeni che scappavano dal Nagorno Karabakh cosa ha provato?

Sono state immagini molto dure per me. I cittadini armeni stavano vivendo un qualcosa che io avevo vissuto in passato e capivo perfettamente il loro stato d’animo. Ho avuto concreti momenti di deja-vù durante la guerra dei 44 giorni, perché quando vedevo le file di camion che portavano via le famiglie armene mi sono subito ricordata cos’era successo durante la prima guerra del Karabakh. Ho pensato al mio vissuto.

C’è tanta, tantissima somiglianza, tra le condizioni degli sfollati dopo le guerre. I profughi, di tutto il mondo, hanno dei denominatori comuni. In primis il fatto di essere vittime. E quando vedevo i video della gente armena che scappava mi ha assalito anche una profonda tristezza, perché se non ci sarà un cambio di rotta, quello che abbiamo visto e vissuto potrà ripetersi di nuovo ed è molto triste pensare che non si è stati capaci trovare una soluzione a questa crisi in tutti questi anni. Siamo due popoli che abbiamo vissuto entrambi delle tragedie. Non è forse il momento di porre fine a tutta questa sofferenza?

Cosa vuol dire essere pacifista in Armenia e Azerbaijan?

Essere pacifisti in Azerbaijan e Armenia non è popolare. E lo è ancor meno dopo l’ultima guerra. La maggior parte della popolazione cresce educata a valori di nazionalismo e patriottismo e spesso collidono con una visione di riconciliazione e convivenza tra i due popoli.

Essere pacifisti in Azerbaijan però è molto più difficile che in Armenia. In Azerbaijan chi ha una prospettiva e un’idea come la mia viene considerato spesso come un traditore che non vuole tornare nei territori perduti ed essere pacifisti in Azerbaijan è anche pericoloso.

Proseguirà con il suo attivismo per un Karabakh libero dalla guerra?

Per quanto sia difficile questo cammino, credo che sia estremamente importante coltivare il pacifismo perché se noi avremo la fortuna di arrivare a una situazione di riconciliazione tra i due popoli sarà per merito dei pacifisti. Saranno i pacifisti a dover guidare la riconciliazione rispettando le tragedie vissute e allo stesso tempo superandole. Io credo e spero che questo un giorno avverrà. Noi sappiamo come vivere insieme, l’abbiamo fatto per secoli in passato, ed è la storia a insegnarcelo e ricordarcelo.

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“Ecco come fu pianificato il genocidio degli Armeni” (Ilgiornale 17.09.21)

Lo storico turco, oggi a Pordenone legge, ci racconta perché ancora oggi la Turchia finge di non sapere

"Ecco come fu pianificato il genocidio degli Armeni"

Fra gli eventi più attesi al festival Pordenonelegge, oggi, la presentazione del libro Killing Orders. I telegrammi di Talat Pasha e il genocidio armeno (Guerini e Associati) di Taner Akçam, coraggioso intellettuale e storico turco, da anni rifugiatosi negli Stati Uniti per la sua lotta a favore della verità sul destino del popolo armeno e ancora oggi persona sgradita per il regime di Ankara. Alle 11 (nello Spazio San Giorgio) Akçam racconterà, tradotti per la prima volta in lingua italiana, i telegrammi di Talat Pasha, l’architetto del Metz Yeghern, il Grande Male, lo sterminio. Ha accettato di parlarne in anticipo con il Giornale.

Professor Taner Akçam come mai attorno al genocidio armeno c’è stato un silenzio così lungo?

«Possiamo rispondere alla domanda su tre diversi livelli: primo, dal punto di vista degli armeni. Ci sono voluti decenni perché il popolo armeno portasse il genocidio nella sua agenda. A differenza dell’Olocausto, i governanti ottomani iniziarono il genocidio sterminando intellettuali e leader comunitari armeni. Gli armeni hanno perso quasi tutta la loro classe intellettuale durante il processo di genocidio. E ci sono volute tre-quattro generazioni di armeni per costruire le condizioni di una riflessione intellettuale su quanto era successo al loro popolo. Il piccolo stato armeno, fondato nel 1918, perse la sua indipendenza nel 1921 e fu bolscevizzato. Parlare di genocidio in Armenia fu vietato fino al 1965. A causa di tutti questi fatti, gli armeni hanno potuto alzare la voce con forza solo dopo il 1965, ma non avevano abbastanza potere. Quando cominciarono ad alzare la voce, nessuno li udì».

E la Turchia?

«Il secondo livello di cui le dicevo è la Turchia. La Turchia è stata fondata principalmente dal partito e dai quadri che hanno organizzato il genocidio armeno. Il nuovo regime ha vietato di parlare di storia e l’ha resa tabù. Cosa sarebbe successo se i nazisti avessero fondato la Germania di oggi? L’espulsione forzata degli Armeni superstiti dalla Turchia in vari modi continuò nei primi anni della Repubblica. Non c’è più alcuna comunità in Turchia che possa portare alla luce le esperienze degli armeni. La piccola comunità di Istanbul ha vissuto nella paura. E poi il terzo livello: l’opinione pubblica internazionale. Il tema del genocidio avrebbe potuto essere sollevato, soprattutto nel mondo occidentale, ma per le grandi potenze sarebbe impensabile rendere la vita difficile a una Turchia che è diventata membro della Nato. Quando tutti questi fattori sono messi insieme, penso che il silenzio intorno al genocidio armeno sia comprensibile».

Ha trovato documenti che provano che il genocidio è stato pianificato con cura. Quali?

«Classificherei questi documenti in due diversi livelli. La prima categoria di documenti è quella che mostra che l’intero genocidio è stato organizzato come un piano demografico. I governanti ottomani miravano a deportare gli armeni, che costituivano il 25% della popolazione nelle regioni in cui erano concentrati, come la Siria, e ridurre il loro numero a un livello che non supererebbe il 10%. Ciò significava ridurre gli armeni da 1,8 milioni a circa 150mila. E hanno raggiunto gli obiettivi. Infatti, il numero di armeni sopravvissuti al genocidio in Siria è stato di circa centomila. È possibile seguire questo processo con centinaia di documenti attualmente disponibili negli archivi di epoca ottomana. Il secondo gruppo di documenti è costituito da carte relative a ordini o pratiche di uccisione diretta. È possibile raccoglierli in tre diversi gruppi. La prima sono le lettere e i telegrammi contenenti le decisioni e gli ordini di sterminio scritti da Bahaettin akir, membro del Comitato centrale del Partito dell’Unione e del Progresso e responsabile della Tekilat-i Mahsusa (Organizzazione speciale) incaricata di sterminare gli armeni. Il secondo sono le decisioni di sterminio locale limitate ad alcune province prese dal Comitato centrale di Erzurum dell’Organizzazione speciale. Il terzo gruppo sono gli ordini di sterminio di Talat Pasha, il ministro degli Interni. Ho pubblicato alcuni di questi documenti nel mio libro Killing Orders».

Perché i telegrammi di Talat Pasha sono così importanti per comprendere la genesi del genocidio?

«Questi telegrammi sono ordini di uccisione diretta: erano tutti documenti cifrati scritti con codici speciali del ministero dell’Interno. Quindi, la loro autenticità è fuori discussione. Non possono negare che si tratti di documenti autentici. Questi documenti sono il colpo più significativo alle politiche di negazione dei governi turchi che esistono da decenni»

Perché la Turchia di oggi non è disposta ad ammettere le responsabilità di allora, dopo così tanto tempo?

«Ci sono vari motivi per negare. Il primo semplice motivo è la paura di pagare un risarcimento. Se la Turchia accetta che il genocidio ha avuto luogo, sarà obbligata a pagare i risarcimenti. Anche se ti rifiuti di definire gli eventi del 1915 come genocidio, ma riconosci che nel 1915 in Turchia è accaduta una ingiustizia, devi restituire qualcosa. Pertanto, per evitare di farlo, negare completamente il genocidio ha molto senso. La seconda ragione importante per il negazionismo turco è quello che io chiamo il dilemma di trasformare gli eroi in cattivi. L’argomento è semplice: la Repubblica turca è stata fondata dal Partito dell’Unione e del Progresso, gli architetti del genocidio armeno del 1915. E così, un numero significativo dei quadri fondatori della Turchia è stato direttamente coinvolto nel genocidio armeno o si è arricchito saccheggiando le proprietà armene. Ma questi individui erano anche i nostri eroi nazionali. Se la Turchia riconosce il genocidio, dovremo accettare che alcuni dei nostri eroi nazionali e padri fondatori erano assassini, ladri o entrambi. Questo è il vero dilemma. Dall’istituzione della nostra Repubblica, abbiamo creato una realtà comunicativa che pone il nostro modo di pensare e di esistere su Stato e nazione. Alla fine, questa realtà comunicativa ha creato un segreto collettivo che copre come un guanto tutta la nostra società. Ha creato un grande, gigantesco buco nero. Questo silenzio segreto ci avvolge come una coperta calda e soffice. L’ultimo motivo della negazione turca del genocidio armeno è quello che io chiamo argomento di Pinocchio. È difficile cambiare te stesso una volta che hai detto una bugia, anche nella normale vita quotidiana. Uno stato che mente da 90 anni non può semplicemente invertire rotta».

Quali sono le difficoltà che incontra uno storico nel reperire documenti di quell’epoca?

«La difficoltà principale è che i governi turchi hanno nascosto i documenti critici agli studiosi nel corso dei decenni. Gli archivi furono ripuliti durante i successivi governi repubblicani, in particolare il governo dell’Unione e del Partito del Progresso, che organizzarono il genocidio. Se i documenti critici nell’archivio non venivano bruciati o distrutti venivano comunque segretati. Ad esempio, gli archivi militari ad Ankara sono ancora chiusi agli studiosi che vogliano valutarli. È difficile da immaginare, ma tutti i documenti relativi alla Prima guerra mondiale e alle deportazioni armene non sono accessibili».

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