Il nuovo parco del presidente Aliyev (Il Foglio 14.04.21)

La guerra nel Nagorno-Karabakh si è conclusa da quattro mesi con tre vincitori e un vinto: l’Armenia. Nel campo affollato dei vincitori ci sono gli azeri, contro i quali combattevano gli armeni, i turchi, che sostenevano gli azeri, e i russi. Ci si aspettava che, per come sono sempre andate le cose, i russi   appoggiassero Yerevan e  sostenessero l’esercito armeno. Ma di morire per Yerevan il Cremlino non ne aveva intenzione. All’Armenia ha dato le armi, con gli altri, invece, Mosca si è messa d’accordo. Chi ha vinto più di tutti è stato l’Azerbaigian, che senza la Turchia e senza una Russia così disinteressata alla causa armena, non avrebbe mai vinto. Il Nagorno-Karabakh, regione a maggioranza armena dentro al territorio azero, è contesa da tempo tra le due nazioni, ma la guerra che ha portato agli ultimi accordi è durata sei settimane, con perdite talmente ingenti, sia tra  gli azeri sia tra  gli armeni, che ancora sfuggono i dati esatti.

Gli armeni raccontano di una generazione scomparsa di soldati giovanissimi partiti a combattere. Al fronte c’era anche la moglie del premier Nikol Pashinyan, che quando suo marito ha ceduto all’accordo non voleva andarsene, non voleva lasciare quelle terre dalle quali tanti armeni sono stati cacciati. La guerra è persa, il premier Pashinyan ha dovuto accettare le elezioni anticipate, lui simbolo di un forte cambiamento, di una rivoluzione di velluto di due anni fa di cui gli armeni vanno ancora molto fieri –  ma adesso da lui, per quell’accordo, in tanti si sentono traditi.

Il Nagorno-Karabakh è grande quanto una ferita per la storia armena, e non c’è verso che si rimargini.Gli azeri, con il loro presidente sempre in mimetica, Ilham Aliyev, hanno detto che si prenderanno cura di quelle zone, ma finora sta succedendo il contrario: hanno cacciato gli armeni e vogliono liberarsi anche dei loro simboli. Lunedì Aliyev, che parla spesso di riconciliazione,  a Baku, capitale dell’Azerbaigian, ha inaugurato un parco per mostrare i trofei della guerra nel Nagorno-Karabakh, ma più che apparire una mostra sulla vittoria azera, appare come una mostra sulla sconfitta armena: armi dei vinti, manichini vestiti con le uniformi dei soldati di Yerevan, in posa mentre scappano, mentre muoiono, mentre vengono fatti prigionieri.

Aliyev si è fatto fotografare mentre visitava il museo, in uno scatto si vede mentre entra in una stanza piena di elmetti alle pareti. Sono gli elmi dei soldati armeni caduti, esposti come trofei, a simbolo della vittoria, della prevaricazione, della fine di una guerra che ha lasciato Yerevan senza pace. Sono i corpi dell’Armenia sconfitta più che le medaglie dell’Azerbaigian vittorioso. Il parco è il segno dolorosissimo di una guerra senza rispetto, in cui il vincitore non è felice della vittoria, ma dell’arroganza che può sfoggiare contro chi è rimasto senza terra, senza soldati, a contare i morti e sorreggere una democrazia giovanissima che ha bisogno di cure, di attenzioni, di pace per non essere danneggiata.

Le guerre si vincono e si perdono, ma poi, soprattutto ai vincitori, spetta il compito di rimettere a posto i pezzi della guerra e questo non si fa con una mostra. Altrimenti non è una vittoria, è soltanto l’abuso di una sconfitta.

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Dalla Siria all’Ucraina? Jihadisti filo-turchi pronti ad una nuova “missione” (Lantidiplomatico 14.04.21)

I famigerati “ribelli moderati” – jihadisti tagliagole senza il filtro tossico delle fake news di regime – sarebbero pronti ad essere spostati dalla Siria all’Ucraina. E’ noto come la Turchia li abbia utilizzati già in Libia e nel Nagorno contro l’Armenia e ora sarebbero pronti ad una “nuova missione”

Da quanto si apprende dal corrispondente di Russia 1, Simon Pegov dal nord della Siria verrebbero reclutati i “miliziani” per andare a combattere in Ucraina. Il reclutamento avverrebbe con la supervisione dei servizi segreti turchi, che sovrintendono i gruppi terroristici e bande nel nord della Siria (provincie di Idlib, Aleppo).

Lo schema di reclutamento sarebbe simile a quello per la Libia.

Ai mercenari verrebbe promessa una paga di 2000 dollari mensili (Fonte: Wargonzo)

Sarebbero in corso trattative separate con i “mujaheddin”, che in precedenza facevano parte del gruppo terroristico “Imarat Caucaso”. Il loro vantaggio sarebbe che parlano russo.

Così, Kiev vorrebbe creare un’unità simile al «battaglione Džochar Dudaev» del 2014, formato dagli immigrati dal Caucaso del Nord, che risiedevano in Ucraina o che erano fuggiti lì dopo la prima e la seconda guerra cecena.

E’ molto interessante notare come Erdogan, esattamente come nel caso del filtro ai migranti prodotti dalla guerre della Nato, non sia più un “dittatore” quando fa il lavoro sporco di Stati Uniti e Unione Europea. La solita vergognosa ipocrisia occidentale.

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Roma, Mkhitaryan verso il rinnovo (Quotidiano.net 13.04.21)

Roma, 13 aprile 2021- L’ottimo cammino in Europa League potrebbe aprire le porte a diversi rinnovi in casa Roma, tra i quali quello di Henrikh Mkhitaryan. L’armeno ha saltato le ultime partite stagionali a causa di un infortunio al polpaccio, ma domani potrebbe essere in campo per la gara di ritorno contro l’Ajax, fondamentale per puntare alla finale

Aria di rinnovo

Vincere la competizione europea consentirebbe ai giallorossi di aumentare l’appeal internazionale e convincere molti giocatori a proseguire con questo progetto, anche dal campionato non dovessero arrivare particolari soddisfazioni. Tra tutti i giocatori anche Mkhitaryan sta trattando il suo rinnovo con la Roma: l’armeno è uno degli uomini di maggiore esperienza della formazione di Fonseca e rappresenta un innesto importante anche per il futuro. La società sta già trattando con lui il prolungamento del contratto fino al 2023, ma chiudere nel modo migliore possibile il cammino in Europa League potrebbe servire anche ad accelerare la pratica e a convincere anche chi attualmente è ancora indeciso sul suo futuro.

Il giocatore armeno ha saltato molte delle ultime partite tra campionato ed Europa a causa di un problema al polpaccio, ma nella sfida vinta contro il Bologna è entrato in campo per 22 minuti, giusto il tempo per scaldare i motori in vista del grande ritorno contro l’Ajax. La presenza di Mkhitaryan dal primo minuto non dovrebbe essere in dubbio e la Roma potrebbe così ritrovare il tridente che nella prima parte di stagione aveva meravigliato per prestazioni e rendimento. Con un elemento di qualità in più i giallorossi credono davvero nel passaggio del turno e l’ex Arsenal sogna già di mettere in bacheca il trofeo numero 20 della sua carriera.

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Il Canada annulla l’export di armi alla Turchia dopo … (Globalist 13.04.21)

Un gesto forte che potrebbe e dovrebbe fare da esempio a molti: il Canada ha annullato una vendita di armi alla Turchia, dopo che un’inchiesta ha concluso che tecnologia canadese è stata utilizzata in droni impiegati dall’Azerbaigian contro le forze armene nel Nagorno Karabakh.

L’esportazione era stata sospesa a ottobre in attesa che l’inchiesta confermasse o smentisse le accuse secondo le quali droni militari di fabbricazione turca usati dall’Azerbaigian sarebbero stati equipaggiati con sistemi d’arma canadesi.

L’inchiesta ha “permesso di trovare prove credibili indicanti che la tecnologia canadese esportata verso la Turcia è stata usata nell’Alto Karabakh”, ha indicato il ministro degli Esteri canadese Marc Garneau in un comunicato.

“Questo utilizzo – ha proseguito – non è conforme all apolitica estera del Canada né alle garanzie d’utilizzo finale fornite dalla Turchia”.

Garneau ha annunciato di aver trasmesso la sua “preoccupazione” al ministro degli Esteri turco Mevlut Cavusoglu.

L’annullamento riguarda 29 permessi d’esportazione di materiali militari.

L’export di materiali militari canadesi verso la Turchia è stato nel 2019 di 100 milioni di euro.

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Presidente Azerbaigian pronto a siglare accordo di pace per il Nagorno-Karabakh (Sputnik 13.04.21)

Martedì il presidente azero Ilham Aliyev ha dichiarato di essere pronto a firmare un accordo di pace sulla regione del Nagorno-Karabakh, ma di non vedere alcuna mossa reciproca da parte di Yerevan.

“Ho già detto che siamo pronti a firmare un accordo di pace. Ma non vediamo passi reciproci da parte di Yerevan. Al contrario, le dichiarazioni del Primo ministro e le osservazioni aggressive del ministro degli Esteri mostrano il loro sentimento anti-azero e anti-turco”, ha detto il presidente Aliyev in una conferenza sulla cooperazione post-conflitto.

Ilham Aliyev ha detto che Baku non ha piani militari al confine con l’Armenia.

“Mi è stato chiesto cosa succederà dopo che le forze di pace russe avranno lasciato la regione. Abbiamo confini con l’Armenia a Tovuz e Zenglian. Le nostre truppe di frontiera si trovano nelle immediate vicinanze del lato armeno. Ci sono incidenti? No, non ci sono. Non c’è un esercito armeno, anzi, è demoralizzato. Le nostre truppe sono a soli cinque metri di distanza da loro. Ma non abbiamo piani militari”, ha detto Aliyev in una conferenza stampa sullo sviluppo post-conflitto.

Il leader azero ha espresso la propria preoccupazione per i piani dell’Armenia di modernizzare il suo esercito insieme alla Russia.

“Abbiamo spiegato la nostra posizione ai nostri partner russi. Per cosa è stato fatto?”, Aliyev ha detto.

“Qualsiasi pensiero di vendetta sarà represso severamente”, ha concluso il presidente.

Alla fine di settembre 2020, il conflitto decennale del Nagorno-Karabakh tra l’Armenia e l’Azerbaigian è ripreso, causando numerose vittime sia militari che civili. Le parti sono riuscite a raggiungere un accordo di cessate il fuoco all’inizio di novembre sotto la mediazione della Russia, le cui forze di pace sono state dispiegate nella zona di conflitto.

Le parti hanno anche accettato di scambiare prigionieri mentre l’Armenia cedeva diverse regioni all’Azerbaigian.

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Rimini e Cecilia Bartoli di nuovo insieme: registrato al Teatro Galli l’album “Rhapsody” (Emiliaromagnanews 13.04.21)

Il debutto del mezzosoprano franco-armeno Varduhi Abrahamyan prodotto dalla fondazione musicale della stella mondiale della lirica

RIMINI – Le strade di Cecilia Bartoli e di Rimini continuano ad intrecciarsi, in un connubio artistico e affettivo che si consolida. È uscito da pochi giorni per l’etichetta internazionale Decca Classics l’album Rhapsody, debutto in studio del mezzosoprano franco-armeno Varduhi Abrahamyan e secondo progetto “Mentored by Bartoli”, una serie di registrazioni prodotte dalla fondazione musicale creata dalla stella mondiale della lirica che si propone di supportare, consigliare e guidare alcuni tra i più talentuosi artisti nella realizzazione di nuove registrazioni e presentarli alla ribalta internazionale. E per questo suo nuovo impegno artistico, Cecilia Bartoli ha scelto ancora una volta di ‘tornare a casa’: Rhapsody infatti non è stato registrato in studio, ma negli spazi di quel Teatro Galli che la straordinaria mezzosoprano di origini riminesi inaugurò il 28 ottobre 2018 in una serata emozionante e indimenticabile.

“Abbiamo registrato l’album “Rhapsody” a Rimini, al Teatro Galli – racconta Cecilia Bartoli – Dopo il mio concerto per l’inaugurazione del teatro nell’ottobre 2018, ho avuto un’ottima impressione del luogo, dell’acustica, dell’ambiente in generale e della sua squadra straordinaria. Erano quindi le condizioni perfette per continuare la collaborazione con un nuovo progetto di registrazione prodotto da Cecilia Bartoli – Music Foundation. Insieme al solista Varduhi Abrahamyan, il direttore Gianluca Capuano e l’orchestra Les Musiciens du Prince – Monaco abbiamo passato intensi giorni di lavoro a Rimini per registrare “Rhapsody”. L’album è dedicato alla grande mezzosoprano Pauline Viardot, il cui duecentesimo compleanno si celebra nel 2021, ed è stato distribuito dall’etichetta internazionale Decca. Sono molto soddisfatta del risultato di questo album e vorrei ringraziare Giampiero Piscaglia e la sua splendida squadra per l’accoglienza calorosa ed estremamente professionale. Non vedo l’ora di tornare molto presto al magnifico Teatro Galli”.  

“È stato un privilegio accogliere nuovamente una delle più belle voci della lirica mondiale, nonché un’amica del nostro teatro, per questo progetto che vede la Cecilia Bartoli affiancare e guidare alcuni nuovi talenti della musica – sottolinea l’assessore alla cultura Giampiero Piscaglia – Oltre ad essere la conferma della collaborazione avviata con Bartoli, l’aver scelto il Galli per la registrazione dell’album è l’ennesimo attestato del grande lavoro fatto in termini di acustica nella progettazione e ricostruzione del Teatro ed è l’occasione ancora una volta per presentare alla platea internazionale Rimini come città di arte e cultura”. 

In Rhapsody, Varduhi Abrahamyan ripercorre la gamma dei talenti artistici e vocali di Pauline Viardot. Partendo dal repertorio classico con Gluck (in una versione arrangiata da Berlioz per la voce della Viardot), passa da Rossini, e attraverso varie fasi del romanticismo francese, all’Alto Rhapsody di Brahms (scritta per la Viardot) oltre a una canzone popolare dalla lontana Armenia.

Nata in una famiglia di musicisti, Varduhi Abrahamyan si è laureata al Conservatorio di Yerevan e si è esibita con importanti compagnie d’opera in tutto il mondo. Dalla sua prima apparizione all’Opera di Parigi, è tornata trionfalmente in Francia con ruoli come Carmen, Italiana in Algeri, ecc. Tra i tanti, ha cantato al Teatro Bolshoi di Mosca, al Glyndebourne Festival, al Rossini Opera Festival di Pesaro, al Bavarian State Opera, Hamburg State Opera, Canadian Opera, Zurich Opera ea Ginevra, mentre sono previsti debutti al MET di New York e alla Royal Opera House Covent Garden.

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Ne ‘Il genocidio’ Marcello Flores ripercorre gli avvenimenti che hanno insanguinato la Storia (Ilfattoquotidiano 12.04.21)

Marcello Flores ha pubblicato un nuovo libro (Il genocidio) su un tema di cui è, fra gli storici italiani, uno dei massimi esperti. Come docente di Storia a Siena, ha organizzato convegni internazionali sul tema; è stato fra i curatori della Storia della Shoah promossa dalla UTET ed ha scritto la prima storia del genocidio armeno in lingua italiana.

Due sono le componenti del libro: la messa a fuoco del significato specifico del termine “genocidio” (dal greco ghénos, “razza”, “stirpe” e dal latino caedo, “uccidere”); la narrazione di alcuni degli innumerevoli genocidi che hanno insanguinato la storia dell’umanità, e in particolare quella del ventesimo secolo.

Flores inizia raccontando la battaglia del giovane giurista polacco Raphael Lemkin (aveva perso, nella Shoah, 49 membri della sua famiglia) che contribuì alla mobilitazione degli Stati membri dell’Onu e portò ad approvare, il 9 dicembre 1948, la Convenzione per la prevenzione e la punizione del crimine di genocidio; solo 24 ore dopo, non a caso, l’assemblea generale dell’Onu approvò la Dichiarazione universale dei diritti umani (la Siria aveva suggerito di inserire nella fattispecie del genocidio la “pulizia etnica”, riferendosi esplicitamente ai 700mila rifugiati palestinesi che avevano dovuto abbandonare le loro case all’interno del nuovo Stato di Israele: ma la proposta fu bocciata per 29 voti a 5, e 8 astensioni).

Ma Flores sottolinea che solo raramente si è giunti alla “punizione” del genocidio, per una serie di ragioni, fra cui la mancanza di riferimenti al genocidio culturale, la non retroattività e la difficoltà a stabilire l’intento di commettere genocidio. Un passo avanti è stato compiuto nel 2004 quando, per iniziativa del segretario generale dell’Onu Kofi Annan e a seguito dei genocidi in Ruanda e a Srebrenica, è stata istituita la figura del “Consigliere speciale per la Prevenzione del genocidio”. Il suo ufficio, fra l’altro, segnala all’Onu i rischi di genocidio, fra cui i “discorsi di odio” (hate speeches).

Purtroppo però anche dopo la Convenzione Onu i genocidi sono continuati, per la scarsa volontà della comunità internazionale di intervenire per impedirli o porre fine ad essi. Ma anche per l’atteggiamento di alcune grandi potenze: Flores ricorda, in proposito, le perplessità – o il “pragmatismo”, in questo caso in senso deteriore – degli inglesi (per il Foreign Office la creazione del nuovo reato è “una completa perdita di tempo, visto che se il genocidio avviene ovunque, avverrà in condizioni in cui non verrà rispettata alcuna convenzione internazionale”) e l’opposizione dell’Unione Sovietica, che avrebbe voluto circoscrivere questo crimine all’epoca e ai misfatti del fascismo e del nazismo. Mentre gli Stati Uniti si oppongono con veemenza al richiamo al “genocidio culturale”.

Un punto importante del libro di Flores riguarda la messa a fuoco del significato del termine “genocidio”, che si distingue dai tanti eccidi che si verificano nel mondo perché genocidio è solo “la negazione del diritto alla esistenza di interi gruppi umani”, come ha precisato l’Onu in una sua risoluzione (ma il termine “genocidio” affiorò spesso già nel processo di Norimberga, che punì i gerarchi nazisti per crimini di guerra e crimini contro l’umanità).

Di grande interesse il riferimento al “Tribunale Russel”, fondato nel 1966 e che vide fra i suoi membri molti dei maggiori intellettuali del tempo, fra cui Jean Paul Sartre, Simone de Beauvoir, Peter Weiss e Lelio Basso (di questi temi continua ad occuparsi la Fondazione romana che porta il suo nome). Uno dei “processi” del Tribunale Russel fu dedicato alla guerra nel Vietnam: alla domanda “gli Stati Uniti sono colpevoli di genocidio?”, la risposta unanime fu “sì”.

Prima di venire ai giorni nostri, Flores ricorda alcuni dei tanti genocidi del passato, fra cui le distruzioni (e gli eccidi) operate dai romani a Cartagine e dai greci a Melo, il massacro di intere popolazioni da parte dei conquistadores in America Latina, quello delle popolazioni indiane del Nord America e – più di recente – il genocidio degli armeni (ho sempre trovato a dir poco ingiusto lo scarso risalto che è stato dato al genocidio degli armeni. Ma consiglio vivamente la lettura di due romanzi, ma ricchissimi di notizie: I 40 giorni del Mussa Dagh di Franz Werfel, e La masseria delle allodole, di Antonia Arslan).

Avvicinandosi ai nostri giorni, l’elenco è lungo e atroce. Alcuni esempi.

– In Cambogia, con l’avvento al potere di Pol Pot e dei “Khmer”, circa un milione e ottocentomila cambogiani furono uccisi in quattro anni di terrore assoluto;

– In Australia, solo a partire dagli anni Novanta si inizia a far luce sui circa 100mila piccoli aborigeni strappati alle loro famiglie dal 1885 al 1967;

– Nel Congo, affidato come colonia personale del re belga nel congresso di Berlino del 1884-85, fra il 1895 e il 1905 muoiono oltre tre milioni di congolesi, mentre le ricchezze del re si accrescono a dismisura;

– Nel Guatemala le forze militari e paramilitari che nel 1954, con il sostegno degli Usa, avevano attuato uno dei consueti golpe del Sud America in quegli anni, fecero sterminare oltre 200mila persone, per lo più indigeni.

– Dulcis in fundo – in un elenco che potrebbe essere assai più lungo – la tragedia dell’Unione Sovietica, dove lo stalinismo portò – fra carestie e stragi di “oppositori” – a 3 o 4 milioni di morti, con vicende da film dell’orrore, come una testimonianza, riportata testualmente da Flores, di cannibalismo verificatasi nel 1933: due genitori che avevano decapitato i figli e avevano fatto dei loro corpi carne da macello.

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Come un’apparizione: il ritorno di Mkhitaryan (Il Romanista 12.04.21)

Settantasette. Giocando a tombola, nella smorfia romana, è il numero che, quando esce, chi tiene il cartellone annuncia con un malizioso “le gambe delle donne”. Per noi, non è così. Perché per noi, senza malizia, sono le gambe di Mkhitaryan (chi vuole equivocare meglio non lo faccia, in ogni caso chissenefrega). Sì, le gambe del miglior giocatore armeno della storia, il fantasista che alla Roma di Fonseca è mancato una cifra da quando, partita d’andata all’Olimpico contro lo Shakthar, alzò bandiera bianca per un guaio al polpaccio che lo ha tenuto fuori per un mese. Con tutte le conseguenze del caso: sconfitta a Parma, non richiesto bis contro il Napoli, pareggio con il Sassuolo, e meno male che sono arrivati due successi in Europa, prima il bis vittoria con gli ucraini, poi giovedì scorso il due a uno ad Amsterdam che è servito ad alimentare un sogno. Ma c’è una partita di ritorno da giocare e dire semifinale è ancora vietato.

Così ieri, nel tardo pomeriggio, quando sulla linea del fallo latrale c’è apparsa la maglia numero settantasette con le relative gambe di cui sopra, abbiamo avvertito un pizzico di ottimismo in più per i secondi novanta minuti contro i Lancieri, strappandoci pure un sorriso di quelli che si possono definire di sollievo. Del resto, solo chi ha poca confidenza con il calcio, non può non avere capito cosa abbia significato, in negativo, l’assenza di Mkhitaryan (sommata poi a tutte le altre con cui Fonseca continua a dover fare i conti) in questo ultimo mese. Non solo per i gol e gli assist che ha garantito alla squadra fino a quando è stato bene, ma anche se non soprattutto per la qualità calcistica che l’armeno può mettere sempre in campo. Noi, per esempio, malati di inguaribile ottimismo, siamo convinti che con Miki ad Amsterdam, la vittoria sarebbe potuta essere ancora più rotonda e rassicurante. E ne diamo una spiegazione. Per le sue caratteristiche tecniche, il settantasette è un giocatore che dà tutta un’altra dimensione, ovviamente in meglio, alla transizione offensiva della Roma. Ovvero: quando la squadra riparte, se il pallone finisce tra i piedi dell’armeno, si può stare sicuri che qualcosa di positivo succederà, o in fase di ultimo passaggio o, anche, in termini realizzativi. Con lui in campo, insomma, c’è una Roma, senza le possibilità offensive dei giallorossi inevitabilmente tendono a diminuire. Contro l’Ajax che per dna calcistico e necessità di dover recuperare lo svantaggio, giovedì attaccherà, è presumibile che ci possano essere quegli spazi in cui il talento calcistico del settantasette potrà fare male.

In qualche misura ce lo ha confermato anche nei ventisei minuti (recupero compreso) che ha giocato contro il Bologna. È stato un piacere rivederlo con il pallone tra i piedi con quella sua corsa esteticamente bellissima ma anche tremendamente efficace. È stato ancora piacere puro constatare la sua voglia di tornare a prendere a calci un pallone, per nulla preoccupato di una condizione non ottimale e che potrà tornare ad avere solo quando avrà messo più partite nelle gambe. È stato incoraggiante constatare come si sia messo a disposizione della squadra e dei compagni, sempre pronto a inventare la giocata importante, a dettare il passaggio come, per esempio, in occasione di quel pallone (splendido) che Pastore (oh Pastore, chi si rivede) ha dato a Karsdorp ma con l’olandese che si è ingarbugliato con le gambe senza riuscire a dare la palla all’armeno che si era reso disponibile per metterla dentro più o meno a porta vuota.

Ecco perché il suo recupero può definirsi fondamentale per le fortune europee dei giallorossi. E’ l’uomo che più di qualunque altro può fare male agli olandesi. Che, oltretutto, lo sanno visto che Mkhitaryan già gli ha fatto male proprio in una finale di Europa League quando vestiva la maglia del Manchester United e in panchina c’era Special One Mourinho. I minuti giocati ieri dall’armeno gli hanno consentito di riprendere confidenza con il calcio vero, facendogli toccare con mano che quel maledetto infortunio al polpaccio è roba del passato e che adesso può tornare a essere il giocatore che fa la differenza, il campione in grado di trascinare la Roma in una semifinale europea in cui, nel caso, molto probabilmente, potrebbe ritrovare il suo vecchio, ma mai amato (pure da noi), Manchester United. Con il recupero di Mkhitaryan anche Fonseca e i compagni saranno più tranquilli nell’affrontare una sfida che potrebbe dare tutta un’altra dimensione alla stagione romanista. E dopo, magari, una volta superato l’ostacolo olandese, potrebbe esserci anche l’occasione giusta per annunciare un prolungamento contrattuale al quale mana soltanto il sì del suo procuratore, Mino Raiola. Ma Micki vuole rimanere in giallorosso. E vuole dimostrarlo in campo. Già da giovedì prossimo.

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Armenia. L’appello del vescovo Minassian (Yerevan): “Non dimenticateci, non siamo poveri ma stiamo soffocando” (SIR 10.04.21)

Il “grazie” dell’Armenia per le parole pronunciate da Papa Francesco a Pasqua nella Benedizione Urbi et Orbi. E’ mons. Minassian ad esprimerlo a nome delle migliaia di persone che in fuga dal Nagorno-Karabakh, hanno trovato rifugio in Armenia. “La guerra – dice – è l’espressione della debolezza mentale dell’uomo. È il fallimento della comprensione reciproca, la rottura dei canali di dialogo, l’impotenza della diplomazia, la negazione del rispetto del diritto del vicino. È solo nel confronto, pacifico e lontano dagli interessi, che è possibile trovare soluzioni di pace. Il fallimento di questa via conduce inesorabilmente al conflitto armato”

“Una consolazione nazionale, psicologica e spirituale, che ha dato al nostro popolo un sollievo, la speranza di non essere dimenticati”. Così mons. Raphaël François Minassian, arcivescovo per gli armeni dell’Europa dell’Est, commenta al Sir il pensiero che, nella sua benedizione urbi et orbi a Pasqua, Papa Francesco ha rivolto anche al Nagorno-Karabakh, citato tra i Paesi feriti dalla “mentalità della guerra”. Il 2020 è stato un anno difficile per l’Armenia: il Paese non solo ha dovuto confrontarsi con la pandemia, ma ha anche fronteggiato una guerra nel Nagorno-Karabakh, che l’ha vista sconfitta contro l’avversario azero con importanti conseguenze nel sistema sociopolitico interno. In seguito a sei settimane di combattimenti, il 10 novembre scorso, a Mosca e sotto l’egida del presidente Vladimir Putin, il primo ministro armeno Nikol Pashinyan ed il presidente azero Ilham Aliyev hanno firmato un accordo che ha però spezzato la piccola regione del Nagorno, con una “spartizione” del territorio che ha reso la zona ancora più fragile e povera.

“Sono tante le famiglie che soffrono per la mancanza dei loro figli”, dice il vescovo Minassian, portando subito l’attenzione sul grave problema, ancora non risolto, dei prigionieri. Oltre ai soldati presi durante la guerra, sono state catturate persone rimaste nelle zone consegnate all’Azerbaigian a protezione e difesa delle proprietà. Il vescovo parla di almeno 64 persone. “Sono state prese e torturate con l’accusa di essere terroristi. Ma se erano terroristi, perché alcuni di questi prigionieri li hanno liberati?”.

Mentre le diplomazie sedevano attorno ad un tavolo per ripartirsi il territorio, su quella “cartina geografica”, le decisioni prese hanno pesato per sempre sulla vita e sul futuro di intere famiglie costringendole a lasciare case e villaggi per trovare rifugio in Armenia. Il flusso dei profughi in fuga dal Nagorno è l’altra faccia della guerra. Attualmente i rifugiati si trovano divisi in tre parti dell’Armenia: sono andati a Goris, città che si trova vicino al Nagorno; la maggioranza ha trovato rifugio ad Ardashad, la città in cui si trova la Grotta dove fu tenuto prigioniero San Gregorio l’Illuminatore, l’apostolo che portò il cristianesimo in questa Regione; gli altri hanno preferito dirigersi direttamente nella capitale armena di Yerevan.“Noi, come chiesa locale, stiamo condividendo la loro povertà. In questi mesi, come Caritas abbiamo aiutato 14 mila famiglie”, racconta il vescovo.

“Il nostro è stato un aiuto a più livelli: abbiamo sostenuto queste famiglie pagando l’affitto delle case in cui si erano rifugiate; stiamo dando aiuti alimentari e di assistenza medica; e in particolare stiamo seguendo madri con bambini neonati. Dipende dalla situazione. La maggior parte di queste famiglie sono divise tra chi è rimasto a difesa delle case nelle zone consegnate all’Azerbaigian e chi è scappato. C’è una grande confusione e in questa situazione, è difficile capire se è meglio tornare indietro o rimanere in Armenia. Quello che ora ci preoccupa è che stanno diminuendo gli aiuti che ci arrivano dall’estero”.

L’accordo siglato a Mosca ha portato al sollevarsi di manifestazioni antigovernative a Yerevan. “La divisione interna c’era prima della guerra e si è aggravata durante la guerra”, commenta sconsolato il vescovo Minassian che però guarda con speranza alle elezioni indette dal primo ministro armeno per il 20 giugno. “Speriamo che le elezioni riescano a riportare in Armenia quell’equilibrio interno che le serve per fronteggiare le crisi e riconciliare le diverse parti, per il bene comune delle Nazione”. “Trovare una forza di coesione interna è necessario anche per affrontare quel gioco poco chiaro che le potenze internazionali stanno facendo sulla piazza armena inseguendo interessi ed egoismi che certo, non hanno a cuore il destino del nostro popolo”.A Pasqua il Papa ha parlato contro la “mentalità della guerra”. “La guerra – osserva mons. Minassian – è l’espressione della debolezza mentale dell’uomo. È il fallimento della comprensione reciproca, la rottura dei canali di dialogo, l’impotenza della diplomazia, la negazione del rispetto del diritto del vicino. È solo nel confronto, pacifico e lontano dagli interessi, che è possibile trovare soluzioni di pace. Il fallimento di questa via conduce inesorabilmente al conflitto armato”. Il vescovo unisce quindi la sua voce al grido di pace lanciato da Papa Francesco. “L’Armenia non è povera. E’ ricca di risorse naturali, di storia e di cultura. Ma è soffocata perché non ha finestre all’esterno.

Non dimenticatevi di noi. Apriteci le porte. Se ci sono orecchie per sentire, ascoltateci. Se ci sono cuori aperti ad accogliere le nostre preghiere, mettete in moto la volontà di fare”.

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I libri di NRW: Killing orders (Nuoveradici.world 10.04.21)

Il Grande Male, il Metz Yeghem, ebbe inizio il 24 aprile 2015. Ufficialmente il Regime Ottomano parlò di reinsediamento della comunità armena, minoritaria nel Paese. È quella invece la data dell’inizio del Genocidio Armeno, che portò in pochi anni, fino al 2018, allo sterminio di un milione e mezzo di persone. In questo libro, Killing orders, pubblicato da Guerini e Associati, Taner Akçam ricostruisce nei dettagli l’origine, lo svolgimento fino al negozianismo delle autorità turche che perdura ancora oggi, di uno dei più grandi massacri della storia. Nei telegrammi e nei documenti scritti da Talat Pasha, l’artefice del Grande Male, c’è tutto: dalla meticolosa preparazione alle deportazioni di massa verso il deserto siriano, alle incarcerazioni di politici ed intellettuali armeni, uno sterminio per cancellare un intero popolo. L’architettura del genocidio, il primo del XX secolo, sarà l’architrave per programmare altri genocidi. Per questo suo lavoro minuzioso sulla documentazione originale, per la prima volta tradotta in Italia, lo studioso Taner Akçam nel 1976 viene arrestato dalla polizia turca e condannato a dieci anni di carcere. Un anno dopo riesce a fuggire di prigione e riparare in Germania. Poco dopo riesce ad emigrare in America, dove oggi ha la cattedra di Storia del Genicidio Armeno alla Clark University di Worcester nel Massachusetts e dove finalmente ha potuto compiere i suoi studi, che illustrano nei dettagli tutta la storia del primo sterminio di massa del Secolo breve. Fabio Poletti

Taner Akçam
Killing orders
I telegrammi di Talat Pasha e il Genocidio Armeno
a cura di Antonia Arslan
traduzione di Vittorio Robiati Bendaud e Alice Zanzottera ha collaborato Domenica Rossi
2020 Guerini e Associati
pagine 312 euro 25

In definitiva, i dibattiti sul negazionismo non ruotano attorno all’accettazione, oppure al rifiuto, di un gruppo di fatti accettati o della verità che ne derivi; sono senza dubbio una lotta per il potere, mossa da un diverso ordine di fatti e verità, animata da altri moventi. Una lotta di questo genere è riscontrabile in relazione alla realtà del Genocidio Armeno, che, tra il 1915 e il 1918, condusse alla morte, e più precisamente all’uccisione, oltre un milione di persone. Da allora, per oltre un secolo, i vari governi turchi succedutisi sono riusciti a erigere la propria versione di una storia ufficiale e a tenere in ostaggio la Storia con proprie prove e verità. Così facendo, hanno trionfato nel rendere noto il loro punto di vista storico, elevandolo al livello di ragionevole possibilità storica. Il negazionismo turco in relazione agli eventi concernenti la Prima guerra mondiale è forse l’esempio più riuscito di come una ben organizzata, deliberata e sistematica diffusione di falsità possa svolgere un ruolo importante nel dibattito pubblico, avvalendosi anche di fatti eloquenti per costruire una falsa verità. Coloro che rispettano l’adagio secondo cui «è lecito che ognuno abbia la propria opinione, ma non i propri fatti», hanno potuto seguire con stupore i dibattiti pubblici e storiografici sul Genocidio Armeno negli ultimi decenni, laddove le verità basate sui fatti sono state screditate e degradate allo status di semplice opinione. Occultare la verità con lo scopo di silenziarla è stato un aspetto fondamentale di questa strategia.
Questo volume si propone di fare chiarezza in un dibattito viziato dalla confusione creatasi attorno al rapporto tra fatti e verità circa il Genocidio Armeno. Potrà servire da dettagliato case-study, che dimostra con precisione come coloro che han- no nascosto le verità, smembrandole e così sentendosi rassicurati e rinforzati, siano in errore.
La seguente citazione di Michel-Rolph Trouillot è perfettamente pertinente al nostro problema: «I silenzi entrano nel processo di produzione storica in quattro momenti cruciali». Si tratta, rispettivamente, di: «(1) il momento della creazione dei fatti (l’individuazione delle fonti); (2) il momento dell’assemblaggio dei fatti (la creazione di archivi); (3) il momento del recupero dei fatti (lo strutturarsi di narrazioni); infine, (4) il momento del significato retrospettivo (ossia, in ultima istanza, la creazione della storia)». A queste fasi ne aggiungerei un’ulteriore: (5) la distruzione – o il tentativo di confutare, e così negare – l’autenticità di documenti critici.
Se è possibile cogliere in ogni genocidio un carattere unico, peculiare e distintivo, il caso armeno risulta allora essere unico per gli sforzi inveterati di negarne la storicità e occultare così le verità che lo circondano. Un’altra caratteristica unica di questo secolo di negazionismo è che costituì una componente intrinseca dell’opera genocidaria, sin dalla sua origine. In altre parole, la negazione del Genocidio Armeno non ebbe inizio dopo i massacri, ma fu parte integrante del piano genocidario. Le deportazioni degli armeni dalla loro terra natia verso i deserti siriani e la loro eliminazione, sia lungo la via sia giunti alle destinazioni finali, sono state eseguite con il pretesto di un loro reinsediamento. Ci si adoperò per organizzare e realizzare l’intero processo proprio con l’intento di offrire tale immagine.
Anche se non possiamo discuterne in dettaglio in queste pagine, l’interrogativo più pressante riguarda le radici di questa particolare politica. La debolezza dello Stato ottomano in quella congiuntura storica sembrerebbe essere la ragione più importante. Le autorità ottomane dovettero organizzare l’intero processo di espulsione e sterminio sotto lo sguardo indagatore di Germania e Stati Uniti, visto che dipendevano dal sostegno finanziario e militare tedesco e volevano che gli americani rimanessero neutrali. Non potendo ignorare queste due potenze, si sentirono obbligati a giustificare le loro azioni. Va da sé che la negazione e l’inganno si rivelarono delle efficaci strategie per smorzare le pressioni americane e tedesche. Inoltre, l’assenza di un movimento ideologico di massa, che fornisse il sostegno popolare a politiche genocidarie all’interno della società ottomana, sembra essere un’altra ragione. Ciò contribuisce a spiegare – ed è uno degli argomenti di questo libro – anche l’elevatissima corruzione dei burocrati ottomani, che svolsero un ruolo decisivo (in particolare in Siria), come pure il fatto che il governo abbia aizzato la popolazione a depredare gli armeni indifesi come incentivo a sostegno delle politiche genocidarie.
La documentazione ufficiale, tesa a presentare l’intera opera di deportazione e di sterminio come un reinsediamento legittimo, iniziò a essere prodotta proprio nei primissimi giorni delle espulsioni. In altre parole, quello che Trouillot ha descritto come «il momento della creazione dei fatti (l’individuazione delle fonti)» cominciò – se non ancor prima – il 24 aprile 1915, oggi considerata simbolicamente la data di inizio del Genocidio Armeno. In quel giorno vennero arrestati circa duecento intellettuali armeni insieme alle dirigenze della comunità armena di Istanbul. Furono inviati ad Ayaş [Ayash] e Çankırı (il primo una prigione, il secondo una residenza coatta), entrambe in prossimità della città di Ankara, e nei mesi seguenti molti altri intellettuali vennero destinati a entrambi i luoghi. La maggioranza sarebbe stata successivamente deportata verso le loro destinazioni finali e uccisa durante il viaggio. Gli Archivi Ottomani tracimano di documenti che riportano la morte di queste persone, perite per attacchi cardiaci e per altre cause naturali; oppure, in alternativa, ne viene riportata la fuga o il rilascio. In un articolo di Yusuf Sarınay, che per lunghi anni fu il direttore generale degli Archivi Ottomani, basato proprio su tali documenti e consacrato a questo argomento, si afferma che, su 155 intellettuali confinati a Çankırı, solo 29 furono lì imprigionati; altri 35 furono ritenuti innocenti e rimpatriati a Istanbul, mentre 31 furono graziati dal governo con il permesso di recarsi in qualsiasi città volessero. Altri 57 furono deportati a Dayr al-Zur, mentre tre stranieri furono esiliati dal Paese. Si è sostenuto che nessuno di questi intellettuali sia stato vittima di omicidio.

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