Cosa è successo alla Chiesa cattolica dopo la dissoluzione dell’ URSS? (AciStampa 10.06.21)

A 30 anni dall’Accordo di Belaveza che sanciva la dissoluzione dell’URSS,
un ampio studio indaga il contributo di papa Giovanni Paolo II alla rinascita del cattolicesimo
La parabola dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche si chiuse trenta anni fa con l’ Accordo di Belaveža,  dell’ 8 dicembre 1991, aprendo una nuova era.

Nelle quindici Repubbliche sorte dalla sua dissoluzione – Estonia, Lettonia, Lituania, Bielorussia, Ucraina, Moldavia, Georgia, Armenia, Azerbaigian, Kazakhstan, Uzbekistan, Turkmenistan, Kirghizistan, Tagikistan e Federazione Russa – la Chiesa cattolica nei suoi tre riti (latino, greco-cattolico, armeno) era stata portata sull’orlo dell’annientamento. La storia voltava pagina nel mezzo del pontificato di Giovanni Paolo II (1978-2005), che promosse un cammino di rinascita cattolica in questi paesi anche grazie ai suoi viaggi apostolici, cinque dei quali nell’ex URSS: Repubbliche baltiche (1993), Georgia (1999), Ucraina (2001), Kazakhstan e Armenia (2001), Azerbaigian (2002).

Dopo il volume su Giovanni Paolo II e le Chiese in Europa centro-orientale, la collana Storia della Chiesa in Europa centro-orientale – curata dal professor Jan Mikrut, ordinario della Facoltà di Storia e Beni Culturali della Chiesa presso la Pontificia Università Gregoriana – allarga lo sguardo ancora più a Est.

Il volume Giovanni Paolo II e la Chiesa Cattolica in Unione Sovietica e nei Paesi sorti dalla sua dissoluzione. Nel centenario della nascita di Karol Wojtyla (Gabrielli Editore, 2021, pp. 1212) sarà presentato in un webinar il prossimo 18 giugno 2021, alle ore 18:30.

L’evento è aperto al pubblico con registrazione obbligatoria sul sito www.unigre.it

Dopo i saluti di P. Nuno da Silva Gonçalves S.J., Rettore della Pontificia Università Gregoriana, interverranno il Card. Leonardo Sandri (Prefetto della Congregazione per le Chiese Orientali), il Card. Sigitas Tamkevičius (Arcivescovo emerito di Kaunas), l’Arcivescovo Metropolita Ioann (Roshchin) della Chiesa Ortodossa del Patriarcato di Mosca, nonché il curatore, Prof. Jan Mikrut.

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Armenia: a Roma evento “Arte per la prevenzione” per ricordare il genocidio armeno (Agenzianova 10.06.21)

Roma, 10 giu 19:06 – (Agenzia Nova) – L’arte ha provato e prova a raccontare il genocidio armeno, per renderne viva la memoria. Questo il tema che ha contraddistinto l’evento “Arte per la prevenzione”, organizzato oggi dall’ambasciata della Repubblica d’Armenia in Italia presso il Pontificio istituto orientale a Roma. “Questo evento deve essere momento non di tristezza, ma di ottimismo e speranza”, ha affermato l’ambasciatore armeno Tsovinar Hambardzumyan, ricordando al contempo l’importanza della prevenzione dei genocidi nel mondo contemporaneo. L’ambasciatore ha poi ringraziato l’Italia per il rispetto dei valori umani e gli amici dell’Armenia “per essere stati al nostro fianco durante i momenti difficili”. Durante l’evento è stata presentata l’opera “The Armenian Mother”, del collettivo di artisti italiani Madenotte. A prendere la parola in rappresentanza del gruppo è stata Maddalena Gabriele, che ha sottolineato le motivazioni alla base dell’opera, realizzata in memoria del Genocidio armeno e ispirata a una fotografia storica scattata nella zona di Aleppo al tempo della Prima guerra mondiale. L’immagine mostra una madre armena che, con accanto la figlia, piange la morte dell’altra figlia più piccola che giace al suolo. La foto originale, che ha ispirato gli artisti, è una delle foto più simboliche del genocidio armeno ed è conservata nella Biblioteca del Congresso statunitense. (segue) (Res)

Com’è vivere in un paese ‘che non esiste’ (Vice.com 09.06.21)

Oggigiorno in Europa ci sono 6,5 milioni di persone residenti in paesi che, almeno secondo gran parte della comunità internazionale, non esistono.

In seguito al collasso dell’Unione Sovietica e della Jugoslavia sono nati 21 nuovi stati indipendenti. Ma per una serie di gruppi nazionali ed etnici, la rivendicazione di autonomia è caduta nel vuoto.

Alcuni hanno trovato un modo per vivere in pace entro i nuovi confini dell’Europa dell’Est. Altri hanno combattuto guerre per cacciare gli eserciti “usurpatori” dalle loro terre. Alcuni hanno fatto appello direttamente alla Russia per farsi portare con lei in un fumoso futuro post-sovietico.

Ognuna delle sei regioni contestate dell’Europa dell’Est ha una storia unica, e all’interno di ogni storia ci sono voci diverse, che cercano di vivere vite normali nonostante il caos in cui sono nate.

Nagorno-Karabakh / Artsakh

Un missile inesploso giace incastrato nell'asfalto a Stepanakert, fotografato a ottobre 2020. Foto: Aris Messinis/AFP via Getty Images

UN MISSILE INESPLOSO GIACE INCASTRATO NELL’ASFALTO A STEPANAKERT, FOTOGRAFATO A OTTOBRE 2020. FOTO: ARIS MESSINIS/AFP VIA GETTY IMAGES

Tra le montagne della catena del Caucaso dove Europa e Asia si incrociano, l’Armenia e l’Azerbaijan sono intrappolate da oltre 30 anni in una guerra che interessa la regione del Nagorno-Karabakh. Nonostante si trovi all’interno dei confini dell’Azerbaijan, Karabakh è popolata e controllata dagli armeni, la nazione cristiana più antica del mondo, la cui storia moderna è segnata da un genocidio perpetrato dal governo turco ottomano durante la Prima Guerra Mondiale.

Dopo un lungo e complesso cessate il fuoco, le ostilità nella regione di Karabakh—nota localmente come Artsakh—sono ricominciate alla fine del 2020. L’esercito dell’Azerbaijan, sostenuto dalla Turchia, è avanzato dentro i territori della Repubblica di Nagorno-Karabakh, riprendendosi alcune zone perse nel 1993. Il costo umanitario di questo intervento è stato devastante.

“La mia famiglia è rifugiata dall’anno scorso, dopo che siamo stati costretti a lasciare le nostre case a Shushi. Abbiamo vissuto condizioni simili in passato, da Baku, con le violenze anti-armeni del 1988,” dice a VICE Saro Saryan, parlando da Yerevan. Saro gestiva un museo geologico a Shushi, prima di essere costretto a scappare. “Psicologicamente, è come essere sottoposti ad una perenne operazione chirurgica: ti abitui al dolore. Non abbiamo più paura. È masochismo.”

“Mio figlio ha perso una gamba negli scontri. È ricoverato in una clinica in Svizzera. Ma siamo stati fortunati. Migliaia di persone non vedranno mai più le loro famiglie.

“Prima della guerra una spada di Damocle pendeva sulle nostre teste. Ma abbiamo cresciuto i nostri figli senza odio per i nostri vicini dell’Azerbaijan. Abbiamo costruito luoghi che riflettono la cultura armena; musei, chiese, un esercito. Nei nostri cuori, credevamo in un potere superiore. Ora è difficile avere fede.”

“Un riconoscimento internazionale sarebbe una garanzia di sicurezza,” Perché non c’è ancora stato?”

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Armenia, proposta choc del premier all’Azerbaigian: “Offro mio figlio in ostaggio” (Ilprimatonazionale )

Roma, 9 giu – “Offro mio figlio in ostaggio”, in cambio di tutti i militari dell’Armenia detenuti in Azerbaigian. E’ quanto affermato dal premier armeno Nikol Pashinyan. Una provocazione decisamente clamorosa, lanciata durante un comizio elettorale. In Armenia si andrà infatti al voto domenica 20 giugno e il primo ministro punta ad essere riconfermato alla guida della nazione caucasica. “Ieri ho detto e oggi ho incaricato le nostre autorità competenti di trasmettere ufficialmente la nostra proposta sul fatto che mio figlio è pronto ad andare a Baku come ostaggio, fatto salvo il ritorno di tutti i nostri prigionieri”, dice Pashinyan.

Armenia, il premier: “Mio figlio in cambio di tutti i militari detenuti”

Improbabile che il governo azero accetti questa proposta. Nel caso, il premier armeno sarebbe davvero pronto a compiere questo gesto? E poi, suo figlio accetterebbe? Difficile dirlo. Sta di fatto che già nei giorni scorsi Pashinyan ha dichiarato che i militari armeni detenuti nelle carceri azere “stanno combattendo per l’indipendenza e la sovranità dell’Armenia”. E “potranno perdonare uno o due mesi in più di prigionia, ma non perdoneranno se l’indipendenza e la sovranità dell’Armenia verranno sacrificati a costo della loro liberazione”. Questo vale chiaramente anche per il premier stesso.

I politici armeni d’altronde sono stati fortemente criticati in patria dopo il cessate il fuoco in Nagorno-Karabakh. L’offerta del figlio in ostaggio è stata comunque suggerita a Pashinyan dall’ex presidente della Repubblica, Serzh Sargsyan. Quest’ultimo alcuni giorni fa aveva infatti proposto al primo ministro “di consegnare suo figlio per ottenere in cambio 20-25 prigionieri di guerra”. Proposta accolta, ma in cambio di “tutti i prigionieri”.

La situazione attuale

Per quanto, secondo il premier armeno, questa non sarebbe l’unica carta da giocare per risolvere i problemi. “E’ in corso un lavoro molto intenso”, dice Pashinyan. Ricordiamo che in seguito alla sconfitta militare l’Armenia ha ceduto il controllo sul Nagorno-Karabakh e su sette distretti confinanti con l’Azerbaigian. Adesso, con l’aiuto della mediazione di Mosca, le due nazioni caucasiche stanno lavorando (piuttosto a fatica e con varie sospensioni) a una commissione trilaterale per stabilire la demarcazione dei confini.

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DOSSIER – Immagini satellitari confermano distruzione del patrimonio culturale armeno (Assadakah 09.0.21)

Redazione Assadakah – La distruzione nascosta del patrimonio armeno-cristiano nella repubblica autonoma di Nakhichevan, in Azerbaigian, è stata evidenziata nelle immagini satellitari delle agenzie di spionaggio americane, durante gli anni della Guerra Fredda, negli anni ’70. E’ quindi ormai innegabile, da parte delle autorità dell’Azerbaihan, continuare a negare l’evidenza dei fatti. Così Agulis e le sue otto maestose chiese sono state rase al suolo.

Annidato ai piedi dell’estremo sud-ovest dell’ex Unione Sovietica, nell’enclave azera di Nakhichevan, Agulis era già un villaggio molto povero eppure, molti secoli fa era stata la cittadina più culturalmente ed economicamente vivace di quella regione chiave, a cavallo fra Europa e Asia, il Caucaso. Per più di 2000 anni, la popolazione armena di Agulis, e del più ampio cantone di Goghtn (attuale distretto di Ordubad in Azerbaijan) hanno creato una cultura unica, fino al secolo scorso, sia durante il genocidio armeno, che a causa di una completa cancellazione fisica di tutti i resti culturali, dopo secoli di sopravvivenza.

Dal 1997 al 2006, è avvenuta di fatto una violenta cancellazione di tracce storiche che il presidente Aliyev ha ritenuto inadatte all’esistenza. I successivi presidenti, padre e figlio Heydar e Ilham, insieme al fedele Vasif Talibov, si sono impegnati nella distruzione dell’intera eredità armeno-cristiana di Nakhichevan: 89 chiese, 5.840 pietre incrociate e oltre 22.000 lapidi, una stima basata sulla documentazione del ricercatore indipendente Argam Ayvazyan.

Funzionari azeri ora affermano che i monumenti armeni di Nakhichevan non sono mai esistiti, nonostante li avessero precedentemente etichettati, erroneamente, come “albanesi del Caucaso”, in riferimento a un popolo estinto da tempo. Dopo un’indagine decennale, questa cancellazione è stata esposta da questo scrittore in Hyperallergic nel 2019. Il Guardian ha valutato l’esposizione “solida come una roccia”; un importante diplomatico azero, d’altra parte, ha definito la ricerca “un frutto dell’immaginazione dell’Armenia”. Ma la cronologia della distruzione dei 28.000 monumenti stimati può essere ricostruita con precisione.

Nel 2003, dopo che Ilham Aliyev ha sostituito il padre defunto, un ex leader del KGB diventato presidente, ha iniziato a pompare petrolio nei mercati occidentali attraverso nuovi oleodotti. Incoraggiato ma alle prese con la legittimità interna e la frustrazione per il conflitto irrisolto del Nagorno-Karabakh (che nei primi anni ’90 aveva sfollato quasi un milione di persone, la maggior parte delle quali erano azeri, e aveva ridotto le città azere di Agdam, Fizuli e Jabrayil a città fantasma) , Ilham Aliyev ha iniziato ad alimentare sentimenti anti-armeno per rafforzare le sue credenziali nazionaliste.

Mentre l’appiattimento post-sovietico dell’eredità armena nella regione di Nakhichevan viene alla luce attraverso le immagini satellitari declassificate della Guerra Fredda, che confermano il resoconto di testimoni oculari, ci sarebbero nuove minacce. Dopo il cessate il fuoco del novembre 2020 alla seconda guerra del Nagorno-Karabakh, circa 1.000 siti culturali armeni antichi e medievali sono ora sotto il controllo dell’Azerbaigian. Dire che questi siti del patrimonio sacro sono a rischio potrebbe essere un eufemismo monumentale.

Il presidente dell’Azerbaigian afferma che gli armeni non sono indigeni del Nagorno-Karabakh, mentre rispecchia le accuse di genocidio culturale accusando gli armeni di aver spazzato via le moschee. I siti sacri armeni del Nagorno-Karabakh corrono un grave rischio, non ultimo perché i funzionari azeri continuano a negare la cancellazione di Nakhichevan dichiarando che gli armeni non sono mai esistiti lì. Mentre la magica Agulis è scomparsa per sempre, i materiali recentemente declassificati offrono aiuto per ricostruire il suo paesaggio storico cancellato. Un raro effetto collaterale positivo della Guerra Fredda fu la reciproca attività clandestina di creazione di mappe e raccolta di immagini satellitari da parte degli Stati Uniti e dell’URSS. Grazie a questi, sono state conservate le posizioni precise e le immagini riconoscibili delle principali chiese di Agulis.

Sono tutti degli anni ’70, incluse due mappe prodotte dall’Ufficio dello Stato Maggiore dell’URSS che elencano tutte le principali chiese e le immagini geospaziali prodotte dai programmi satellitari spia declassificati degli Stati Uniti.

La chiesa più settentrionale di Agulis, Surb Stepanos (Santo Stefano), fu, secondo Ayvazyan, fondata probabilmente tra il XII e il XIII secolo. Fu ricostruito nel XVII secolo, durante un boom di costruzioni di chiese nell’Armenia orientale, poi sotto il controllo dell’Iran safavide, e ristrutturato nel 1845 e di nuovo all’inizio del XX secolo. L’immagine satellitare mostra la chiesa fortificata e l’ombra proiettata dalla sua cupola, che sono assenti dalle nuove immagini satellitari. Surb Tovma (San Tommaso) fu uno dei più grandi e importanti complessi monastici dell’Armenia medievale.

Il complesso fortificato presentava numerose strutture, tra cui un altare all’aperto che il folklore locale sosteneva fosse un tempio pagano pre-IV secolo.

Le immagini satellitari mostrano la completa scomparsa di Tovma, seguita da una successiva costruzione di una moschea. Secondo Aylisli, i musulmani azeri boicottano la nuova struttura poiché “le preghiere offerte in una moschea costruita al posto di una chiesa non raggiungono le orecchie di Allah”. Situato in una posizione centrale privilegiata di Agulis, dall’altra parte del ponte rispetto al famoso bazar (ora distrutto), Surb Kristapor (San Cristoforo), secondo il folklore locale, fu fondato nel I secolo dall’apostolo Giuda Taddeo.

Come la vicina Tovma, Kristapor mostrava affreschi del XVII secolo del celebre artista Naghash Hovnatan, che dipinse anche la Santa Sede di Etchmiadzin, il centro della Chiesa armena. Alla fine del XIX secolo, la chiesa istituì una scuola per ragazze. Una fotografia di Kristapor adorna la copertina della trilogia di Aylisli Farewell, Aylis, tradotta da Katherine E. Young. Le immagini satellitari mostrano la completa scomparsa della chiesa.

Descritto come la “Mecca e Medina per gli armeni”, il Mets Anapat Surb Astvatsatsin (Grande Eremo della Santa Madre di Dio) era un grande complesso adagiato sulle colline di Agulis, 1,5 km a est della città. Il monastero fortificato comprendeva una dozzina di strutture, oltre alla chiesa, alla vigna, alla fontana e ai cimiteri. Negli anni ’80, Ayvazyan ha esaminato 97 lapidi a Mets Astvatsatsin, 46 delle quali mostravano iscrizioni. Si ritiene che il sito fosse originariamente un santuario pagano, precedente all’adozione del cristianesimo nel 301 d.C. rafforzato dalla scoperta segnalata di statuette pagane di argilla e metallo durante una ristrutturazione del 1874 che furono immediatamente distrutte da due fanatici religiosi.

Mets Astvatsatsin era una destinazione ben nota per i pellegrini armeni tardo-medievali, in particolare per la festa di agosto dell’Assunzione della Santa Madre di Dio. Probabilmente a causa del suo terreno roccioso, il profilo delle fondamenta può ancora essere visto nelle immagini satellitari post-distruzione, suggerendo che la cancellazione totale del sito remoto potrebbe aver rappresentato una sfida monumentale per l’esercito azero. Ricostruita nel XVII secolo e ristrutturata nel 1901, Surb Hakob Hayrapet (San Giacomo di Nisibi) era la più piccola delle chiese sopravvissute di Agulis. Le mappe dello stato maggiore dell’URSS identificano la chiesa come monumento cristiano, anziché come chiesa regolare. L’immaginario ne attesta la completa scomparsa. Ristrutturata nel XVII secolo, Surb Hovhannes Mkrtich (San Giovanni Battista) era una delle principali chiese di Agulis. Era anche famoso per essere il luogo di sepoltura del sacerdote Andreas, che nel 1617 impedì la schiavitù sessuale degli scolari armeni durante la visita dello scià persiano Abbas radendosi la testa per farli sembrare poco attraenti. Per questo, il furioso Shah fece torturare e giustiziare il prete.

Nel 1922, un sopravvissuto al massacro di Agulis visitò Hovhannes, raccontando che “la cupola e il campanile erano stati distrutti e la porta rimossa. La chiesa era stata completamente saccheggiata e poi demolita. Il suo cortile e due grandi giardini erano stati totalmente devastati, proprio come le case e gli altri giardini adiacenti. Le immagini satellitari mostrano la chiesa in gran parte intatta, prima della sua completa scomparsa nelle immagini successive. Le due chiese adiacenti di Agulis inferiore, una delle quali è una basilica senza cupola, sono conosciute con una varietà di nomi. Sembra che anche altri resti storici armeni, comprese le rovine di case, intorno al complesso di Amarayin siano stati distrutti.

La mappa dello stato maggiore dell’URSS individua una mezza dozzina di cimiteri e molte altre rovine. A causa delle notevoli difficoltà legate all’identificazione dei cimiteri medievali (insieme, Agulis aveva circa 2.000 lapidi storiche, molte delle quali sono state fotografate e abbozzate da Ayvazyan negli anni ’70 e ’80), ci siamo astenuti dall’identificare i cimiteri o altre rovine, compresi i grandi resti Chiesa di Surb Shmavon (San Simone lo Zelota).

Questo rapporto è stato sostenuto da una sovvenzione dell’Unione Generale Benevola Armena. I materiali declassificati della Guerra Fredda sono stati acquisiti e analizzati con l’aiuto degli studiosi Argam Ayvazyan, Lori Khatchadourian e Adam T. Smith, nonché dell’organizzazione no-profit Research on Armenian Architecture con sede a Yerevan.

L’ambasciatore dell’Azerbaigian nel Regno Unito, Tahir Taghizade, così ha commentato: “Prima di tutto, dobbiamo chiarire che non esiste una cosa come il “patrimonio armeno” nella Repubblica autonoma di Nakhchivan semplicemente perché gli armeni non hanno mai vissuto lì. Lo testimonia la ricerca accademica primaria sulla storia della regione. I siti o i cimiteri inesistenti non possono essere distrutti. Le affermazioni dell’Armenia per il “patrimonio armeno” a Nakhchivan non sono altro che uno sforzo per sostenere la loro – l’ennesima – rivendicazione territoriale contro l’Azerbaigian usando propaganda falsa e accuse infondate. Questo anche per distogliere l’attenzione del mondo dal genocidio culturale che l’Armenia, in palese violazione delle norme internazionali pertinenti, compresa la Convenzione dell’Aia del 1954 per la protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato e i suoi protocolli, ha commesso nel Nagorno Karabakh dell’Azerbaigian e sette regioni adiacenti durante la loro occupazione da parte delle forze armene (1992-2020). Più di 400 monumenti, siti religiosi e altri oggetti culturali sono stati totalmente distrutti, demoliti e profanati dall’Armenia per annientare ogni segno di presenza culturale dell’Azerbaigian in questi territori. Grandi città come Aghdam, Fizuli, Jabrayil, Zangilan, Gubadli, Lachin, Kalbajar furono rase al suolo.

Su 67 moschee e santuari religiosi islamici, 64 sono state distrutte o notevolmente danneggiate e profanate. Più di 900 cimiteri musulmani, tombe e santuari furono distrutti. Ora che l’Azerbaigian ha liberato questi territori, sono disponibili vaste prove che verificano la portata del vandalismo commesso dall’Armenia. Purtroppo, i nostri appelli alle organizzazioni internazionali competenti per indagare sui crimini di guerra, compresa la distruzione deliberata, l’appropriazione indebita, l’alterazione del nostro patrimonio culturale, nonché la rimozione illecita delle nostre proprietà culturali da parte dell’Armenia, sono stati ignorati durante i 30 anni di occupazione. Accogliamo con favore l’interesse che ora viene mostrato in questo senso”.

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Fvg, ecco i nuovi beni tutelati dal Ministero della Cultura (IlFriuli.it 09.06.21)

Nuovi beni tutelati in Friuli Venezia Giulia dal Ministero della cultura. La Commissione regionale del Patrimonio culturale che si è riunita ieri a Palazzo Economo, a Trieste ha inserito nella lista due dipinti murali raffiguranti San Paolo e Santo Stefano, già Tomba monumentale ai caduti nel Cimitero di Casarsa della Delizia, l’edificio in via Tigor 9 a Trieste e sei mobili contenitori della collezione tessile delle Orsoline, già Monastero di Sant’Orsola a Gorizia.

CASARSA. I due dipinti murali decoravano il monumento commemorativo realizzato nel 1945 dal Comune per la tumulazione di sei partigiani casarsesi morti durante la Seconda Guerra Mondiale. Fra essi anche il fratello di Pier Paolo Pasolini, Guido Alberto, vittima nell’eccidio di Porzûs. Le opere furono eseguite, con la tecnica del “mezzo fresco”, da Federico De Rocco, pittore locale neo-realista e uno dei fondatori dell’Academiuta di lenga furlana con il sodale Pasolini.

Recentemente gli affreschi, dopo un attento restauro, sono state rimossi dalla loro sede e sostituiti con copie. Gli originali saranno collocati in un luogo più idoneo e sicuro, che verrà individuato dal Comune di Casarsa e dalla Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio del Friuli Venezia Giulia.

TRIESTE. L’immobile di via Rigor è uno dei cinque caseggiati costruiti agli inizi del Novecento sulle pendici del Colle di San Vito dall’imprenditore d’origine armena Haggi Giorgio Aidinian, trasferitosi da Smirne nella cosmopolita Trieste intorno al 1881. Commerciante di tappeti orientali, il suo negozio si trovava nella centralissima piazza della Borsa, e più precisamente nel Palazzo Dreher (Borsa Nuova). L’intervento edilizio si colloca nella zona allora denominata “borgo o colle armeno” per la presenza della numerosa comunità d’origine mediorientale e della chiesa di Maria Madre delle Grazie dei Padri Mechitaristi.

Il committente, disponendo di notevoli risorse economiche, si rivolse nel 1903 a uno dei più noti e influenti progettisti triestini del tempo, Ruggero Berlam che riuscì a dare monumentalità all’edificio, destinato ad appartamenti d’abitazione, con un elegante uso del linguaggio eclettico.

GORIZIA. Il Monastero di Sant’Orsola venne fondato nel 1672 con la missione di educare le giovani nobili e le ragazze del popolo. Fra le materie pratiche insegnate c’era anche il ricamo e la tessitura: nel corso dei secoli il convento divenne un centro di eccellenza nella lavorazione dei merletti, usati per decorare i paramenti sacri e gli abiti civili.

I cinque cassettoni e la cassapanca, databili tra il XIX e il XX secolo, realizzati in legno di noce e di ciliegio, erano destinati alla conservazione dei tessili, dei disegni e dei materiali da ricamo usati dalle Madri Orsoline. Il Ministero della Cultura, dopo aver posto sotto tutela la collezione dei merletti e dei ricami, conclude la verifica dei beni includendo anche questa importante mobilia.

Gli oggetti sono attualmente in disponibilità dell’Ente Regionale Patrimonio Culturale della Regione Friuli Venezia Giulia, che ha acquisito buon parte delle collezioni storiche ed artistiche provenienti dal Convento dismesso.

Alla seduta, presieduta dal Segretario regionale Roberto Cassanelli, hanno partecipato in qualità di componenti il Soprintendente Archeologia, Belle Arti e Paesaggio Fvg Simonetta Bonomi, il Soprintendente Archivistico Luca Caburlotto e il Direttore regionale Musei Fvg Andreina Contessa.
La Commissione regionale è un organo collegiale con competenze interdisciplinari. È presieduta dal Direttore del Segretariato regionale; gli altri componenti sono il Soprintendente Archeologia, Belle Arti e Paesaggio, il Soprintendente Archivistico, il Direttore della Direzione regionale Musei.
Coordina e armonizza l’attività di tutela e di valorizzazione nel territorio regionale. Uno dei compiti è verificare e dichiarare l’interesse culturale dei beni e procedere al provvedimento di tutela.

Ferrara capitale della fantasia, ecco il festival nel nome dell’Ariosto (Lanuovaferrara.it 08.06.21)

FERRARA. L’antica capitale del Ducato Estense torna a essere, il 10 e 11 giugno, la casa di Orlando, Carlo Magno, Angelica, Ruggero, Bradamante, Agramante, Rinaldo, Medoro, Astolfo e diviene finalmente capitale della fantasia grazie alla prima edizione di Fe.Fant il Festival della Fantasia, che porta la firma del poeta Davide Rondoni, direttore artistico, con la Fondazione Zanotti.

«E così Ferrara si propone di esaltare e indagare la fantasia, una “attitudine” umana oggi tanto necessaria quanto messa in questione, almeno apparentemente, da surrogati e da nuove capacità della tecnologia e da vari strumenti. La fantasia, capacità di immaginazione, resta una virtù chiave in tutti i campi. E specialmente oggi, nel momento in cui una grave prova socioeconomica richiede anche fantasia per trovare rimedi e risposte. la fantasia è il regno dell’arte, dell’invenzione, un modo per arrivare alla verità. E per stare nell’eternità, come scriveva Jorge Luis Borges», spiega l’ideatore e curatore, il poeta e scrittore Davide Rondoni.La fantasia aiuta a indagare e scoprire mondi personali e universali, a guardare alla realtà nella sua complessità, a tessere legami con luoghi e accadimenti lontani, a costruire ponti di vicinanza e solidarietà con altri popoli nel rispetto della loro cultura, della loro storia, delle loro tragedie. E proprio in occasione di Fe.Fant, la scrittrice, poetessa e saggista italiana di origine armena Antonia Arslan, che ha dedicato gran parte della sua opera alla cura della memoria del popolo armeno e delle barbarie del genocidio – autrice fra gli altri di “Masseria delle allodole” (2004), tradotto in venti lingue e diventato un film dei fratelli Taviani, “La strada di Smirne” (2009), “Il rumore delle perle di legno” (2015) e “Lettera a una ragazza in Turchia” (2016), “La bellezza sia con te” (2020) – riceverà la cittadinanza onoraria della città di Ferrara “a una scrittrice coraggiosa, contro ogni negazionismo”, come si legge nella motivazione del Sindaco, Alan Fabbri. La consegna nel cortile del Castello Estense, giovedì 10 giugno alle 21,15.

Antonia Arslan sarà poi protagonista di un incontro, venerdì 11 giugno nel Giardino delle Duchesse alle 16, in dialogo con Siobhan Nash-Marshall, docente al Manhattanville College di New York.
Dieci appuntamenti sulla fantasia e sulle sue contaminazioni e intrecci con i grandi temi della contemporaneità, ospitati negli splendidi spazi del Giardino delle Duchesse e del Castello estense. Si apre con il linguista e neuroscienziato Andrea Moro e il rettore dell’Università di Ferrara, Giorgio Zauli che parleranno di “Fantasia e cervello” (Giardino delle duchesse, giovedì 10 giugno alle 17,30).
“Da Pirandello a De Pisis, da Ariosto a Bassani”, attraverso le parole dei grandi maestri della letteratura italiana, Gioele Dix, raffinatissimo attore, autore e regista, ci racconterà la sua visione della fantasia, dell’immaginazione, dell’ingegno, in una lettura scenica giocosa e coinvolgente, sempre giovedì 10 giugno alle 20, nel cortile del Castello.

E poi l’incontro dedicato all’”ispiratore e motore” di Fe.Fant, Ludovico Ariosto “e la fantasia al lavoro”: ne parleranno Vittorio Macioce, giornalista e scrittore, Andrea Gareffi, professore di letteratura all’università di Tor Vergata di Roma, e Paolo Castelli, imprenditore e designer, alle 18.30 nel Giardino delle Duchesse.
Nel pomeriggio di venerdì 11 giugno, l’incontro su “Fantasy, fiction, immaginazione e visione”, con Roberta Tosi, critico d’arte e studiosa di Tolkien, Antonio Monda, scrittore e direttore del Festival del Cinema di Roma e Sara Taglialagamba, studiosa di Leonardo da Vinci. Alle 19 al Castello, è atteso il concerto di Ambrogio Sparagna, con la carovana artistica BandaDante e l’Orchestra di musica popolare dell’Auditorium di Roma che ripercorrerà il lungo viaggio di Dante attraverso il canto dei pastori, e il ritmo e la forza della musica popolare italiana. Lo spettacolo è un omaggio a Dante e al suo viaggio d’amore e di mistero utilizzando nel concerto le terzine della sua poesia e cantandole nello stile della tradizione popolare degli Appennini.

Fe.Fant, Festival della Fantasia con la direzione artistica di Davide Rondoni realizzato e promosso dalla Fondazione Zanotti in collaborazione con il Comune di Ferrara e l’Assessore al Bilancio e Contabilità, Partecipazioni, Commercio e Turismo, Matteo Fornasini, la Regione Emilia-Romagna, l’Ufficio Scolastico Regionale, l’Università degli Studi di Ferrara, Ascom Confcommercio, Cultura e Futuro Urbano.

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Erdogan e i droni. Affari di Stato e affari di famiglia (Tempi.it 08.06.21)

Una nuova stella brilla nel firmamento dell’industria di Difesa e se Ankara si prepara a raccogliere il primo successo significativo raggiunto in questo settore, c’è chi si preoccupa e chi vede nuova possibili tensioni geopolitiche all’orizzonte. Sta di fatto che la moltiplicazione dei conflitti nella regione mediterranea allargata, alla quale abbiamo assistito negli ultimi anni e dove la Turchia ha sempre cercato di ricoprire un ruolo da protagonista, ha portato anche al perfezionamento e l’utilizzo sempre più esteso di droni, ossia veicoli aerei senza pilota.

Questi velivoli, che vengono considerati uno dei mezzi più importanti nelle guerre del futuro, sono stati e sono impiegati da Ankara in Libia, Siria, ma soprattutto nel conflitto del Nagorno-Karabakh, dove, secondo molti esperti militari, avrebbero letteralmente fatto la differenza. Più difficili da individuare per i radar, quando operano in gruppo possono sferrare attacchi anche a grandi obiettivi.

I droni turchi

La Turchia si sta distinguendo per la produzione di queste armi, meno costose di quelle più convenzionali e adatte sia alla ricognizione sia alla difesa. Un investimento che va avanti da anni e che ha piazzato la Mezzaluna fra i leader del settore e alla ribalta per gli osservatori internazionali.

La Gran Bretagna, per esempio si è accorta da tempo che i piccoli velivoli senza pilota turchi hanno avuto un ruolo rilevante in micro conflitti in Medioriente e Nord Africa e che presto potrebbero diventare dei veri e propri “game changer”.

Gli affari della famiglia Erdogan

Ottime notizie, insomma non solo per il Paese, ma per la famiglia del presidente turco, Recep Tayyip Erdogan. Il maggior produttore di queste micidiali e poco costose macchine da guerra, infatti, è la Baykar, di proprietà della famiglia Bayraktar. Selçuk Bayraktar, figlio del patron Ozdemir, è niente meno che il genero di Erdogan avendo sposato, nel 2016, Summeyye, secondo molti la figlia prediletta del presidente. Il suo business è iniziato nel 1984 vendendo pezzi di ricambio di auto. Adesso guida una industria il cui know-how fa gola anche ai cinesi.

Affari di Stato e affari di famiglia, insomma. Destinati però a creare non pochi problemi non solo a diverse cancellerie, ma potenzialmente anche al capo di Stato, un po’ troppo abituato a tirare la corda con i suoi alleati e che con questo nuovo asset potrebbe trovarsi a gestire situazioni di potenziale conflitto molto delicate.

Mosca allarmata

I primi Paesi che hanno ordinato i micidiali droni turchi, oltre alla stessa Ankara, naturalmente, sono stati il Qatar, Paese campione dei Fratelli Musulmani e con cui la Turchia ha rapporti molto stretti, nonché l’Ucraina e l’Azerbaigian. E qui c’è il primo problema, perché queste forniture hanno fatto storcere il naso, e non poco, a Mosca. I rapporti con Kiev sono seri, con la Russia che, di recente, è tornata ad ammassare truppe sul confine ucraino e potrebbe essere non poco infastidita dalle potenzialità di questi mezzi da ricognizione, dispiegati ai suoi danni e venduti all’Ucraina dal suo alleato chiave.

Discorso diverso, ma con il medesimo risultato in Nagorno-Kabakh. La Turchia sta cercando di acquisire un maggiore peso nel Caucaso meridionale ai danni della Russia e uno dei mezzi per raggiungere il suo obiettivo è quello di rifornire il presidente Aliyev di mezzi con i quali monitorare facilmente i movimenti dell’esercito armeno nell’area.

Washington infastidita

Se Mosca è irritata, Washington di sicuro non fa salti di gioia. Il TB2, uno dei modelli di droni turchi più gettonati e che ha fatto la sua comparsa nel 2020, è in grado di competere per prestazioni con l’americano MQ-9, con la differenza che costa meno della metà. I migliori testimonial del suo valore sono gli attacchi condotti nel nord della Siria ai danni dei curdi, durante l’operazione Scudo dell’Eufrate e quelli durante la guerra civile libica, dopo che la Turchia, con un clamoroso voltafaccia, ha preso le parti dell’esecutivi di Tripoli riconosciuto della comunità internazionale contro il generale, Khalifa Haftar.

Eppure indirettamente è stata proprio Washington a spingere Ankara a produrre droni indipendentemente, perché si era rifiutata di vendergli i propri. Questo aveva spinto l’allora Primo Ministro Recep Tayyip Erdogan a buttarsi in una delle industrie più rischiose ma anche importanti nel bilancio di uno Stato: quella di difesa.

Ankara pericolosa

Nel 2015 si sono fatti i test di collaudo sui primi modelli, nel mese di maggio è arrivata la notizia che la Polonia sarà il primo Paese a comprare i droni made in Turkey.

La Mezzaluna sembra sempre più sicura delle proprie potenzialità in campo geopolitico, questo successo nell’industria militare potrebbe portarla a voler pesare ancora di più nell’arena internazionale, oltre a renderla ancora più pericolosa.

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Scrittrice Antonia Arslan sarà cittadina onoraria di Ferrara (Ansa 08.06.21)

Ferrara, antica capitale del Ducato Estense, dove Ludovico Ariosto compose i versi dell’Orlando Furioso pubblicato per la prima volta nel 1516, torna a essere il 10 e 11 giugno la casa di Orlando, Carlo Magno, Angelica, Ruggero, Bradamante, Agramante, Rinaldo, Medoro, Astolfo e diviene capitale della fantasia grazie alla prima edizione di ‘Fe.Fant’, Festival della Fantasia che porta la firma del poeta Davide Rondoni, direttore artistico, con la Fondazione Zanotti. E proprio in occasione di ‘Fe.Fant’ la scrittrice, poetessa e saggista italiana di origine armena Antonia Arslan, che ha dedicato gran parte della sua opera alla cura della memoria del popolo armeno e delle barbarie del genocidio, riceverà la cittadinanza onoraria della città di Ferrara “a una scrittrice coraggiosa, contro ogni negazionismo”, come si legge nella motivazione del sindaco Alan Fabbri.

La consegna nel cortile del Castello Estense, giovedì 10 giugno.

Antonia Arslan sarà protagonista anche di un incontro, l’11 nel Giardino delle Duchesse, in dialogo con Siobhan Nash-Marshall, docente al Manhattanville College di New York.
In programma dieci appuntamenti sulla fantasia e sulle sue contaminazioni e intrecci con i grandi temi della contemporaneità: tra i protagonisti il neuroscienziato Andrea Moro, l’attore Gioele Dix, il giornalista e scrittore Vittorio Macioce, il rettore dell’Università di Ferrara Giorgio Zauli, lo scrittore e direttore del Festival del Cinema di Roma, Antonio Monda. In cartellone anche, venerdì alle 19 al Castello, un concerto di Ambrogio Sparagna con la carovana artistica BandaDante e l’Orchestra di musica popolare dell’Auditorium di Roma, che ripercorrerà il lungo viaggio di Dante attraverso il canto dei pastori e il ritmo e la forza della musica popolare italiana.

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Erevan, iniziata la campagna elettorale per le parlamentari (Asianews 08.06.21)

Vi partecipano 26 liste politiche, divise in quattro coalizioni e 22 partiti indipendenti. Crisi politica scatenata dalla sconfitta del 2020 nel Nagorno Karabakh contro gli Azeri. Proposto un governo di unità nazionale. Il rischio della guerra civile.

Mosca (AsiaNews) – Dopo lunghe contese e diatribe, il 7 giugno è iniziata in Armenia la campagna per le elezioni parlamentari anticipate, che si terranno il 20 giugno. Vi partecipano 26 liste politiche, divise in quattro coalizioni e 22 partiti indipendenti. Tutti i precedenti leader politici, compreso l’attuale premier ad interim Nikol Pašinyan, prederanno parte alla competizione.

Il primo presidente dell’Armenia indipendente post-sovietica, Levon Ter-Petrosyan, guida la lista del Partito del congresso nazionale armeno; il secondo presidente Roberto Kočaryan è a capo della coalizione “Ayastan” (antico nome dell’Armenia). Lo stesso Pašinyan si presenta con il partito “Accordo civile”. Serž Sargsyan, non è inserito nelle liste elettorali, ma il Partito repubblicano da lui guidato è nella coalizione “Ho la dignità”: il terzo presidente del Paese è molto attivo nella campagna elettorale.

Tutti i partiti e gli ex-presidenti si sono scontrati in passato sul tema dell’eredità post-sovietica: Petrosyan era il segretario del Partito comunista in Armenia al momento del crollo dell’Urss, e i suoi avversari pretendevano maggiore indipendenza dalla Russia, rivendicando un ruolo autonomo nei conflitti politici e militari del Caucaso, soprattutto con l’annessione del Nagorno Karabakh. Pašinyan ha cercato una posizione intermedia, difendendo l’indipendenza nazionale e cercando un nuovo ruolo internazionale del Paese.

Pašinyan si rimette in gioco dopo la “rivoluzione di velluto” del 2019 e la sconfitta nel Nagorno Karabakh del 2020, eventi molto contradditori. Egli non perde però la speranza di essere rieletto. Il giorno di apertura della campagna si è rivolto ai cittadini armeni con un discorso ufficiale: “Nel corso degli anni abbiamo sofferto moltissimo per la nostra Patria”. Pašinyan osserva che “vogliono convincervi a tornare indietro, che bisogna essere sottomessi nella propria patria, oppure la perderemo, ma io voglio convincervi del contrario”.

Secondo il premier uscente, quando egli ha guidato la protesta che ha portato al cambio di regime, “la nostra patria era come una macchina sull’orlo di un baratro, che noi cercavamo di guidare senza volante né ruote, senza freni né motore”. Rilanciando la speranza nel futuro dell’Armenia, Pašinyan cerca di presentare una visione di nuova rinascita dopo le catastrofi della guerra e del Covid-19: “Un futuro esiste, e noi oggi lo stiamo creando”.

Tra le tante liste che si contrappongono, rifacendosi ai drammi degli anni passati, c’è anche un partito che invoca la concordia sociale e la formazione di un governo di unità nazionale: si tratta di “Armenia Illuminata”, guidato da Edmon Marukyan. A suo parere, se le elezioni riproporranno lo scontro muro contro muro di questi anni e degli ultimi mesi, la situazione del Paese potrebbe degenerare in una specie di guerra civile.

Nella conferenza stampa di presentazione, Marukyan ha osservato che “secondo tutti i sondaggi, né il partito al governo né la formazione guidata da Kočaryan hanno reali possibilità di ottenere una maggioranza”. Il 45% degli elettori sembra ancora incerto sul voto, quindi “serve una forza che non si presenti come nemica né degli uni né degli altri, per fare un governo tutti insieme per almeno 3-5 anni”.

Se non si arriverà a trovare una formula stabile di governo, secondo tutti gli osservatori, il rischio maggiore è che le Forze armate dell’Azerbaijan, che già occupano diverse zone del territorio nazionale, avanzino molto più in profondità, mettendo in pericolo l’indipendenza stessa dell’Armenia.

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