Biden non teme Erdoğan: gli Stati Uniti riconoscono il genocidio armeno (Liberopensiero 07.05.1)

Il Presidente americano Joe Biden ha rotto col il passato, definendo sabato 1 maggio, per la prima volta nella storia degli Stati Uniti con il termine genocidio le violenze perpetrate ai danni della popolazione armena verificatisi fra il 1915 e il 1916, sebbene i massacri compiuti dall’ Impero ottomano (oggi Turchia) fossero cominciati anni prima, per terminare solo intorno agli anni venti. La Turchia ha sempre negato la terminologia “genocidio armeno”, sostenendo che le violenze ai danni degli armeni si siano verificate nell’ottica del primo conflitto mondiale e in seguito a specifici atti rivoltosi messi in atto nei confronti dell’impero ottomano.

Gli Stati Uniti e la fine del silenzio permanente sul genocidio armeno

E’ una decisione sicuramente coraggiosa quella dell’amministrazione americana, considerata tale dal fatto che nessun altro presidente fino ad oggi era arrivato ad assumersi tale responsabilità. Barack Obama infatti, nonostante le promesse fatte durante la sua campagna elettorale nel 2008, nel corso dei suoi due mandati presidenziali si è espresso solo con termini convenzionali quali “atrocità di massa” ed “orrore” a proposito del genocidio armeno, dimostrando così quanto le pressioni di Erdoğan pesassero sulla politica americana.

 

Nel corso della scorsa amministrazione, lo stesso Donald Trump aveva avvisato Erdoğan che avrebbe proceduto con il riconoscimento del genocidio attraverso una risoluzione al Congresso, se la Turchia avesse deciso di invadere la Siria settentrionale una volta che le truppe statunitensi si fossero ritirate. Minaccia diventata realtà con il voto bipartisan ampiamente favorevole ottenuto sia alla Camera che al Senato. Ciononostante, solo poche settimane dopo, temendo una reazione ostile dall’alleato turco, Trump aveva deciso di tirarsi indietro. Non a caso il governo turno investe ogni anno milioni di dollari per emettere pressioni sui funzionari e legislatori americani: quasi 12 milioni durante l’amministrazione Obama e quasi altrettanti durante la presidenza Trump.

Nel 2005 l’ambasciatore americano in Armenia John Evans aveva sostenuto che il genocidio armeno fosse ≪il primo genocidio riconosciuto del ventesimo secolo≫ e per questo era stato richiamato e costretto al pensionamento anticipato, dimostrando come la verità storica fosse ancora considerata insubordinazione.

Usa e Turchia: una situazione già molto tesa

Le dichiarazioni di Joe Biden si sono verificate in occasione del 106esimo anniversario dell’inizio delle violenze e sono arrivate in un momento di estrema tensione fra Washington e Ankara: in seguito all’acquisto turco nel luglio 2019 del sistema di difesa missilistica antiaerea russo incompatibile con la NATO, gli Stati Uniti hanno proceduto con l’approvazione di sanzioni economiche verso la Turchia. Quest’ultima, d’altro canto, è frustrata dal fatto che Washington dia sostegno ai combattenti curdi siriani e non permetta l’estradizione di Fethullah Gulen, accusato di aver organizzato il colpo di stato contro il Erdoğan nel corso del 2016 e residente in Pennsylvania dagli anni Novanta.

 

L’avvicinamento recente della Turchia alla Russia, ha ulteriormente inasprito i rapporti fra le due potenze: essendo un membro NATO infatti, Erdoğan potrebbe decidere di limitare l’utilizzo americano delle proprie basi sul territorio considerate essenziali per le operazioni in Medio Oriente.

Sebbene nel suo messaggio Biden abbia sottolineato che le sue intenzioni non fossero quelle di accusare nessuno, solo quelle di ≪affermare la storia, per essere certi che quanto accaduto non si ripeta mai piùle reazioni da Ankara non sono tardate ad arrivare. Il ministro degli Esteri turco Mevlut Cavusoglu ha dichiarato che questa dichiarazione apre ≪una ferita irrecuperabile nelle nostre relazioni≫.

Negli Stati Uniti ad oggi vivono circa due milioni di armeni, la maggior parte dei quali discende proprio dai sopravvissuti del genocidio. Procedere con il suo riconoscimento possiede un enorme significato, fra cui il mantenimento della parola datada Biden durante la sua campagna elettorale.

Allo stesso tempo Biden è consapevole che la popolarità di Erdoğan stia calando: la Turchia ha bisogno degli Stati Uniti molto di più di quanto gli Stati Uniti necessitino della Turchia. Questo, insomma, non potrebbe essere un momento migliore per definire una politica di maggiore fermezza verso l’alleato ribelle, e Biden ha deciso di farlo riconoscendo davanti a tutti ciò di cui la Turchia di 106anni fa fu responsabile: il genocidio di più di 1,5 milioni di armeni.

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La diaspora armena guarda ai tribunali dopo il riconoscimento del genocidio (Lindro 07.05.21)

Parla l’attivista Aram Hamparian sul lavoro di lobby condotto dai gruppi che rappresentano la diaspora dell’Armenia in USA e sulle future attività, nei tribunali e nella politica, contro la Turchia e i suoi alleati

Gli armeno-americani hanno combattuto per decenni per dare al Presidente Joe Biden lo spazio politico per il suo storico riconoscimento del genocidio armeno del 1915.

Ora sono pronti per il prossimo combattimento.
In una lunga intervista ad ampio raggio con ‘Foreign Lobby Report‘, realizzata la scorsa settimana, l’attivista Aram Hamparian ha riflettuto sulla travagliata strada verso l’annuncio e sulle priorità della diaspora in futuro.

Hamparian è il direttore esecutivo dell’Armenian National Committee of America (ANCA), uno dei numerosi gruppi che rappresentano una diaspora politicamente potente che si stima rappresenti tra 500.000 e 1,5 milioni di persone.

ANCA è stata fondata nel 1941 a implementazionedell’American Committee for the Independence of Armenia (ACIA) del dopoguerra. Il gruppo si è ufficialmente registrato per la prima volta nel 2009 e riferisce di spendere 30.000 dollari in attività di lobbismo a trimestre.

Hamparian ha detto che la dichiarazione di Biden ha dato nuova vita a cause legali vecchie di anni da parte dei discendenti delle vittime del genocidio contro lo Stato turco e le società private. Ha rilanciato gli sforzi per commemorare gli eventi del 1915 e insegnare la loro storia nelle scuole statunitensi. E alimenterà l’attività di lobbying degli armeni contro la Turchia e i suoi alleati, Azerbaigian e Pakistan, su Capitol Hill e l’Amministrazione.

La comunità armeno-americana ha ottenuto una grande vittoria durante il fine settimana dopo decenni di lotte. Come sono arrivati gli Stati Uniti a questo punto e perché ci è voluto così tanto tempo?

Deciso nel merito, questo problema sarebbe stato risolto decenni e decenni fa. Il nostro sforzo è stato quello di creare una situazione in cui il riconoscimento del genocidio armeno potesse essere intrapreso nel merito. Ma per renderlo possibile, abbiamo dovuto liberare il campo dall’influenza straniera. Questa è la struttura concettuale di ciò che è accaduto.

Non è stata una battaglia di ‘questo fatto contro quel fatto’, quanto per consentire all’America di prendere una decisione nel merito. Come americano mi sento bene che agli americani sia stato permesso di parlare con una voce americana. Questo è il sollievo che proviamo. Questa non è più la politica fissata ad Ankara, esportata in DC, e poi applicata dai Presidenti repubblicani o democratici. Ora è una vera politica americana, basata sugli archivi degli Stati Uniti, basata sui nostri valori, sulla nostra storia.

La Turchia sta perdendo terreno a Washington da anni, con il Pentagono in particolare, inacidito contro Ankara per il suo acquisto di armi russe. Quanto ha influito questo sulla decisione del Presidente rispetto ad anni di lavoro di advocacy da parte di gruppi come ANCA, l’Assemblea armena d’America e molti altri?

C’è il tempismo e c’è la politica. Washington è politica, e lo capiamo. Il nostro compito era presentare i fatti, sostenere la tesi morale, fare pressione e quindi cercare le giuste opportunità. Nessuno di quei pezzi funziona in modo indipendente. Devono agire tutti insieme: i fatti, il caso morale e poi il tempismo.

Se fai tutte queste cose e il tempismo non è giusto, non succede. Allo stesso modo, se non hai fatto la preparazione, non hai fatto la pressione politica, non si ottiene nulla. Quindi è una combinazione di ciò che è sotto il nostro controllo e ciò che non è sotto il nostro controllo. Devi essere sempre pronto.

Il conflitto mortale dello scorso anno tra Armenia e Azerbaigian sull’enclave del Nagorno-Karabakh (noto come Artsakh per gli armeni) ha galvanizzato la diaspora. Pensi che la guerra abbia effettivamente aiutato la causa del riconoscimento del genocidio?

Certamente ha dato energia agli armeni attorno alle minacce molto, molto gravi alla patria armena. E in secondo luogo, ha aiutato i politici americani -compresi i legislatori- a comprendere la minaccia genocida in corso per gli armeni. Che non è finita nel 1915. Lo capisci quando [il presidente turco Recep Tayyip]Erdogan dice pubblicamente, “ci sbarazzeremo dei resti della spada”, una frase usata per riferirsi ai cristiani [sopravvissuti]del 1915, è un commento molto minaccioso. Quando dice cose del genere, ogni armeno nel mondo dice: “So esattamente cosa intende”. (Nota del redattore: alcuni studiosi turchi hanno difeso i commenti, dicendo che l’espressione può riferirsi a qualsiasi gruppo definito come bandito dallo Stato, compresi i terroristi).

In che modo la comunità armeno-americana intende sfruttare lo slancio della designazione?

Bloccare la memoria e istituzionalizzarla, sotto forma di ricorrenze annuali, memoriali, musei, cose del genere. L’istituzionalizzazione è una di queste. (Nota dell’editore: una proposta per un museo del genocidio dell’Armenia a Washington esiste da due decenni).

Il numero due è l’istruzione. Penso che almeno una dozzina di Stati abbiano disposizioni formali sull’educazione al genocidio armeno; molti altri Stati in realtà educano sul genocidio armeno.

E le implicazioni legali? Nel 2000 lo Stato della California ha approvato una legge che estende i termini di prescrizione per i crediti di assicurazione sulla vita per le vittime del genocidio, ma la Corte di Appello Nona ha cancellato la legge. Il riconoscimento del genocidio del Presidente Biden cambia l’equazione?

[I tribunali] hanno spesso citato la prelazione federale -che gli Stati non possono intraprendere azioni che non siano coerenti con la politica federale. Diverse leggi statali furono abrogate su quella base giuridica. Alla fine, la Corte Suprema ha deciso di non ascoltare il caso sulla base del fatto che la stessa legge della California era incostituzionale a causa della prelazione federale. Tutto quello che abbiamo fatto in quel mondo [pre-riconoscimento] che è stato abbattuto, e ci sono voluti anni, l’intera arena è ora aperta a noi. Quindi c’è la via legale, e penso che sarà perseguita in modo molto significativo.

I tribunali non possono più dire, questo è in contraddizione con la politica federale degli Stati Uniti. Quella era stata una grande fonte di frustrazione per noi. Il Dipartimento di Stato ha sempre tenuto a dire: “beh, non stiamo negando nulla”. Ma in qualche modo, le loro dichiarazioni hanno finito per bloccare le azioni legali. Quindi è stata negazione.

E le ripercussioni internazionali?

C’è la questione più ampia della giustizia, delle riparazioni e della restituzione. L’America ha firmato la convenzione ONU sul genocidio, insieme alla Turchia. Il titolo della convenzione è‘Convenzione delle Nazioni Unite sulla prevenzione e la punizione del genocidio’. Fondamentalmente il mondo crede che dovremmo punire il genocidio, perché vogliamo prevenire il genocidio.

La definizione comune di giustizia è rendere la vittima integra, ciò che può essere restituito dovrebbe essere restituito, ciò che non può essere restituito dovrebbe essere risarcito. Penso che tutto dovrebbe essere sul tavolo. Penso che stiamo parlando di proprietà e terra, accesso al mare. Ma non possiamo avere quella discussione, la Turchia non è disposta ad avere quella discussione, perché ancora nega.

Perché hanno investito così tanto su questo tema, per così tanto tempo, a Washington? Perché non vogliono essere isolati su questo problema. Vogliono, nelle loro negazioni, avere altri sui quali appoggiarsi. Man mano che si trovano sempre più isolati e soli, le loro negazioni diventano sempre meno sostenibili.

Dove possiamo aspettarci di vedere la ripresa dell’azione legale?

Ci può essere giustizia a tre diversi livelli.

Un primo fronte sono gli individui, le persone. Ad esempio, la base aerea di Incirlik si trova su terreni agricoli di proprietà di armeni, loro sequestrati illegalmente a seguito del genocidio. Quindi ci sono affermazioni individuali che possono essere perseguite. (Nota dell’editore: nel 2010, i presunti discendenti dei proprietari dismessi di Incirlik hanno citato in giudizio la Turchia presso la Corte Federale di Los Angeles, chiedendo più di 65 milioni di dollari. Incirlik ospita una base chiave dell’aeronautica americana in Medio Oriente.)

In secondo luogo, sono organizzazioni, istituzioni, come la Chiesa armena. Così, ad esempio, la Chiesa armena ha citato in giudizio per la restituzione del suo quartier generale [nell’odierna Kozan], che è stato distrutto e rubato durante il genocidio, e quelli si stanno facendo strada attraverso i tribunali in Turchia e in Europa (Ndr: la prossima udienza del caso era fissata per il 6 maggio).

E poi infine c’è il livello statale. L’Armenia, in quanto membro delle Nazioni Unite, ha la facoltà di perseguire i casi.

E poi, per di più, hai rivendicazioni contro società americane o internazionali (comprese compagnie di assicurazioni sulla vita con richieste relative al genocidio).

Indossando il nostro cappello ANCA, non [saremo coinvolti in altre cause legali]. Ma lavoriamo con molti gruppi diversi e questo è un argomento di discussione molto intensa in questo momento.

Estenderai le tue pressioni per affrontare gli alleati della Turchia? Il Pakistan, ad esempio, ha denunciato quello che ha definito ‘l’approccio unilaterale’ di Biden alla questione del genocidio, guadagnandosi il plauso di Ankara.

Stiamo lavorando a stretto contatto con gli alleati indiano-americani e indù-americani evidenziando le politiche anti-armene del Pakistan (Nota dell’editore: l’Armenia ha accusato il Pakistan di fornire aiuto militare all’Azerbaigian nel conflitto dello scorso anno, cosa che il Pakistan nega). Non riconoscono l’Armenia (l’unico Paese a non farlo). Penso che questa partnership crescerà solo nel tempo.

Ad esempio, vorremmo che i membri del Congresso si concentrassero sulla questione della cooperazione turco-pakistana sulle armi nucleari. Stiamo compiendo uno sforzo concertato per condividere questa preoccupazione con i membri del Congresso. Insieme a greco-americani, indiano-americani, voci sempre più ebreo-americane sono preoccupate per l’argomento. (Nota del redattore: la Turchia ha recentemente intensificato la sua cooperazione militare con il Pakistan dotato di armi nucleari, alimentando rapporti di possibile supporto segreto per un programma turco di armi nucleari).

Con la lotta per il riconoscimento del genocidio ormai terminata, quali sono le tue principali priorità in termini di lobbismo per il Congresso e l’amministrazione Joe Biden?

Aiuti esteri per Artsakh [Nagorno Karabakh] . Questa è una priorità enorme. Il fatto che il Presidente applichi la Sezione 907 che limita gli aiuti statunitensi all’Azerbaigian, questa è un’altra priorità molto alta. (Nota dell’editore: la sezione 907 del Freedom Support Act del 1992 vieta l’assistenza diretta degli Stati Uniti all’Azerbaigian, ma il Presidente può rinunciare alla disposizione per motivi di sicurezza nazionale. I gruppi armeno-americani e l’Azerbaigian sono attualmente bloccati in una lotta lobbistica del Congresso su chi dovrebbe ottenere i finanziamenti per ricostruire il Nagorno-Karabakh dopo i combattimenti dell’anno scorso).

E il ritorno dei prigionieri. Sei mesi dopo la fine della guerra, l’Azerbaigian detiene ancora prigionieri. E sfortunatamente il nostro Dipartimento di Stato li chiama detenuti, che è una soluzione legale per evitare le protezioni normalmente offerte ai prigionieri di guerra. Ovviamente sono prigionieri di guerra. C’era una guerra. Le persone sono state fatte prigioniere. Il governo degli Stati Uniti dovrebbe chiamarli prigionieri di guerra e dire che hanno diritto alle protezioni per i prigionieri di guerra ai sensi della Terza Convenzione di Ginevra.

Hai iniziato la nostra conversazione dicendo che il riconoscimento del genocidio è diventato possibile solo una volta che il campo è stato ripulito dall’influenza straniera. Qui a ‘Foreign Lobby Report’ abbiamo seguito da vicino la campagna di successo della diaspora armena per convincere le aziende a rinunciare alla Turchia come cliente da quando è scoppiato il conflitto nel Nagorno-Karabakh lo scorso autunno. Ritieni che quella campagna abbia un impatto duraturo sulla scena dell’influenza di Washington?

La Turchia ha sempre pagato bene. Per molto tempo [rappresentare Ankara]è stato un buon affare. Ma le cose stanno davvero cambiando. Il loro posto nell’ecosistema del lobbismo è cambiato drasticamente. Sempre più aziende lo considerano una responsabilità professionale. Dovrebbe essere una responsabilità professionale. E siamo attivi in quell’area.

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Ferrara festeggia il suo compatrono armeno S. Maurelio (Estense 07.05.21)

La Chiesa di Ferrara-Comacchio celebra oggi, il 7 maggio, S. Maurelio, compatrono della città con S. Giorgio, con una messa alle ore 18.30 nella Basilica di San Giorgio fuori le Mura dove riposa il corpo del Santo.

Se anche le cronache della sua vita non sono coeve, ma tardo medioevali, S. Maurelio era originario di Edessa, dove nacque nel VII secolo.

Edessa, oggi in Turchia, era una città dell’antica Armenia, che si estendeva nell’Anatolia orientale tra Siria, Iran e mondo greco, dove il cristianesimo era arrivato grazie agli apostoli Giuda Taddeo e Bartolomeo.

Secondo alcuni fu il primo stato a riconoscere come religione propria il cristianesimo nel 301: infatti nel 2001 furono celebrati i 1700 anni di evangelizzazione. E l’evangelizzazione partì proprio da Edessa, la città di origine di S. Maurelio, con la conversione del re Abgar ad opera dell’apostolo Giuda Taddeo, che troverà poi la morte per opera di re Sanatruk in Armenia.

L’opera di Giuda Taddeo sarà continuata dall’apostolo Bartolomeo e successivamente da fedeli provenienti dal mondo greco e siriaco, che faranno delle chiese armene il frutto di culture e spiritualità diverse, arricchite poi dal monachesimo eremitico e cenobitico.

E sarà il mondo monastico benedettino olivetano, infatti, a riportare il culto di S. Maurelio nella città e Chiesa, all’inizio del XV, recuperando la tradizione medioevale di S. Maurelio come ultimo Vescovo di Voghenza, prima che la sede episcopale fosse trasferita nel VII secolo a Ferrara, dove nella chiesa di S. Giorgio, prima Cattedrale della città, era stato traslato nel XII secolo da Edessa, divenuta il primo degli stati crociati nell’Armenia minore, il corpo di S. Maurelio. 

“Ricordare S. Maurelio oggi – afferma il vescovo Gian Carlo Perego – significa ritornare alle origini della nostra Chiesa, che vede in questo santo armeno un tassello della propria evangelizzazione, oltre che il suo copatrono. Al tempo stesso S. Maurelio, martire armeno, ci ricorda le tante persecuzioni di questo popolo cristiano – tra le quali il genocidio del 1915-1923, quando centinaia di migliaia di uomini, donne, anziani, bambini furono uccisi durante il Metz Yegern, il “grande male” – che ha fatto della croce e del martirio il fulcro di una spiritualità e di una testimonianza cristiana”. 

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Festa di San Maurelio compatrono di Ferrara (La Nuova Ferrara)

 

Erdogan ospita i capi cristiani a una cena di “rottura del digiuno” del Ramadan (Agenziafides 06.05.21)

Ankara (Agenzia Fides) – Una cena ufficiale di Iftar (rottura del digiuno) durante il mese di Ramadan, ospitata nel mega-palazzo presidenziale di Ankara e offerta a tutti i capi delle comunità cristiane presenti in Turchia, insieme a altri rappresentanti delle comunità religiose minoritarie nazionali. E’ questa l’iniziativa che il Presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha voluto realizzare la sera di mercoledì 5 maggio, con l’intento di attestare pubblicamente le buone relazioni tra la leadership turca e le comunità di fede non musulmane presenti in Turchia. L’evento è stato fortemente voluto da Erdogan, anche per il suo impatto simbolico. Il rilievo attribuito dal Presidente turco alla cena con i capi delle comunità di fede non islamiche risalta ancor di più se si tiene conto della situazione generale in cui versa il Paese, dove a causa della crisi pandemica da COVID-19 è stato proibito a tutta la popolazione di consumare comunitariamente Sahur e Iftar, i pasti prima e dopo il digiuno (che durante il mese sacro del Ramadan dura dall’alba al tramonto per tutti i musulmani osservanti).
All’Iftar offerto a Ankara dal Presidente Erdovan hanno preso parte, tra gli altri, il Patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo I, il Patriarca armeno di Costantinopoli Sahak Maşalyan, il Metropolita siro ortodosso Yusuf Çetin e il Vicario patriarcale siro cattolico Orhan Abdulahad Çanlı, insieme ai responsabili di alcune Fondazioni e Istituzioni legate alle comunità cristiane. Tra i rappresentanti di comunità di fede non cristiane, figuravano anche il rabbino capo Isak Haleva e il Presidente della comunità ebraica turca Ishak Ibrahimzadeh. Le fonti istituzionali non hanno fornito dettagli sulle conversazioni svoltesi durante l’Iftar, ma nei giorni scorsi sui media turchi erano filtrate indiscrezioni secondo cui tra i temi messi sul tavolo durante la cena ci sarebbero stati anche la questione dei beni immobili da restituire alle fondazioni delle comunità minoritarie, le eventuali richieste delle comunità di fede in merito al progetto di nuova Costituzione e la valutazione della recente dichiarazione con cui il Presidente USA Joe Biden ha definito come “Genocidio” le stragi di armeni perpetrate nella Penisola anatolica tra il 1915 e il 1916.
Di recente, come riferito dall’Agenzia Fides (vedi Fides 27/4/2021), il Presidente Erdogan aveva indirizzato al Patriarca armeno Sahak II un messaggio in occasione del 24 aprile, data in cui le comunità armene sparse in tutto il mondo commemorano il “ Grande Male” (espressione utilizzata per indicare le stragi di armeni avvenute in Anatolia nei primi anni della Prima Guerra mondiale). Nel suo messaggio, il Presidente turco aveva richiamato con enfasi la convivenza secolare tra turchi e armeni in Anatolia, rimarcando l’appartenenza di tutti “alla medesima famiglia umana, indipendentemente dall’etnia, dalla religione, dalla lingua o dal colore”. In quei giorni, il Patriarca armeno Sahak II, in alcune dichiarazioni riportate dai media turchi, aveva espresso rammarico “nel vedere che le sofferenze del nostro popolo e i sacri ricordi dei nostri antenati sono usati come strumento per ottenere obiettivi politici contingenti”, aggiungendo che proprio Erdogan “è stato l’unico statista nella storia della Repubblica di Turchia che ha pubblicato messaggi su questo argomento, in qualità di Primo Ministro e Presidente della Repubblica”, mostrando di condividere “il nostro dolore e un rispetto per la memoria dei nostri figli che hanno perso la vita in esilio”.
Ankara non riconosce le stragi di cui furono vittime gli armeni in Anatolia tra 1915 e 1916 come uno sterminio pianificato su base etnica, considerando quei fatti come una tragica conseguenza dello stato di caos collegato al conflitto bellico che avrebbe condotto alla dissoluzione dell’Impero ottomano. (GV) (Agenzia Fides 6/5/2021)

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Mkhitaryan e Mourinho, i diverbi passati: ecco cosa diceva l’armeno (Ansa 06.05.21)

L’approdo sulla panchina della Roma di José Mourinho non avrà di certo fatto piacere a Mkhitaryan . I due, infatti, hanno avuto dei trascorsi turbolenti ai tempi del Manchester United. Lo stesso armeno, in un’intervista del 2020, aveva rivelato le difficoltà avute sotto la gestione dello Special One. “Una volta a colazione Mourinho mi vide e mi disse: ‘Per colpa tua la stampa mi critica’. E io risposi: ‘Davvero? Non lo faccio certo di proposito’. E’ stato l’allenatore più duro che ho avuto in carriera, è un vincente di natura e vuole che tu faccia quello che ti chiede. Ci sono state divergenze e conflitti, che per fortuna non hanno messo a repentaglio i trofei vinti”. E poi ancora: “Dopo una partita mi disse che dovevo pensare ad allenarmi di più. A quel punto pensai: ‘Non ho altro da fare qui a Manchester. Lavoro duramente, presso, segno, aiuto la squadra e qualcuno è pure insoddisfatto”. 

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Armeni: fu un genocidio? La scelta di Biden (Cittanuova 06.05.21)

Il “genocidio armeno” dopo più di un secolo è ancora oggi al centro di dibattiti e prese di posizione. Una trentina di stati l’hanno ufficialmente riconosciuto, compreso il Vaticano. Improvvisamente anche Biden ha preso posizione riconoscendo che nel 1915-1923 gli armeni furono oggetto di un piano di sterminio. Gli Usa non si erano mai pronunciati nel merito. Perché adesso?

A Erevan, capitale dell’Armenia, la sera del 24 aprile scorso, come ogni anno, migliaia di persone con le fiaccole accese si sono radunate di fronte al memoriale del Meds Yeghern (grande male) che ricorda le vittime armene del periodo compreso fra il 1915 e il 1923, nei territori dell’allora Impero Ottomano (quest’anno erano almeno 10mila, nonostante il Covid). La data del 24 aprile fa riferimento al primo episodio di quello che negli anni 40 verrà chiamato “genocidio armeno”, termine ancora oggi rifiutato dallo stato turco.

Per comprendere cosa avvenne in quegli anni, secondo gli armeni e per la maggioranza degli storiografi, la data del 24 aprile 1915 è emblematica. A partire da quella notte e per un mese, soprattutto a Istanbul, più di mille intellettuali armeni (studiosi, giornalisti, poeti, deputati, ecc.) vennero arrestati e deportati verso l’interno dell’Anatolia, ma nessuno di loro giunse vivo a destinazione, se era prevista una destinazione. Fu il primo episodio di una serie di “trasferimenti” decretati dal governo turco (all’epoca controllato dai “Giovani Turchi” del comitato Unione e Progresso), che riguardò gli armeni di tutto il Paese.

Gli storici stimano che tra 1,2 e 1,5 milioni di armeni morirono non solo giustiziati senza alcun processo, ma soprattutto per fame, malattia e sfinimento. Una parte dei cadaveri venne sepolta in fosse comuni, molti furono abbandonati dove erano caduti o dove erano stati uccisi. Uomini, donne e bambini. Chi riuscì a salvarsi emigrò, soprattutto in Francia, Germania, Italia, Paesi Bassi, Usa e Russia. I discendenti della diaspora armena sono oggi presenti in tutto il mondo, e sono almeno 8 milioni. Oltre ai circa 3 milioni che vivono nella Repubblica di Armenia costituitasi nel 1991 sul crollo della precedente Repubblica socialista sovietica di Armenia istituita nel 1936, e ai poco più di 70 mila che vivono ancora in Turchia, nei territori del nordest che furono la culla dell’antica civiltà armena.

Da un punto di vista giuridico, gli archivi ottomani documentano che le deportazioni degli armeni iniziarono legalmente già nel marzo 1915 e che il 13 settembre dello stesso anno il parlamento ottomano approvò una “Legge temporanea di espropriazione e confisca”, che autorizzava lo stato a disporre di tutte le proprietà “abbandonate” dagli armeni, compresi terreni, bestiame e case.

Civili armeni in marcia forzata verso il campo di prigionia di Mezireh, sorvegliati da soldati turchi armati. (da Wikipedia)

Lo stato turco, anche la repubblica sorta dopo la dissoluzione dell’Impero Ottomano (1922), non ha mai riconosciuto le deportazioni degli armeni, che pure ci furono, come scusa per il loro sterminio. E quando più tardi si cominciò sempre più a parlare di genocidio armeno, l’uso del termine “genocidio” in questo contesto venne considerato reato penale perseguibile. E lo sanno bene diversi intellettuali turchi che sono stati accusati di questo crimine contro lo stato: quello di riconoscere che c’è stato un “genocidio armeno”. E si sa che in quanto a prigioni la Turchia non scherza, con il secondo tasso di incarcerazione più elevato (dopo la Russia) tra i Paesi del Consiglio d’Europa (357 incarcerati ogni 100 mila abitanti).

Oggi il “genocidio armeno” è riconosciuto ufficialmente da una trentina di nazioni e dalla grande maggioranza degli storici. Per lo stato turco si trattò invece di massacri reciproci nel contesto della Prima Guerra Mondiale (anche perché alcuni soldati armeni inquadrati nell’esercito ottomano disertarono e passarono nelle file dei russi nella speranza di liberare la terra armena dal secolare dominio ottomano) e di vittime della grande carestia di quegli anni, che provocò molti morti da entrambe le parti in guerra.

Gli Usa, dove peraltro la comunità armena è particolarmente nutrita (2 milioni), non avevano finora preso posizione sul “genocidio armeno”, soprattutto per una questione di rapporti con la Turchia, importante membro della Nato. Ma il presidente Biden ha deciso di riconoscerlo ufficialmente il 23 aprile scorso, pur precisando che il gesto è inteso a “confermare la storia”, e “non a incolpare” la Turchia. Di fatto, però, il riconoscimento statunitense riapre in un certo senso un’annosa e non secondaria questione: se la legge turca del 13 settembre 1915, quella dell’esproprio degli armeni, fosse impugnata a livello internazionale a causa del riconoscimento del “genocidio”, la Turchia dovrebbe risarcire milioni di eredi.

L’impressione è che le motivazioni che hanno spinto Biden a questo passo non siano solamente quelle di affermare i diritti umani di un popolo perseguitato, come è nello stile della sua presidenza. È anche questo. Ma c’è pure, probabilmente, un ben preciso segnale nei confronti delle sfide della leadership turca alle posizioni politiche e strategiche statunitensi e atlantiche. Come suggerisce un recente focus dell’Ispi, è possibile che la strategia di Biden sia basata su un convincimento: «Che la Turchia, in questo momento, abbia bisogno degli Stati Uniti più di quanto gli Stati Uniti abbiano bisogno della Turchia». E aggiunge: «È quindi il momento giusto per rimettere in riga un alleato riottoso, bisognoso del sostegno occidentale anche per calmare il nervosismo dei mercati a motivo delle sempre più evidenti difficoltà della lira turca».

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Mourinho alla Roma ritrova 4 giocatori: ecco chi ha già allenato (Skysport 06.05.21)

Con l’approdo alla Roma, Mourinho ritroverà 4 giocatori che ha già allenato in passato: due allo United, Smalling e Mkhitaryan, oltre a Santon ai tempi dell’Inter e Pedro, voluto al Chelsea e allenato poi per poche settimane a causa dell’esonero. Qual è il rapporto tra il portoghese e i 4 oggi in giallorosso?

HENRIKH MKHITARYAN. Partiamo dall’armeno che, tra i 4, è sicuramente quello che ha avuto il rapporto più complicato con Mourinho. Il giocatore si unisce al Manchester United nell’estate 2016, proprio in concomitanza dell’arrivo dello Special One. Il portoghese non lo schiera quasi mai dal primo minuto nei primi mesi – anche per via di qualche problema fisico -, ma alla fine Mkhitaryan riesce a conquistare la fiducia e diventa titolare nella seconda metà di stagione…

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Terra Santa: Custodia di Terra Santa, scambio di auguri pasquali con le chiese ortodosse (SIR 06.05.21)

Il 4 maggio il Custode di Terra Santa, padre Francesco Patton, insieme al Vicario Custodiale, padre Dobromir Jasztal e ad una delegazione di frati francescani, si è recato al Patriarcato greco-ortodosso di Gerusalemme per il tradizionale scambio di auguri pasquali con il patriarca Patriarca Teofilo III. Gli ortodossi hanno celebrato la Pasqua il 2 maggio. Padre Patton, riferisce la Custodia, nel suo discorso di auguri, ha richiamato il tema dell’unità: “Quando tra di noi c’è cooperazione, mostriamo a tutti che siamo un solo Corpo e che possiamo essere testimoni di riconciliazione e di pace”. In questo senso, secondo il Custode, un esempio di unità è la comunità cristiana del Santo Sepolcro, composta da rappresentanti della comunità cattolica, greco-ortodossa e armena.  Anche il Patriarca Teofilo III ha parlato della comunità del Santo Sepolcro e di quanto sia fondamentale lo Status Quo per mantenere in autonomia la vita nella Basilica. Proprio il Santo Sepolcro testimonia il carattere speciale di Gerusalemme e la sua Patriarcato Etiope ortodosso nella Città Vecchia di Gerusalemme. Il 5 maggio la delegazione della Custodia di Terra Santa si è invece recata al Patriarcato Siriaco Ortodosso, accolta dall’arcivescovo Gabriel Daho e successivamente al Patriarcato Copto Ortodosso. A riceverla l’arcivescovo Anba Antonios.

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Nell’Armenia del dopoguerra, i legislatori prendono di mira la libertà di stampa (Globalvoices 05.05.21)

Questo articolo è stato originariamente pubblicato in inglese su OC MEDIA [en, come tutti i link successivi, salvo diversa indicazione]. Pubblichiamo, in questa sede, previo accordo di partenariato sul contenuto, una versione modificata.

Il 7 febbraio, Victoria Andreasyan, una giornalista che lavora per Infocom, ha visitato la provincia armena del Syunik per trattare le storie degli abitanti che vivono vicino al confine con l’Azerbaigian. Quando lei e il suo cameraman hanno raggiunto l’ingresso del villaggio di confine di Shurnukh, sono stati fermati a un posto di blocco.

“Le truppe di confine ci hanno detto che è necessario un permesso dal National Security Service (NSS) per entrare nel villaggio” ha raccontato Andreasyan a OC Media. Tre giorni dopo la trasferta della giornalista, il NSS ha annunciato [hy] che i giornalisti avrebbero avuto bisogno di un’autorizzazione per lavorare nelle aree di confine.

Dopo alcune trattative, il team di Andreasyan ha ottenuto l’accesso, ma “è stato impedito loro di parlare con i residenti e di girare dei video”, ha raccontato la giornalista.

L’esperienza di Andreasyan non è unica. Sin dalla firma dell’accordo di pace tripartito del 9 novembre 202o, che ha segnato la fine della seconda guerra Nagorno-Karabakh, il lavoro dei giornalisti in Armenia è stato gettato nello scompiglio da nuovi e spesso vaghi regolamenti e leggi.

Nel 2021, due diversi progetti di legge sulla libertà di parola e sulla stampa sono stati presentati al parlamento armeno. Il primo [hy] prevede un aumento di cinque volte delle multe per “ingiurie e diffamazione” – rispettivamente, 5 milioni di dracme (9500 dollari) e 10 milioni di dracme (19.000 dollari) – e ha già superato la sua prima udienza in parlamento. Il secondo progetto [hy] propone di multare fino a 500.000 dracme (1000 dollari) gli organi di stampa che citano come fonti siti o account di social media la cui proprietà non è pubblicamente nota.

Quest’ultimo è ampiamente considerato una risposta alla crescente popolarità dei canali Telegram anonimi durante e dopo la guerra, alcuni dei quali erano tendenzialmente a favore dell’opposizione e pubblicavano occasionalmente disinformazione anti-governativa che veniva poi ripresa dai media dell’opposizione.

Una terza bozza di legge, proposta dal General Prosecutor Office armeno, ma non ancora presentata in parlamento, renderebbe illegale “insultare o diffamare una persona in servizio pubblico in relazione al suo esercizio di funzioni ufficiali.” Le persone giudicate colpevoli rischierebbero una multa fino a 3.000.000 dracme (6300 dollari) o la reclusione fino a due anni.

Numerose organizzazioni armene di vigilanza dei media, tra cui il Media Initiatives Centre, hanno rilasciato [hy] una dichiarazione congiunta denunciando il disegno di legge come “una logica continuazione di una serie di iniziative legislative introdotte dalle autorità negli ultimi mesi” che “prevedono restrizioni inaccettabili alla libertà di espressione.”

“È impossibile ignorare il fatto che gli ufficiali e i politici spesso percepiscano le critiche obiettive dei media come insulti, diffamazione, e provino a vendicarsi attraverso i tribunali” si può leggere nella dichiarazione.

Shushan Doydoyan, presidente del Freedom of Information Center e professoressa associata di Giornalismo alla Yerevan State University, ha raccontato a OC Media che crede che queste leggi si ritorceranno contro i legislatori se saranno approvate.

“La società chiede informazione, e troverà dei modi per soddisfare questa richiesta” ha detto. “Se ai giornalisti è vietato creare storie di qualità, il divario verrà riempito da pettegolezzi e falsità.”

Gegham Vardanyan, caporedattore di Media Initiatives Centre, una ONG che si occupa di alfabetizzazione mediatica, ha dichiarato a OC Media che le leggi creerebbero solo un ambiente mediatico più ostile. “Alcuni anni fa, perfino la Corte Costituzionale ha raccomandato i tribunali di evitare di applicare le ammende massime in quanto potrebbe essere vista come una pressione sui media” ha aggiunto.

Una conseguenza della guerra

Il cambiament0 improvviso nel panorama mediatico armeno è iniziato con l’introduzione della legge marziale, il 27 settembre, il primo giorno di guerra tra Armenia e Azerbaigian. Sotto la legge marziale, ai giornalisti armeni era proibito criticare le azioni degli ufficiali di stato o il comportamento dell’esercito dell’Armenia.

Secondo le forze dell’ordine armene, 13 organi di stampa e 62 individui sono stati multati [hy] prima che le restrizioni alla pubblicazione fossero ritirate [hy] il 2 dicembre. Mentre le restrizioni erano in atto, circa 600 giornalisti stranieri hanno ricevuto l’autorizzazione dalle autorità armene e del Nagorno-Karabakh per documentare nel Nagorno-Karabakh. Solo il permesso di un giornalista è stato sospeso [ru] – quello di Ilya Azar che ha pubblicato un resoconto fortemente critico dei militari armeni nella rivista indipendente russa Novaja Gazeta.

Dopo la guerra, Karen Harutyunyan, caporedattore di CivilNet, ha aspramente criticato le restrizioni imposte ai giornalisti durante la guerra, che hanno generato dei reportage che hanno solo “ulteriormente indebolito il già confuso senso della realtà del pubblico.”

“L’evolversi dei 44 giorni di guerra ha mostrato che se il lavoro dei giornalisti non fosse stato ostacolato, il paese avrebbe subito molti meno danni e tragedie” ha scritto.

Dopo la fine della guerra, il Ministero della Difesa dell’Armenia sembra aver mantenuto una relazione tesa con i media – in particolare attraverso il silenzio. Numerose organizzazioni [hy] mediatiche [hy] riferiscono che le loro richieste di libertà di informazione fatte al Ministero della Difesa sono state rifiutate sulla base del fatto che le informazioni richieste erano un “segreto di Stato”, anche quando si trattava di qualcosa di basilare come il numero dei soldati armeni morti, feriti, e dispersi.

In definitiva, Shushan Doydoyan ha detto che teme che il degrado dell’ambiente informativo del dopoguerra e la censura avventata del governo minacci la libertà dei media, qualcosa che “l’Armenia ha guadagnato con enorme sforzo nel corso degli anni.”

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Il genocidio armeno e l’ombra turca: a cosa stiamo preparando l’Europa? (L’occidentale 05.05.21)

A volte la memoria collettiva viene sottoposta ad uno sforzo per poter ricordare fatti tragici che, per un motivo o per un altro, non fanno più parte della nostra quotidianità. Tutti noi abbiamo ben presente “l’Olocausto” ovvero lo sterminio degli ebrei durante la seconda guerra mondiale. Tale tragico evento, svoltosi negli anni più cruenti del dominio nazista sull’intera Europa, ha lasciato un segno profondo nella memoria di tutti e nessuno ha bisogno di alcuna sollecitazione per ricordarne la storia.

La stessa cosa non è avvenuta per altri eventi tragici che pure hanno colpito intere popolazioni. Tra queste è tornata alla ribalta nelle scorse settimane quella relativa allo sterminio degli Armeni dal momento che, il 24 aprile, il presidente americano Biden, primo presidente a farlo, ha riconosciuto pubblicamente il genocidio degli armeni. Questa mossa del presidente Biden ha, ovviamente, scatenato le pesanti reazioni del governo di Ankara.

In precedenza, nel 2015, anche il Parlamento Europeo aveva riconosciuto il genocidio degli armeni posto in essere da parte dell’Impero Ottomano. Tale evento, in gran parte sconosciuto agli europei, andrebbe approfondito proprio in virtù della possibilità che la Turchia possa un giorno entrare a far parte dei paesi della Comunità Europea. E non solo. Infatti, in un paese come la Germania, cuore pulsante della Comunità Europea, la presenza di popolazione turca o di origine turca è notevole. Si stimano circa 3 milioni di turchi “diretti” ma il numero aumenta notevolmente se si considerano i tedeschi di origine turca. Infatti, se si considera che i primi flussi di lavoratori turchi iniziarono nel 1961 si può ben comprendere come ci si possa trovare di fronte già alla seconda o terza generazione.

Stime recenti parlano di una popolazione di origine turca presente in Germania che varia tra una percentuale tra il 5% e il 9% dell’intera popolazione residente. E’ a tutti palese come oramai tale etnia abbia un peso rilevante anche sulla politica interna tedesca e non solo in quella. Proprio per questo motivo reputo fondamentale dover conoscere la storia completa del genocidio degli armeni poiché, per alcuni aspetti, il tema ci dovrebbe far riflettere molto.

Innanzitutto partiamo da una precisazione. Come già accennato, il presidente Biden ha riconosciuto il genocidio degli armeni nel suo 106° anniversario. Da questo “errore” dovrebbe partire la nostra ricostruzione.

Infatti, quello che viene solitamente riconosciuto come genocidio degli armeni riguarda esclusivamente i tragici eventi che si susseguirono tra il 1915 e il 1916 in tutto il territorio ottomano. Purtroppo, invece, lo sterminio degli armeni abbraccia un periodo molto più lungo della storia di questo popolo.

La tragedia armena inizia infatti con i cosiddetti “massacri hamidiani”, perpetrati tra il 1894 e il 1896, e si conclude con le azioni di annientamento poste in essere tra il 1919 e il 1924.

Per capire il perché sia iniziata tale persecuzione bisogna fare un passo indietro nell’analisi della storia di questo secolare impero. L’impero ottomano nel corso del diciannovesimo secolo visse sconvolgimenti che misero a rischio la sua esistenza. Sul versante europeo aree sempre più vaste dell’impero venivano interessate da movimenti di liberazione nazionale o da invasione dei paesi cristiani confinanti.

Tale situazione causò un processo migratorio verso la parte asiatica dell’impero di tutta la popolazione mussulmana che veniva scacciata dalle aree che man mano l’impero perdeva. Questo flusso migratorio iniziò a rompere gli equilibri interni che per secoli furono alla base della prosperità dell’impero ottomano determinando, tra l’altro, il fatto che l’elemento cristiano venne ad essere considerato sempre di più un corpo estraneo all’interno dell’impero.

Tanto fu che, a partire dal febbraio 1894 nella città di Yozgat e fino al settembre 1986 nella città di Egin, furono registrati massacri in quasi una trentina di capoluoghi di provincia dell’impero, oltre ad un numero imprecisato di centri minori, che causarono tra i duecentomila e i trecentomila morti.

I massacri furono compiuti da militari e civili turchi con l’aiuto di gran parte della popolazione curda. La popolazione armena fu in questo periodo oggetto di depredazioni senza alcun limite oltre che di conversioni forzate alla religione islamica.

Il risultato di questi massacri fu quello di indurre un notevole numero di armeni a trasferirsi fuori dalla Turchia per poter conservare sia il proprio credo religioso che la propria vita. Dopo tali massacri, per quasi 20 anni, la situazione tornò ad essere quasi normale, se per normale vogliamo intendere che la popolazione armena, considerata di serie “C”, era sottoposta a continue angherie sia da parte dei turchi che dei curdi.

La scintilla del nuovo dramma furono gli eventi della prima guerra mondiale che videro l’Impero Ottomano schierato al fianco di Germania e Impero Austroungarico. Durante tale guerra la popolazione armena fu considerata, anche a causa del proprio credo religioso, dal governo ottomano come una potenziale nemica interna e ancor di più un comodo capro espiatorio per le sconfitte maturate nei confronti dell’esercito imperiale russo.

Tale atteggiamento portò inizialmente a disarmare e poi eliminare fisicamente tutti i soldati dell’esercito ottomano di origine armena. Ma la vera misura, che possiamo considerare il preludio al massacro, fu la deportazione di tutta la popolazione armena messa in atto a partire dal mese di aprile 1915. In ogni città o villaggio interessato alla deportazione la popolazione armena, con poche ore di preavviso, fu trasferita verso le aree interne dell’Anatolia. Purtroppo durante lo spostamento gli armeni furono oggetto di aggressioni, rapine e uccisioni. Le case furono completamente spogliate dei beni contenuti e molte donne e bambini furono rapiti o per essere convertiti o per subire violenze sessuali.

Solo per far comprendere il clima di quei giorni si riporta la notizia che un generale turco ammonì i propri sottoposti dicendo che chiunque avesse fornito assistenza o rifugio agli armeni sarebbe stato impiccato e la sua casa sarebbe stata bruciata.

Il numero preciso dei morti resta ancora dibattuto ma la stima più accreditata è quella di circa un milione di morti nel biennio 1915/1916.

Purtroppo per il popolo armeno le persecuzioni non finirono qui. E non solo per loro. Negli anni successivi alla prima guerra mondiale l’odio dei turchi iniziò sempre di più a focalizzarsi su tutte le popolazioni non mussulmane. Pertanto agli armeni si associarono anche i greci e gli assiri. Tutti uniti da un unico legame: essere cristiani.

Lo smembramento dell’impero scatenò un odio senza limiti verso tutti coloro che a torto o a ragione furono considerati, direttamente o indirettamente, coinvolti nelle sconfitte militari. Odio alimentato anche dal nazionalismo turco nato nel momento più tragico della storia dell’impero ottomano. Infatti, l’impero ottomano, che dopo questi anni si ridusse alla sola Turchia, si trovò soggetta a invasioni straniere che misero a serio rischio anche la sopravvivenza di tale entità.

Fu così che negli anni tra il 1919 e il 1924 si consumò l’ultima parte della tragedia armena anche se, questa volta, furono in compagnia delle altre popolazioni cristiane.

Anche in questi anni si susseguirono deportazioni, massacri, stupri, rapimenti e conversioni forzate. Tra le tante cose, molto probabilmente, l’eredità peggiore che tale genoa noi europei fu l’esempio che fu dato ai molti ufficiali tedeschi presenti durante tale sterminio. Ma questo è un altro tema.

Quello che oggi a noi più deve interessare è che tale sterminio ebbe alla base una motivazione di carattere religioso e che oggi tale contrapposizione potrebbe essere non del tutta sopita. E nel momento in cui la politica di accoglienza in Europa viene a determinare una presenza turca e quella di altri popoli mussulmani non costruita sul reciproco rispetto si rischia solamente di immettere nel cuore del nostro continente una bomba ad orologeria.

Mi limiterò a citare i risultati di uno studio condotto in Germania secondo il quale quasi la metà dei tre milioni di turchi che vivono in Germania crede che sia più importante rispettare la legge islamica della Sharia piuttosto che la legislazione tedesca, se esse si contraddicono. (“Integrazione e religione dal punto di vista dei turchi che vivono in Germania” – Integration und Religion aus der Sicht von Türkeistämmigen in Deutschland – è stato realizzato dal Dipartimento di Religione e Politica dell’Università di Münster).

A cosa stiamo preparando l’Europa?

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