Olanda: finisce il culto no-stop per la famiglia armena. Non sarà espulsa. 2.280 ore di culto e 650 predicatori (SIR 31.01.19)

Dopo più di 3 mesi, 95 giorni per la precisione, si è concluso il culto no-stop nella chiesa Bethel nella città de L’Aja, nei Paesi Bassi. Ne dà notizia in Italia l’agenzia Nev della Chiese evangeliche. La funzione ha avuto termine perché il governo olandese ha accettato la richiesta di asilo della famiglia Tamrazyan, armena, che era stata colpita da provvedimento di espulsione nonostante viva nel Paese da oltre 8 anni. Dalla notizia della richiesta di espulsione, la famiglia, padre, madre e tre figli grandi, che stanno frequentando le scuole, si era rifugiata nel tempio, su indicazione della comunità locale, per sfruttare una vecchia norma che vieta l’ingresso delle forze dell’ordine in un edificio religioso durante una funzione. Per cui il culto non si è più interrotto. 2.280 ore totali, all’incirca, con oltre 650 pastori e predicatori che si sono alternati dal pulpito, provenienti da 20 denominazioni differenti e da varie nazioni, addirittura dagli Stati Uniti è giunta una delegazione di pastori mennoniti. Il Tribunale aveva considerato l’Armenia un Paese sicuro in cui rimpatriare la famiglia, ma in realtà il padre, Sasun, era stato più volte minacciato di morte per il suo impegno politico. Da qui la fuga nei Paesi Bassi.


Finita in Olanda la “messa” durata più di tre mesi per impedire il rimpatrio di una famiglia armena (Aleteia 31.01.19)

La legge olandese impedisce alle forze dell’ordine di interrompere una cerimonia religiosa, una comunità protestante decide di pregare incessantemente dal 26 ottobre al 30 gennaio

Per impedire che una famiglia di profughi armeni venisse espulsa dall’Olanda, la chiesa protestante di Bethel, all’Aia, ha sfruttato un’antica legge olandese che impedisce alla polizia di interrompere una funzioni religiose. E ha funzionato (31mag.nl).

La costanza della preghiera

I pastori sono arrivati da diverse città e si sono alternati senza sosta, anche di notte in una vera e propria maratona di preghiera, al fine di evitare che una famiglia armena (padre, madre e tre figli) venisse rimpatriata nel proprio Paese d’origine.

Questa iniziativa è stata accolta da ben seicento cristianifra cui anche alcuni preti, che si sono offerti di darsi il turno per continuare il rito, 24 ore su 24, sino a che il governo non avesse accettato la loro richiesta (Avvenire, 20 dicembre).

La famiglia Tamrazyan: madre, padre e tre figli di 15, 19 e 21 anni, che risiedono nei Paesi Bassi dal 2010 dopo che l loro permesso di soggiorno è scaduto e, dopo il rifiuto della richiesta d’asilo, e il conseguente ordine di rimpatrio ed espulsione (anche se i ragazzi frequentano la scuola e l’università) ha chiesto asilo alla parrocchia.

A dicembre il pastore Theo Hettema, presidente del consiglio generale della Chiesa protestante a L’Aia diceva a SkyTg24

“Non so per quanto potremo continuare, ma non per questo non era giusto provarci, facciamo affidamento sull’autorità giudiziaria, pensiamo che questa famiglia meriti che le sia data una chance”. “Quando abbiamo iniziato, sapevamo che sarebbe stata una lunga celebrazione, che sarebbe durata settimane, se non mesi”, ha aggiunto (1 dicembre).

I Tamrazyan hanno vissuto segregati nella parrocchia, senza poter uscire, raccontano “Siamo contenti di tutto il sostegno che stiamo ricevendo, ma non siamo liberi”, hanno detto.

Un esito positivo

Fortunatamente le cose si sono aggiustate e dopo tre mesi, nella serata di martedì, la coalizione al governo all’Aja ha raggiunto un accordo che ha concesso il “perdono” ai tre figli, in virtù del fatto che vanno a scuola e all’università. E dunque i Tamrazyan, genitori e 3 ragazzi,  non saranno espatriati.

L’iniziativa ha permesso di strappare al governo anche la promessa di rivedere circa 700 richieste di asilo di minori che erano state rifiutate. Per la famiglia armena Tamrazyan, dopo la straordinaria testimonianza di solidarietà, ora si apre anche “una prospettiva di futuro in Olanda”, come ha fatto notare Theo Hettema, presidente del Consiglio generale della Chiesa protestante dell’Aia. “Abbiamo mantenuto la speranza per mesi e ora questa speranza si sta avverando”, ha aggiunto. Hayarpi Tamrazyan, la figlia maggiore di 21 anni, ha espresso il suo sollievo in una conferenza stampa, preceduta da una cerimonia in chiesa (AGI).

Germania-Armenia: premier Pashinyan incontra esponenti comunità armena a Colonia (Agenzianova 31.01.19)

Berlino, 31 gen 15:59 – (Agenzia Nova) – Il primo ministro dell’Armenia, Nikol Pashinyan, ha incontrato un gruppo di esponenti della comunità armena residente a Colonia di fronte alla cattedrale cittadina, dove si è recato nel quadro della sua visita ufficiale in Germania. Lo riferisce l’agenzia di stampa “Armenpress”, aggiungendo che i presenti, durante una breve conversazione avuta con il premier, avrebbero affermato che, “nonostante la nostra lontananza dalla madrepatria, abbiamo seguito con attenzione gli ultimi sviluppi politici nel paese”. Gli esponenti della diaspora armena in Germania avrebbero poi confermato il loro sostegno al capo del governo di Erevan. (Geb)

Olanda. La preghiera non stop salva la famiglia armena. Non sarà espulsa (Avvenire 30.01.19)

Ce l’hanno fatta: la famiglia Tamrazyan, di origine armena, non sarà espulsa dall’Olanda. La preghiera non stop della comunità è stata ascoltata. È così finita la maratona religiosa della chiesa protestante di Bethel, all’Aia, per evitare il rimpatrio di una famiglia di profughi armeni, che si era vista rifiutare la richiesta di asilo, nonostante viva in Olanda da nove anni.

Nella serata di martedì la coalizione al governo all’Aja ha raggiunto un accordo che ha concesso il «perdono» ai tre figli, in virtù del fatto che vanno a scuola e all’università. E dunque i Tamrazyan, genitori e 3 ragazzi, nel Paese dal 2010, non saranno espatriati Il caso aveva commosso il mondo.

In Olanda la polizia non ha il diritto di entrare in un luogo di culto e interrompere una funzione religiosa. La famiglia, cristiana credente, ma con il permesso di soggiorno scaduto e che si era vista rifiutare la richiesta d’asilo, ha avuto l’idea di chiedere «asilo» in chiesa. La cerimonia è durata oltre tre mesi, con quasi 650 pastori e fedeli, provenienti da tutto il Paese, ma anche da Francia, Germania e Belgio, che si sono dati il cambio per proteggere i cinque armeni, organizzando una messa a oltranza.

Un momento della preghiera non stop nella chiesa di Bethel a The Hague

Un momento della preghiera non stop nella chiesa di Bethel a The Hague

Ma alla fine il governo olandese ha ceduto e ha garantito alla coppia, con i suoi tre figli, di restare nel Paese.

La famiglia Tamrazyan si era rifugiata il 26 ottobre scorso nella piccola chiesa protestante di Bethel. L’iniziativa ha permesso di strappare al governo anche la promessa di rivedere circa 700 richieste di asilo di minori che erano state rifiutate.

Per la famiglia armena Tamrazyan, dopo la straordinaria testimonianza di solidarietà, ora si apre anche «una prospettiva di futuro in Olanda», come ha fatto notare Theo Hettema, presidente del Consiglio generale della Chiesa protestante dell’Aia. «Abbiamo mantenuto la speranza per mesi e ora questa speranza si sta avverando», ha aggiunto. Hayarpi Tamrazyan, la figlia maggiore di 21 anni, ha espresso il suo sollievo in una conferenza stampa, preceduta da una cerimonia in chiesa.

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Repubblica 30.01.19

 


La messa è finita: la preghiera non stop salva la famiglia armena. Non sarà espulsa dall’Olanda

(TPI 31.01.19) La maratona religiosa della chiesa protestante di Bethel, all’Aia, è finita. Era stata una strategia per evitare il rimpatrio di una famiglia di profughi armeni, che si era vista rifiutare la richiesta di asilo, nonostante viva in Olanda da nove anni.

Il governo dell’Aia si  è espresso positivamente nei confronti della famiglia: i due genitori e i tre figli potranno restare, sopratutto perché i ragazzi vanno ancora a scuola e all’università.

In Olanda la polizia non ha il diritto di entrare in un luogo di culto e interrompere una funzione religiosa. È proprio così che il parroco della chiesa è riuscito ad evitare il rimpatrio.

La famiglia Tamrazyan, cristiana credente, ma con il permesso di soggiorno scaduto, si era vista rifiutare la richiesta d’asilo, e ha avuto l’idea di chiedere “asilo” in chiesa.

Giorno e notte. La cerimonia è durata oltre tre mesi, con quasi 650 pastori e fedeli, provenienti da tutto il Paese, ma anche da Francia, Germania e Belgio, che si sono dati il cambio per proteggere i cinque armeni, organizzando una messa a oltranza.

La costanza è servita: il governo olandese si è arreso e ha garantito alla coppia, con i suoi tre figli, di restare nel Paese.

Questa battaglia non è stata utile solo per il nucleo famigliare in questione: il governo dei Paesi Bassi ha promesso di rivedere altre 700 richieste di asilo di minori che erano state rifiutate finora.

IL Presidente Inguscio a Jerevan: Siglato accordo CNR-Ministero della Scienza Armeno (AISE 28.01.19)

JEREVAN\ aise\ – “Abbiamo firmato un protocollo di collaborazione operativo con la Commissione scientifica, che rappresenta il completamento del memorandum d’intesa sulla cooperazione scientifico-tecnologica firmato in occasione della visita della scorsa estate in Armenia del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella”. Così Massimo Inguscio, presidente del Consiglio Nazionale delle Ricerche, che venerdì scorso a Jerevan ha siglato il Programma di Cooperazione Scientifica e Tecnologica tra Cnr e la Commissione Scientifica del Ministero dell’Istruzione e della Scienza della Repubblica di Armenia, rappresentata dal Presidente Samvel Harutyunyan.

L’accordo, ha spiegato Inguscio, “prevede l’avviamento di una serie di progetti bilaterali in svariati ambiti, dall’agricoltura di precisione al settore culturale, fino ad arrivare all’intelligenza artificiale e alla ricerca nel campo della fisica”.
Nel corso della missione in Armenia, il presidente Inguscio ha anche partecipato “ad un importante incontro sulle strategie per l’avviamento di tali progetti” al quale erano presenti il ministro Arayik Harutyunyan e l’ambasciatore italiano in Armenia, Vincenzo Del Monaco.
Nello specifico, ha riferito Inguscio, “è stata sottolineata l’intenzione di concentrare il lavoro sullo sviluppo dell’agricoltura di precisione, che rappresenta per loro un ambito molto importante, e del patrimonio culturale nazionale, soprattutto a fronte delle eccellenze armene nel campo dell’archeologia e dei testi antichi”. (aise) 

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Armenia 301, il nuovo progetto fotografico di Jacopo Santini.(firenzeurbanlifestyle.com 27.01.19)

Jacopo Santini è insegnante di fotografia e Co-Direttore del programma di Master in Fotografia presso la scuola internazionale SACI di Firenze.

301 (dopo Cristo) è l’anno in cui, stando alla tradizione e dopo una serie di cruente indecisioni, l’Armenia accolse il Cristianesimo, per volontà del re Tidrate III, e ne fece la religione nazionale, primo – si dice – fra i popoli. 301 è anche l’articolo del codice penale turco che sanziona – con pene detentive – ogni offesa all’“identità turca”, disposizione usata spesso e volentieri per punire varie forme di dissenso e, ovviamente, ogni menzione di ciò che da 100 anni è in Turchia negato, Metz Yegern: il grande dolore, il primo genocidio del ’900 che, tra il 1915 e il 1918 (con sanguinosi strascichi successivi), per piano e mano dei Giovani Turchi, costò la vita a circa 1.500.000 armeni all’epoca residenti nei territori del fu Impero Ottomano, soprattutto nell’attuale Anatolia orientale (o Armenia occidentale).

Il termine genocidio è un conio dello storico Polacco Rafael Lemkin, che lo creò perché nulla, nel lessico anteriore bastava a definire lo sterminio organizzato e pianificato da Ittihad ve Terakki (Unità e Progresso, partito nato in seno ai Giovani Turchi) di un’intera popolazione per la propria diversità etnica, razziale e religiosa, l’annullamento e la distruzione di ogni sua traccia culturale, artistica e architettonica da un territorio che le autorità turche volevano – e dichiarano oggi – da sempre turco.
È bene chiarire che il genocidio, con un successo reso possibile dal disinteresse delle nazioni belligeranti, dall’attiva collaborazione di quelle alleate (la Germania) e da inconfessabili ma noti calcoli strategici, è continuato ben oltre i termini della Prima guerra mondiale e, in mancanza di residue vittime umane, ha eletto a proprio bersaglio la memoria. Ha potuto contare sull’ipocrita complicità di un buon numero di nazioni che, ad oggi non lo hanno riconosciuto come tale, nonostante il concorde avviso della comunità scientifica internazionale circa la copiosità, l’univocità e l’inconfutabilità delle prove.

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Trionfo in Armenia per la pianista Rita Cucè (Ligurianotizie 27.01.191)

Ancora un trionfo all’estero (ieri sera ad Yerevan, in Armenia) per la pianista albenganese Rita Cucè, che ha riscosso un grande successo nel concerto tenuto nella prestigiosa Komitas Chambers Hall della capitale armena, accompagnata dalla famosa Orchestra Nazionale Armena.

L’evento è stato organizzato dall’ Ambasciata d’ Italia di Yerevan, in collaborazione con il Ministero della Cultura della Repubblica di Armenia, il locale Comitato della Camera Nazionale Musicale dell’ Armenia e la National Chamber Orchestra dell’ Armenia. Il direttore artistico della Komitas Chambers Hall è il famoso pianista e direttore d’ Orchesta Vahan Mardirossian, mentre a dirigere il concerto è stato invece un altro noto direttore d’ Orchestra armeno Harutyun Arzumanyan.

Nota agli appassionati come grande interprete mozartiana la Cucè non si è smentita presentando un bellissimo ed applauditissimo programma imperniato sul concerto N. 12 in La Maggiore di Mozart, sulla Sinfonia G. Dur di Vivaldi, seguita dalle Antiche Arie e Danze N.3 di Respighi e dalla Sonata per Archi numero 6.

“E’ stata una grande gioia- dice la Cucè- tenere stasera questo importante concerto alla Komitas Chamber Hall di Yeravan con la National Chamber Orchestra of Armenia, alla presenza di Sua Eccellenza Vincenzo Del Monaco, Ambasciatore Italiano in Armenia. Ho avuto l’onore di suonare con un’ Orchestra meravigliosa, diretta magistralmente dal suo Direttore Harutyun Arzumanyan. E’ stato davvero un privilegio e l’ occasione ideale per festeggiare il compleanno del mio amato Mozart”.

Nata ad Albenga, Rita Cucè ha studiato al Conservatorio “Cherubini” di Firenze conseguendo la maturità artistica musicale quinquennale con il Maestro Alessandro Specchi e si è diplomata con il massimo dei voti presso il Conservatorio “Verdi” di Ravenna sotto la guida del Maestro Norberto Capelli.

Ha vinto numerosi premi e concorsi nazionali ed internazionali, come quelli di Pisa, Albenga, Camaiore ed Osimo.Ha suonato, fra le altre, con l’ Orchestra del Teatro Petruzzelli di Bari, l’ Orchestra del Teatro alla Scala di Milano, l’Orchestra Sinfonica di Arezzo, con la State Philarmonic di Plodvid, la State Symphony Orchestra di Shoumen, l’Orchestra del Conservatorio “A. Boito” di Parma, l’Orchestra Sinfonica di Grosseto, con la Gams Ensemble di Firenze, con l’Orchestra di Stato Rumena “Dinu Lipatti” di Satu Mare e della Rai di Torino.

Al suo attivo ci sono numerosi concerti televisivi e radiofonici in Italia (Rai e Mediaset) ed all’ estero in veste di solista in Russia, Bulgaria, Spagna ed ora anche in Armenia.

Ha realizzato importanti Tournèe in Russia ed Afghanistan ed è il Direttore Artistico e Musicale (da novembre del 1999) dell’ Associazione Culturando 2000, con sede in Arezzo. Dal 2001 è anche la Consulente Tecnico Musicale del Comune di Alassio.
CLAUDIO ALMANZI

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Filosofi sanguinari. Marx e Cartesio giustificano i genocidi del secolo scorso. Il libro di Siobhan Nash-Marshall è diventato un caso (Pangea 26.01.19)

Le idee non sono innocue. La scorsa estate ho avuto una discussione piuttosto effervescente con Siobhan Nash-Marshall, filosofa, insegnante al Manhattanville College di New York, autrice di un libro, The Sins of the Fathers, in cui rintraccia le fonti ‘filosofiche’ che hanno condotto al genocidio armeno, al suo concepimento mentale e alla strategia ideologica della sua attuazione. Il libro (ne ho parlato con l’autrice un po’ di tempo fa) è stato tradotto un paio di mesi fa da Guerini e Associati come I peccati dei padri. Negazionismo turco e genocidio armeno, con una appassionata introduzione di Antonia Arslan, che scrive: “Siobhan Nash-Marshall, in questo libro affascinante e coraggioso, affronta con ampia documentazione anche il problema dell’accanito negazionismo di Stato come ‘parte integrante del processo genocidario’ (rav Giuseppe Laras). Ancor oggi infatti, dopo più di cent’anni, ogni diniego dei fatti, ogni capzioso distinguo rinnova nei cuori e nelle menti dei discendenti delle vittime l’orrore di quella tragedia infinita, la rende attuale e presente, allontana perdono e oblio”. L’ultimo brandello – su perdono e oblio – andrebbe stampato sul petto della storia recente. Quanto ai Governi che accolgono senza troppi pruriti morali il negazionismo della Turchia, la filosofa ha capito il punto, “sottomettono la metafisica alla loro politica, e non il contrario”. Ergo: le idee non sono innocue.

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Il libro della Nash-Marshall, paragonato, nel mondo americano, alla Banalità del male di Hannah Arendt, in Italia ha creato punte di sconcerto. La filosofa, così, è stata coinvolta da Marcello Flores in una polemica piuttosto sterile pubblicata dal Corriere della Sera. Flores, di fatto, accusa la Nash-Marshall di aver “messo sotto accusa l’intera tradizione filosofica occidentale degli ultimi due secoli e mezzo”. In realtà, la filosofa, nel suo libro, fa un paio di considerazioni micidiali. Prima: “La fascinazione per l’approccio di Cartesio fu fatale per gli sviluppi del pensiero occidentale. E fu devastante per il mondo. Condusse il mondo occidentale a pensare che unicamente i propri pronunciamenti razionali avessero valore e che questi ultimi… potessero essere confutati soltanto da altri pronunciamenti razionali, e non da prove concrete inerenti alle realtà materiali”. Seconda: “Chiunque conosca la storia del XX secolo dovrebbe comprendere che non è possibile afferrare il senso degli incalcolabili spargimenti di sangue che in quasi ogni angolo del globo vi furono senza fare riferimento ai filosofi. I politici britannici, in generale, vissero e morirono influenzati da Mill e Bentham. Lenin, Stalin, Mao, Pol Pot, Ceausescu, Menghitsu, Enver Hoxha, Tito, per fare alcuni nomi dei dittatori più potenti del XX secolo, furono tutti seguaci di Karl Marx, il filosofo discepolo di Hegel. Hitler, nonostante amasse molto Nietzsche, il Van Gogh della filosofia, fu anche un socialista, assai ispirato da Marx. Così pure Mussolini, che era socialista e, pare, anche un grande esperto di letteratura socialista”. Marx e Cartesio grandi motori dei disastri del secolo scorso.

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Interpello la Nash-Marshall, di passaggio in Italia. I ‘Giovani Turchi’ trovano la matrice ideologica per la costruzione di una ‘patria’ ideale – che materialmente passa per lo sterminio degli Armeni – “nel concetto di nazione forgiato da Fichte, e in un miscuglio che fonde razionalismo francese e idealismo tedesco…”. Ma, cosa c’entra Cartesio. “Guardi, io non capisco perché la gente se la prende con me per quello che ha scritto Cartesio. I fatti concreti oggi agli intellettuali non servono. Nel suo Discorso sul metodo, ad esempio, è Cartesio a dire che tutti gli stati dovrebbero essere governati da una persona sola perché di per sé l’uomo è selvaggio, se lasciato da solo crea confusione. Ed è Cartesio a dire che la conoscenza di per sé è vera”. Ovviamente, non è Cartesio ad aver armato gli assassini degli Armeni: ma quando le idee sono ritenute più concrete dei fatti, quando al volto si sostituisce un concetto, un pregiudizio, ogni atto sanguinario è lecito, è giustificato. “Lo svantaggio di Hitler – se ne confrontiamo le vicende con quelle del Cup e di Mustafa Kemal, da lui grandemente ammirato – fu che i polacchi e i russi, autoctoni delle terre che questi voleva requisire… non erano solo studiosi e banchieri, scrittori e professori, mercanti e industriali. Erano molto più numerosi degli armeni. Non avrebbe potuto cioè liberarsene in un colpo solo”.

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L’intenzione profonda del libro è denunciata dalla ‘quarta’. “La Turchia odierna sta ancora cercando di costruire il suovatan, proseguendo così il genocidio iniziato dai turchi ottomani, e continuando a negare, di fatto, che questo abbia avuto luogo. Coprire un crimine vuol dire prolungarne gli effetti”. Ecco, forse, cosa fa paura di questo libro: capire l’ideologia che ha fabbricato il genocidio impone una direzione morale.

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La filosofa, dall’intelligenza esuberante, ha colto due problemi concatenati di oggi: “il pensiero che è diventato pura retorica, dissociato dai fatti” e i giovani “che hanno paura, una paura folle del mondo, pensano che il mondo voglia schiacciarli”. Così, da vera filosofa, Siobhan modifica l’ordine dei fattori. “Intanto, bisogna misurarsi con i testi importanti, discutendone le radici di senso, partendo da Tommaso d’Aquino. Poi, bisogna tornare alla materia. Bisogna insegnare ai ragazzi come ci si misura con i testi ma anche come si restaura un mobile, perché devono conoscere il mondo concreto. Io amo restaurare i mobili: la materia è cosa ostinata, mi mantiene umile”. Ed eccola qui la natura della filosofia – pensiero e lavoro, concetto e atto. Per evitare il fiorire del sangue. Denso come un aforisma. (d.b.)

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Il terremoto dimenticato (RSInews 26.01.19)

l 7 dicembre del 1988 la terra, in Armenia, tremò in modo violentissimo. Un terremoto di magnitudo sette, con epicentro nel nord del Paese, nella regione di Shirak, distrusse le cittadine di Spitak e Vanadzor, oltre al capoluogo regionale, Gyumri, il secondo centro del Paese per numero di abitanti. Allora si chiamava Leninakan.

Ci furono 25.000 vittime, di cui 15.000 nella sola Gyumri. Il sisma dell’Armenia ebbe vasta eco internazionale, dato che l’allora segretario del Partito comunista, Mikhail Gorbaciov, fece appello alla comunità internazionale per ottenere soccorsi e aiuti, rompendo con la prassi sovietica. Gorbaciov, per la ricostruzione, mise sul piatto molte risorse. In un certo senso, lo sforzo per l’Armenia terremotata fu l’ultimo, grande progetto edilizio e sociale della superpotenza comunista, che appena tre anni più tardi avrebbe cessato di esistere, dopo 71 anni.

La fine dell’URSS, la fine degli interventi

Crollata l’URSS, la ricostruzione si fermò. La gestione della faccenda passò all’Armenia indipendente. Un Paese nuovo e povero, prostrato tra l’altro dalla guerra, deflagrata all’inizio del 1992, con il vicino Azerbaigian per il controllo del Nagorno-Karabakh, fazzoletto di terra a maggioranza armena controllato allora dagli azeri (il conflitto fu vinto dall’Armenia).

A trent’anni dalla grande scossa del 1988, Gyumri, 150.000 abitanti, è ancora schiacciata dal peso di quell’evento drammatico. Non tanto a livello urbanistico, perché la ricostruzione c’è stata, quanto piuttosto sul piano economico e sociale. La città è molto povera, e si contano ben 10.000 persone che, persa la casa nell’88, non ne hanno più avuta una. I terremotati vivono in container o misere baracche. Abbiamo incontrato alcune famiglie, assistite da trent’anni da Vahan Tumasyan, coordinato della Ong Shirak Kentron. “Dopo il terremoto, io e alcuni amici ci chiedemmo perché fossimo sopravvissuti. La risposta alla domanda che ci ponemmo sta nel lavoro volontario che facciamo per queste persone”, ha spiegato Tumasyan.

Matteo Tacconi

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Percorsi positivi in Nagorno Karabakh (Osservatorio Balcani e Caucaso 25.01.19)

Non soffiano ancora venti di pace sul processo di risoluzione e pacificazione del conflitto in Nagorno Karabakh, ma sicuramente aria di novità. Il neo eletto governo di Nikol Pashinyan, fresco della conferma dalle urne e del consenso che lo sostiene sta tentando un avvicinamento cauto a Baku, che gli fa sponda.

Il lavorio diplomatico

Il primo ministro armeno Nikol Pashinyan e il presidente dell’Azerbaijan Ilham Aliev si sono incontrati il 22 gennaio scorso a Davos, nell’ambito del World Economic Forum, per parlare del conflitto in Karabakh, regione secessionista armena sottrattasi dal 1994 al controllo di Baku. Non è la prima volta che a latere di un evento diplomatico multilaterale i due si ritagliano un incontro rigorosamente bilaterale. Era già successo a Dushanbe, durante la riunione del CIS, e poi di nuovo a Pietroburgo, in un’analoga circostanza. E poi ci sono stati i numerosi incontri dei numero uno dei rispettivi ministeri degli Esteri.

Dall’assunzione dell’incarico il ministro degli Esteri armeno Zohrab Mnatsakanyan ha incontrato l’omologo azerbaijano Elmar Mammadyarov quattro volte, di cui l’ultima volta a Parigi il 16 gennaio scorso. Un incontro durato ben quattro ore e definito molto proficuo dai copresidenti del Gruppo di Minsk per la regolamentazione del conflitto congelato dal 1994, cioè Francia, Russia e Stati Uniti. Si leggono nel comunicato stampa  parole che non si sentivano pronunciare da più di un decennio in riferimento alle posizioni delle parti: “I ministri hanno discusso un’ampia gamma di questioni relative alla risoluzione del conflitto del Nagorno-Karabakh e concordato sulla necessità di prendere provvedimenti concreti per preparare le popolazioni alla pace. Durante le riunioni, i copresidenti hanno esaminato con i ministri i principi e i parametri chiave per la fase attuale del processo di negoziazione […] e hanno preso in considerazione i prossimi passi verso un possibile vertice tra i leader dell’Azerbaijan e dell’Armenia con lo scopo di dare un forte impulso alla dinamica dei negoziati”.

Quindi una valutazione delle proposte avanzate finora, la pianificazione del futuro lavorio diplomatico al massimo livello politico, e – finalmente e forse – la moderazione di quella propaganda nazionalista e violenta che ha reso le popolazioni ostili a qualsiasi compromesso, senza il quale nessuna pace può essere raggiunta. Più volte, proprio sulle pagine di OBC Transeuropa, è emerso come la questione del linguaggio dell’odio stia contribuendo attivamente al deterioramento della sicurezza e delle prospettive di pace, ad esempio nei due articoli Nagorno Karabakh: il linguaggio dell’odio e Arzu Abdullayeva: donna di pace tra Azerbaijan e Armenia.

Le reazioni

Nel contesto di relazioni internazionali tese e complesse, un segno positivo in un’area di così grandi criticità è stato accolto con viva soddisfazione e speranza. Ed è proprio il Segretario Generale ONU António Guterres ad aver commentato  con una sua dichiarazione pubblica il 17 gennaio il lavoro diplomatico in corso elogiando il costante impegno delle parti a trovare una soluzione negoziata e pacifica al conflitto e accogliendo con particolare favore l’accordo dei ministri azerbaijano e armeno sulla necessità di adottare misure concrete per preparare le popolazioni alla pace. La dichiarazione della massima carica dell’ONU è un tassello importante per capire quanto il processo in corso possa essere qualcosa di sostanziale.

Alle parole di Guterres hanno fatto seguito le dichiarazioni europee. Il Rappresentante Speciale dell’Unione Europea per il Caucaso Meridionale Toivo Klaar ha scritto sul suo profilo twitter che “preparare le popolazioni per la pace è fondamentale e l’UE è impegnata a sostenere questo processo”.

Lo European Union External Action Service  di Federica Mogherini ha ribadito la posizione dell’Unione e l’importanza della questione del Karabakh per tutta la regione, sottolineando che tutti trarrebbero beneficio da una pace duratura che contribuirebbe a consentire alla regione del Caucaso meridionale di realizzare il proprio potenziale.

Se la comunità internazionale è unanime nell’accogliere la possibilità di costruire la pace, il tema delle concessioni necessarie al raggiungimento di un compromesso ha acceso il dibattito a livello nazionale. In Armenia sono i Repubblicani in particolare a punzecchiare il governo. Il vice-presidente del partito Armen Ashotyan dal suo profilo Facebook ha posto cinque domande al nuovo governo, accusandolo già di aver tradito le promesse fatte, in particolare quella di riportare le autorità de facto del Nagorno Karabakh al tavolo negoziale, dando così legittimazione politica internazionale alla loro esistenza.

Un campo minato

Nagorno Karabakh – mappa OBC – In verde è indicato il territorio che la regione autonoma del Nagorno Karabakh occupava in epoca sovietica, in giallo i territori occupati dalle autorità de facto di Stepanakert e a cui si fa riferimento nei “principi di Madrid”

Che costruire la pace in Nagorno Karabakh e fra Armenia e Azerbaijan non sia una passeggiata è evidente, e non solo per le dichiarazioni dell’opposizione politica interna nei due paesi interessata ovviamente a screditare l’azione di governo su un tema così avvertito e delicato. La fiducia fra i due paesi passa sotto il fuoco incrociato, letteralmente: il cessate il fuoco viene violato quotidianamente lungo una linea di contatto fra eserciti che ormai si insinua entro i confini di stato riconosciuti, tra Armenia ed Azerbaijan, e non solo lungo la linea che demarca il confine de facto del Karabakh. Sono state 180 le violazioni del cessate il fuoco registrate dalle autorità della regione secessionista  solo dal 13 al 19 gennaio di quest’anno, corrispondenti ad una pioggia di 1300 proiettili, e nel solo weekend del 19 gennaio il ministero della Difesa dell’Azerbaijan ha registrato una settantina di violazioni  . E questo è considerato un periodo di netta distensione militare.

Un campo minato mai sanato, il Karabakh, anche in questo caso letteralmente. Se si continua a sparare, si continua anche a morire o rimanere feriti per le mine disseminate trent’anni fa. L’ultimo caso il 16 gennaio scorso quando Arman Mikaelyan, residente a Tavush, ha perso una gamba a causa di una mina  .

Una diffidenza che passa non solo per il fuoco, ma anche per tutta una serie di misure restrittive. Sono chiusi ad esempio i confini tra Armenia e Azerbaijan ed è limitata la libertà di movimento, con un numero crescente di soggetti coinvolti, incluse cittadinanze terze. È di questi giorni poi la polemica fra Russia e Azerbaijan riguardante cittadini russi di origine armena che non sarebbero stati ammessi nel paese. La Russia ha denunciato  una violazione della normativa vigente per motivi di discriminazione etnica. L’Azerbaijan ha risposto  che a fronte di numerosi russi regolarmente accolti non accetta né critiche né ultimatum. Toni inusitatamente ostili fra i ministeri degli Esteri dei due paesi che dimostrano come il vecchio conflitto si innesti in dinamiche tutte attuali e contribuisca a estendere l’area di tensione.

Un campo minato da bonificare, e una strada verso la pace che è tutta in salita. Ma – dopo una decade in cui si è parlato più di guerra che di pace – pare che almeno su questa strada si stia provando a incamminarsi.

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Davos: l’Armenia tenta la seconda rivoluzione (Euronews 25.01.19)

“Dobbiamo trasformare la nostra rivoluzione politica in una rivoluzione economica”. Questo il messaggio che il Primo ministro armeno, Nikol Pashinyan, ha portato al Forum economico di Davos.

“Semplificheremo le normative per rendere più facile qualsiasi attività commerciale in Armenia e l’altra è la riforma fiscale – spiega Pashinyan ai microfoni di Euronews – Ridurremo il livello delle imposte sul reddito e sui profitti per rendere l’Armenia più attraente per le imprese e gli investimenti”.

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