Ritorni di guerra tra Armenia e Azerbaijan: una considerazione (Ln-international 18.07.20)

La notizia, recentemente giunta dal Caucaso di una ripresa delle ostilità tra l’Armenia e l’Azerbaijan a riguardo del conteso territorio del Nagorno Karabagh, colpisce, ma non ci sorprende.

E’ lo stesso copione che guida insistentemente lo svolgimento del conflitto con ripetuti tentativi di guerra dopo, ammettiamolo pure, il fallimento della mediazione internazionale condotta in primis dall’OSCE con il Gruppo di Minsk.

L’aggressione infatti, consumatasi domenica 12 luglio direttamente sul confine tra i due Paesi, tra le località di Tavush in Armenia e Tovuz in Azerbaijan, peraltro reciprocamente contestata con rimbalzo di responsabilità da parte dei due Governi, confermerebbe ancora una volta lo stallo “tecnico” del processo di pacificazione avviato ormai, ma senza successo, da oltre vent’anni in seno all’OSCE.  Un processo, questo, che non riesce a focalizzare, né tanto meno a far riconoscere, il vizio primigenio di una mediazione fondata sulla inconciliabilità di due principi internazionali fondamentali: da un lato l’integrità territoriale degli Stati, sostenuto da Baku, dall’altro quello dell’autodeterminazione dei popoli voluto da Yerevan.

Superfluo, per fare il punto oggi sulla situazione, ricapitolare tutta la storica vicenda dei rapporti tra Armenia e Azerbaijan per il controllo del Nagorno Karabagh, territorio originariamente armeno e popolato essenzialmente da armeni. Basti tuttavia osservare, per obiettività di cronaca, come la conquista di una propria sovranità e indipendenza sia stato l’obiettivo dichiarato e conseguito da tutte quelle repubbliche ex sovietiche, e dalle regioni a queste interne con vocazioni autonomistiche come il Karabagh, che all’indomani della dissoluzione dell’URSS hanno intrapreso la via dell’indipendenza in virtù della legge sovietica sulla ”Secessione degli Stati”  approvata dal Soviet Supremo dell’URSS il 3 aprile del 1990. Un diritto, quello sancito da questa legge, di cui si è naturalmente avvalso l’Azerbaijan per proclamarsi indipendente, senza per contro che venisse riconosciuto lo stesso diritto al territorio autonomo del Karabagh. Ecco in estrema sintesi, e aldilà di considerazioni surrettizie e pretestuose, il vero oggetto del contendere. Ma i Governi e i circoli politici  interessati più alle fonti energetiche dell’Azerbaijan che al riconoscimento dei valori di libertà, dimenticano molto spesso che l’affermarsi di un mondo prevalentemente libero negli ultimi settant’anni sia stato possibile solo grazie a quel principio di autodeterminazione dei popoli di cui proprio le Nazioni Unite si sono fatte paladino per affrancare dal colonialismo interi continenti. E in questo quadro internazionale, sorprende come proprio le Nazioni Unite abbiano adottato sul Karabagh le Risoluzioni del 1993, e più recentemente la n. 62/243 del 2008 (peraltro rigettata dai mediatori dello stesso Gruppo di Minsk),  in totale disprezzo di una imparziale quanto obiettiva valutazione di quel principio di libertà  tanto prima sbandierato dalla medesima Organizzazione per oltre mezzo secolo! Ma la memoria è corta in certi casi, e a fronte della determinata volontà del popolo armeno del Karabagh ci si ostina ancor oggi a non riconoscere le storiche verità vedendo addirittura qualcuno  nell’indipendenza del Kosovo un pericolosissimo precedente per la minaccia alla integrità territoriale degli Stati.

L’esasperazione del popolo armeno è alta di fronte a simili episodi di guerra che ormai si ripetono con ricorrenza. E se da una lato il prolungarsi di una situazione di stallo nel processo di pace non giova di certo all’Armenia che rischia, per la pubblica opinione, di vedersi trasformare e capovolgere la sua linea di difesa addirittura in aggressione, dall’altro si dovrebbe da parte di tutti i Governi occidentali ed europei interessarsi più da vicino all’evolversi di questa crisi caucasica onde evitare che l’Armenia messa alle strette da aggressioni portate direttamente sul suo stesso  territorio e con vittime civili, come è stato il caso coi fatti del 12 luglio scorso, reagisca mutando con la forza ancora una volta i confini in un’area per giunta particolarmente strategica per l’Europa per via del transito di importantissime condotte energetiche.

             La Storia dell’Umanità, come ben sappiamo, è stata segnata da un continuo mutamento dei confini; guerre, rivoluzioni, rivolte, insurrezioni  hanno da sempre puntato a cambiare a seconda degli interessi in gioco le frontiere tra le Nazioni, ma il fine ultimo dei tanto invocati processi di libertà non è mai cambiato, è stato invece sempre lo stesso: conseguire una propria autonomia e una sovrana indipendenza!

Ecco, dunque, che la questione del Nagorno Karabagh, a distanza ormai di oltre un ventennio dallo scoppio della guerra, ci ripropone in tutta la sua drammaticità il dilemma di quale principio debba sacrificarsi e quale debba prevalere. Ma per noi non c’è dubbio: sono i confini al servizio dei popoli e non il contrario!

Bruno Scapini

già Ambasciatore d’Italia

Presidente Onorario e Consulente Generale

Ass.ne Italo-armena per il Commercio e l’Industria

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AZERBAIGIAN: Cancellata la storia armena in Nachicevan (Eastjournal 18.07.20)

Nel dicembre del 2005 un gruppo di uomini è intento a distruggere le khachkar – croci di pietra scolpite – di un antico cimitero armeno a Culfa, una cittadina azera sulle sponde dell’Aras, il corso d’acqua che segna il confine tra Azerbaigian e Iran. Le khachkar, una volta estratte dal suolo e frantumate, vengono buttate nel letto del fiume, a pochi metri di distanza. Dal lato iraniano della frontiera un uomo riprende quanto sta avvenendo e quelle immagini sgranate faranno presto il giro del mondo.

Inizialmente, arrivano le condanne internazionali, come quella del parlamento europeo; la distruzione in corso a Culfa non è una novità, ma si tratta dell’ultimo atto di un processo iniziato negli anni novanta. Come spesso accade, però, il tutto passa presto nel dimenticatoio. Nel frattempo a Denver, negli Stati Uniti, Simon Maghakyan viene a sapere di questi fatti da un sito di informazioni russo. L’evento segnerà la sua vita negli anni a venire, dando inizio a una ricerca decennale.

Il Nachicevan

Osservando una cartina politica del Caucaso meridionale, si nota una particolarità, una exclave azera separata dal resto del paese dall’Armenia. Si tratta  della  Repubblica Autonoma di Nachicevan, il territorio dove si trova Culfa.

Fonte: Wikipedia

Nonostante il suo isolamento, il Nachicevan riveste una importanza particolare per l’Azerbaigian. Nella regione si trovano, infatti, importanti testimonianze della storia azera. Inoltre, è la terra di origine dell’attuale presidenteIlham Aliyev, e dei suoi due predecessori, il padre Heydar e Abulfaz Elchibey.

Un’altra popolazione storica della zona è quella armena, presente con numeri sempre più ridotti in epoca sovietica, per poi sparire negli anni del conflitto per il controllo del Nagorno-Karabakh. Per effetto della guerra irrisolta con l’Armenia, il Nachicevan è oggi raggiungibile dalla madrepatria solo per via aerea o con un lungo giro attraverso l’Iran.

La fine della convivenza tra armeni e azeri che ha per lungo tempo caratterizzato la regione, ha comportato anche la cancellazione sistematica di tutte le testimonianze architettoniche della storia armena in Nachicevan di cui la distruzione del cimitero di Culfa è solo la punta dell’iceberg.

Una ricerca decennale

Maghakyan, intervistato da East Journal nel corso della stesura di quest’articolo, è un americano di origine armena. La sua famiglia ha lasciato l’Armenia nei primi anni duemila, quando Simon aveva sedici anni. Nel 2005, venendo a sapere di quanto stava avvenendo a Culfa, gli sono affiorati alle mente i racconti del padre che, in epoca sovietica, aveva visitato “il più grande cimitero armeno medievale del mondo” accompagnato  da amici azeri.

Da allora si è impegnato per fare in modo che la distruzione del patrimonio architettonico armeno in Nachicevan non passasse sotto silenzio. “Mi disturbava il fatto che l’Armenia non potesse arrestare il processo, il mondo non prestasse attenzione e l’Azerbaigian negasse il tutto” spiega Maghakyan. “La comunità armena è ancora alle prese con il negazionismo turco del genocidio armeno e adesso che stavamo subendo un altro torto, non facevamo niente per contrastare il negazionismo azero”, aggiunge.

Motivato da quello che  definisce come un “senso di colpa”, Maghakyan ha lavorato più di dieci anni con l’archeologa Sarah Pickman per documentare in modo accurato la distruzione. Base di confronto della lora analisi, è il lavoro dello storico Argam Ayvazyan che tra il 1964 e il 1987 ha catalogato e fotografato il patrimonio architettonico armeno del Nachicevan.

I risultati delle ricerche di Maghakyan e Pickman sono raccolti in un articolo sul portale Hyperallergic, in cui si parla dell’abbattimento di 89 chiese, 5840  khachkar e 22 mila pietre tombali in tutta la regione. Al di là dei numeri, gli autori hanno raccolto una serie importante di testimonianze fotografiche.

Secondo Maghakyan le immagini sono la parte più importante del suo lavoro, in quanto constituiscono l’elemento che con maggiore facilità può fare breccia sul grande pubblico. Le fotografie si possono visualizzare sull’articolo di Hyperallergic oltre che sulla pagina Facebook Djulfa.com e colpiscono nella loro dura semplicità.

Scatti satellitari prima e dopo la distruzione del cimitero di Culfa, chiese e cattedrali in tutto il Nachicevan al cui posto sono sorte moschee o delle quali è rimasta solo una distesa di terra. Gli esempi sono innumerevoli e piuttosto lampanti. Ciononostante, Nasimi Aghayev, console azero a Los Angeles, interrogato da L.A. Times sul lavoro di Maghakyan lo ha definito come “il prodotto dell’immaginazione dell’Armenia”.

La chiesa del Santo Precursore ad Abrakunis tra il 1979 e il 1981 (fonte: Argam Ayvazyan archive).

 

La moschea sorta al posto della chiesa dopo il 2005 (fonte: Djulfa.com).

La cancellazione di una storia condivisa

Viste le sue dimensioni, tutto lascia pensare che il governo azero fosse al corrente se non il committente della distruzione, ormai completata, dei monumenti.

Tuttavia, Baku ha sempre respinto qualsiasi accusa. Alcuni, come lo stesso Aghayev, hanno messo in dubbio l’esistenza stessa di un patrimonio architettonico armeno nella regione, accusando, al contempo l’Armenia di aver distrutto moschee e cimiteri islamici sul suo territorio e nelle aree dell’Azerbaigian sotto l’occupazione armena per effetto della guerra del Nagorno-Karabakh. Altri, per esempio, Zaur Ibragimli, uno scienziato politico di Culfa, hanno ammesso l’esistenza di cimiteri cristiani nella zona, ascrivendoli però alla civiltà albana del Caucaso, argomentazione sempre gettonata quando in ballo ci sono conflitti territoriali. Infine, c’è chi ha semplicemente negato la presenza di una  popolazione armena in Nachicevan. Nel 2006, il governo di Baku ha impedito a una delegazione del parlamento europeo di visitare l’area, cosa che ha, di fatto, chiuso il dibattito internazionale sull’argomento.

Non tutti in Azerbaigian hanno, però, accettato passivamente che la storia armena della regione venisse cancellata. Lo scrittore Akram Aylisli – di cui abbiamo scritto qui – già nel 1997 ha inviato un telegramma all’allora presidente Heydar Aliyev per condannare i danni fatti alle chiese e ai cimiteri di Aylis, il suo villaggio natale in Nachicevan.

Distruggere questi monumenti, significa cancellare secoli di storia condivisa. Durante la guerra in Nagorno-Karabakh, la minoranza azera in Armenia è fuggita in Azerbaigian nel frattempo abbandonato  dalla sua comunità armena. Questo ha fatto sì che nei due paesi una generazione sia cresciuta nell’odio reciproco e senza sapere che una vita in una società multietnica, pur con tutti i suoi problemi, era possibile.

Testimoniare dell’esistenza di una comunità armena in Nachicevan non significa mettere in discussione la sovranità azera della regione, modo di pensare piuttosto comune in Armenia. Raccontare questa storia serve, piuttosto, a condannare l’atto barbarico di distruggere un patrimonio storico unico e a ricordare che una coesistenza tra armeni e azeri è stata possibile in passato ed è ancora una realtà in paesi come Georgia e Iran.

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Ritorni di guerra tra Armenia e Azerbaijan: una considerazione (Ln-international 18.07.20)

La notizia, recentemente giunta dal Caucaso di una ripresa delle ostilità tra l’Armenia e l’Azerbaijan a riguardo del conteso territorio del Nagorno Karabagh, colpisce, ma non ci sorprende.

E’ lo stesso copione che guida insistentemente lo svolgimento del conflitto con ripetuti tentativi di guerra dopo, ammettiamolo pure, il fallimento della mediazione internazionale condotta in primis dall’OSCE con il Gruppo di Minsk.

L’aggressione infatti, consumatasi domenica 12 luglio direttamente sul confine tra i due Paesi, tra le località di Tavush in Armenia e Tovuz in Azerbaijan, peraltro reciprocamente contestata con rimbalzo di responsabilità da parte dei due Governi, confermerebbe ancora una volta lo stallo “tecnico” del processo di pacificazione avviato ormai, ma senza successo, da oltre vent’anni in seno all’OSCE.  Un processo, questo, che non riesce a focalizzare, né tanto meno a far riconoscere, il vizio primigenio di una mediazione fondata sulla inconciliabilità di due principi internazionali fondamentali: da un lato l’integrità territoriale degli Stati, sostenuto da Baku, dall’altro quello dell’autodeterminazione dei popoli voluto da Yerevan.

Superfluo, per fare il punto oggi sulla situazione, ricapitolare tutta la storica vicenda dei rapporti tra Armenia e Azerbaijan per il controllo del Nagorno Karabagh, territorio originariamente armeno e popolato essenzialmente da armeni. Basti tuttavia osservare, per obiettività di cronaca, come la conquista di una propria sovranità e indipendenza sia stato l’obiettivo dichiarato e conseguito da tutte quelle repubbliche ex sovietiche, e dalle regioni a queste interne con vocazioni autonomistiche come il Karabagh, che all’indomani della dissoluzione dell’URSS hanno intrapreso la via dell’indipendenza in virtù della legge sovietica sulla ”Secessione degli Stati”  approvata dal Soviet Supremo dell’URSS il 3 aprile del 1990. Un diritto, quello sancito da questa legge, di cui si è naturalmente avvalso l’Azerbaijan per proclamarsi indipendente, senza per contro che venisse riconosciuto lo stesso diritto al territorio autonomo del Karabagh. Ecco in estrema sintesi, e aldilà di considerazioni surrettizie e pretestuose, il vero oggetto del contendere. Ma i Governi e i circoli politici  interessati più alle fonti energetiche dell’Azerbaijan che al riconoscimento dei valori di libertà, dimenticano molto spesso che l’affermarsi di un mondo prevalentemente libero negli ultimi settant’anni sia stato possibile solo grazie a quel principio di autodeterminazione dei popoli di cui proprio le Nazioni Unite si sono fatte paladino per affrancare dal colonialismo interi continenti. E in questo quadro internazionale, sorprende come proprio le Nazioni Unite abbiano adottato sul Karabagh le Risoluzioni del 1993, e più recentemente la n. 62/243 del 2008 (peraltro rigettata dai mediatori dello stesso Gruppo di Minsk),  in totale disprezzo di una imparziale quanto obiettiva valutazione di quel principio di libertà  tanto prima sbandierato dalla medesima Organizzazione per oltre mezzo secolo! Ma la memoria è corta in certi casi, e a fronte della determinata volontà del popolo armeno del Karabagh ci si ostina ancor oggi a non riconoscere le storiche verità vedendo addirittura qualcuno  nell’indipendenza del Kosovo un pericolosissimo precedente per la minaccia alla integrità territoriale degli Stati.

L’esasperazione del popolo armeno è alta di fronte a simili episodi di guerra che ormai si ripetono con ricorrenza. E se da una lato il prolungarsi di una situazione di stallo nel processo di pace non giova di certo all’Armenia che rischia, per la pubblica opinione, di vedersi trasformare e capovolgere la sua linea di difesa addirittura in aggressione, dall’altro si dovrebbe da parte di tutti i Governi occidentali ed europei interessarsi più da vicino all’evolversi di questa crisi caucasica onde evitare che l’Armenia messa alle strette da aggressioni portate direttamente sul suo stesso  territorio e con vittime civili, come è stato il caso coi fatti del 12 luglio scorso, reagisca mutando con la forza ancora una volta i confini in un’area per giunta particolarmente strategica per l’Europa per via del transito di importantissime condotte energetiche.

             La Storia dell’Umanità, come ben sappiamo, è stata segnata da un continuo mutamento dei confini; guerre, rivoluzioni, rivolte, insurrezioni  hanno da sempre puntato a cambiare a seconda degli interessi in gioco le frontiere tra le Nazioni, ma il fine ultimo dei tanto invocati processi di libertà non è mai cambiato, è stato invece sempre lo stesso: conseguire una propria autonomia e una sovrana indipendenza!

Ecco, dunque, che la questione del Nagorno Karabagh, a distanza ormai di oltre un ventennio dallo scoppio della guerra, ci ripropone in tutta la sua drammaticità il dilemma di quale principio debba sacrificarsi e quale debba prevalere. Ma per noi non c’è dubbio: sono i confini al servizio dei popoli e non il contrario!

Bruno Scapini

già Ambasciatore d’Italia

Presidente Onorario e Consulente Generale

Ass.ne Italo-armena per il Commercio e l’Industria

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Coronavirus, la task force italiana in Armenia: “mascherine, temperature e ospedali anti-Covid come in Italia” (Tgcom24 17.07.20)

“Non ho notato nessun tipo di cambiamento, non si respira una particolare aria di tensione”. Ad affermarlo è David Reti, medico aretino di 33 anni, partito per l’Armenia con la volontà di portare il suo aiuto negli ospedali della capitale, Yrevan, di uno degli Stati caucasici più colpiti dall’emergenza coronavirus. E sullo sfondo la continua tensione con l’Azerbaijan.

Lo scontro armeno-azero – Il virus non è l’unica fonte di tensione nel Paese. L’Armenia, storicamente in conflitto con lo Stato confinante dell’Azerbaijan, negli ultimi giorni ha visto il riemergere di tensioni lungo il confine. Gli attriti tra i due Stati nascono, nel corso degli anni ’90, a causa del controllo della regione azera di Nagorno-Karabakh, rivendicata dalla minoranza armena presente. “Mi avevano avvisato che la situazione al confine era critica già prima del mio arrivo” racconta Reti.

 

La missione accolta dal governo Conte – Il medico italiano è partito il 26 giugno con un team di undici esperti, di cui nove piemontesi, un toscano e un lombardo, dislocati in tre ospedali della capitale. La missione, sostenuta da Conte e dalla Protezione civile, ha avuto inizio dopo la richiesta inviata dal governo armeno al meccanismo di Protezione civile europea. “Qui tutto procede alla normalità – prosegue il medico – la gente esce di strada tranquillamente, sia di giorno che di notte, non ci sono particolari protocolli di sicurezza messe in atto dallo Stato”.

 

Il regolamento anti-contagio – Con circa 34.000 casi confermati e 620 decessi, l’Armenia ha attuato misure di contenimento del virus analoghe a quelle italiane durante il picco dell’epidemia. Non dissimili anche le norme igieniche emanate dal governo armeno: “Le persone indossano la mascherina e per le strade le pattuglie della polizia invitano i cittadini a mantenere le distanze di sicurezza”. Nei locali, come in Italia, viene poi misurata la temperatura. “Nell’hotel dove soggiorniamo il numero degli ospiti è inferiore rispetto alla capienza massima: non si verificano situazioni di assembramento” spiega Redi.

 

Le strutture sanitarie Covid in Armenia – Il Paese ha istituito ospedali pubblici dedicati esclusivamente a pazienti Covid, sette solo nella capitale: “Qui possono accedere unicamente pazienti che hanno fatto il tampone e che sono risultati positivi. I test vengono prescritti dal medico di medicina generale”.

 

Gli ospedali sono saturi – Seppur in Armenia “tendano a ricoverare quasi tutti i pazienti positivi, anche quando presentano forme più lievi, la capienza degli ospedali è buona” afferma il medico che aggiunge: “Al momento sono pieni, ma non ci sono situazioni di sovraffollamento al di fuori dei reparti, come può esser successo in Lombardia”. Non si è quindi registrata una crisi del sistema ospedaliero. Tuttavia la squadra di medici italiani in Armenia ha notificato alcune criticità sulla gestione dei pazienti Covid: “La differenza più importante rispetto al nostro sistema sanitario è la mancanza di percorsi all’interno dell’ospedale dedicati, prima che i pazienti Covid vengano spostati nei reparti adeguati e molto spesso gli infetti percorrono gli stessi corridoi degli operatori sanitari”.

 

Il trattamento terapeutico – Un’altra differenza rispetto al sistema italiano riguarda l’approccio terapeutico, se da una parte è in linea con le direttive dell’Organizzazione mondiale della sanità, dall’altro il dosaggio di alcuni farmaci è diverso. “Inoltre qui è previsto un abbondante uso della terapia antibiotica, mentre in Italia questo non c’è stato. La tendenza in Armenia è di usare l’antibiotico-terapia in profilassi, cosa che in Italia si è vista non esser molto efficace, ma anzi rischiosa per lo sviluppo di resistenze” conclude il medico.

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Protezione civile, conclusa la missione del team italiano anti-coronavirus in Armenia

Termina la missione con cui l’Italia ha risposto alla richiesta di assistenza internazionale inoltrata dal Governo armeno alla Direzione generale per la protezione civile e le operazioni di aiuto umanitario della Commissione europea

Termina oggi, 17 luglio, la missione del team sanitario italiano impegnato in Armenia per supportare le strutture ospedaliere locali nel contrasto alla pandemia da coronavirus, realizzata con il coordinamento dal Dipartimento della protezione civile nell’ambito del Meccanismo Unionale di protezione civile.

Il gruppo di esperti, composto da 11 specialisti tra personale medico-sanitario dell’Emergency medical team della Regione Piemonte (EMT2 certificato dalla Organizzazione Mondiale della Sanità) e professionisti delle Regioni Lombardia e Toscana, è stato la pronta risposta italiana alla richiesta di assistenza internazionale inoltrata dal Governo armeno alla  Direzione generale per la protezione civile e le operazioni di aiuto umanitario della Commissione europea (DG ECHO), legata alle condizioni precarie del sistema sanitario del Paese.

La squadra sanitaria partita il 26 Giugno, e specializzata nel trattamento di pazienti affetti da coronavirus, è stata impegnata al fianco dei colleghi locali nella realizzazione di programmi di formazione per utilizzo dell’ecografia polmonare in caso di urgenza, nello sviluppo di corsi di Terapia antibiotica, particolarmente riferita alla patologia polmonare e agli approcci terapeutici, e nelle attività di valutazione e di consulenza della autorità sanitarie locali. Tutte le attività sono state svolte in coordinamento con l’Organizzazione Mondiale della Sanità e l’Ambasciata d’Italia in Armenia.

Gli esperti italiani hanno operato in tre strutture ospedaliere della capitale armena, convertite in veri e propri Covid – Hospital, il Surb Grigor Lusavanovih Medical Centre, lo Scientific Center of Traumatology and Orthopaedy, il Surb Astvatsamayr Medical Center.
Il team italiano ha messo a disposizione del sistema sanitario armeno il  know how e l’esperienza maturate nel corso dell’emergenza epidemiologica Covid – 19, secondo lo spirito di solidarietà e di scambio delle informazioni che caratterizza l’approccio integrato del Meccanismo Unionale di protezione civile.

 

 

Putin e Consiglio Russia discutono tensioni Armenia-Azerbaigian (Askanews 17.07.20)

Roma, 17 lug. (askanews) – Il presidente russo Vladimir Putin e i membri permanenti del Consiglio di sicurezza russo hanno discusso delle tensioni sul confine armeno-azerbaigiano, evidenziando la disponibilità di Mosca ad agire da mediatore. Lo ha detto il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, dopo una video conferenza.

“Hanno espresso profonda preoccupazione per la continua escalation, hanno sottolineato l’urgente necessità che le parti rispettino il cessate il fuoco e hanno anche espresso la disponibilità a mediare”, ha affermato Peskov.

Il presidente ha inoltre informato il Consiglio di sicurezza russo sui suoi recenti contatti telefonici con il principe ereditario di Abu Dhabi Mohammed Al Nahyan, la cancelliera tedesca Angela Merkel e il presidente iraniano Hassan Rohani, ha aggiunto il portavoce del Cremlino.

Ricordando il genocidio armeno (Haffingtonpost 17.07.20)

Il “Genocidio armeno”, che viene commemorato il 24 aprile, è stato il massacro degli Armeni perpetrato in modo spietato e programmatico dall’Impero ottomano tra il 1915 e il 1916. Un olocausto che, secondo molti storici, fu fonte di ispirazione per i nazisti. Una tragedia che il mondo ha finto di ignorare fino a quando, nel 1973, la Commissione dell’Onu per i diritti umani ha riconosciuto ufficialmente lo sterminio di circa 1 milione e mezzo di Armeni come il primo genocidio del XX secolo.

Ma il progetto di “risolvere il problema armeno” con uccisioni e deportazioni nasce, in realtà, almeno vent’anni prima. Il sultano Abdul-Hamid II conduce, tra il 1894 e il 1896, una vera campagna contro questo popolo, che prenderà il nome di “Massacri hamidiani”.

I due milioni di Armeni che abitavano alcune zone dell’Impero, soprattutto nell’Anatolia, si erano sollevati a seguito della sconfitta degli Ottomani da parte dell’Impero russo. La speranza nei Russi era stata grande, anche perché loro stessi si erano autoproclamati difensori e paladini degli Armeni. Col Trattato di Berlino del 1878 (che fa seguito al Trattato di Santo Stefano che toglieva all’Impero Ottomano ampi territori in favore della potenza vincitrice), viene stabilito che l’Impero Ottomano debba garantire maggiori diritti ai sudditi Armeni cristiani, ma questo non avverrà mai.

Nelle dispute con i musulmani (gli Armeni erano in maggioranza appartenenti alla Chiesta apostolica armena), la legge favoriva puntualmente i musulmani, che per di più venivano anche incitati alla violenza contro gli Armeni dal governo turco: era pratica comune che i musulmani venissero chiamati a raccolta nelle moschee e indottrinati sui propositi nefandi degli Armeni, che avrebbero tramato per colpire l’Islam.

Dal 1890, manifestazioni e tumulti si susseguono. Gli Armeni chiedono un governo costituzionale, la fine della discriminazione e il diritto di voto. Quelli che vivono in provincia di Bitlis, sulle montagne di Sassoun, si ribellano anche contro la doppia tassazione imposta dai Curdi.

La reazione del sultano è veloce e spietata. Con gli Armeni non si negozia, non si cercano mediazioni. Invia l’esercito che, insieme a milizie irregolari curde, brucia i villaggi armeni e uccide migliaia di civili. A Urfa vengono sgozzati oltre cento ragazzi il 28 dicembre 1895, e i massacri continuano per due giorni. Per abbreviare i tempi, alla cattedrale viene appiccato il fuoco, così i tremila che vi si sono rifugiati muoiono tra le fiamme. Le stesse modalità e le stesse scene hanno luogo contemporaneamente in altre città. L’arrivo del 1896 viene salutato con un oceano di sangue.

Il 18 luglio 1896, il medico e tipografo armeno Alexander Atabekian invia al Congresso Internazionale di Londra, a nome della Federazione Rivoluzionaria Armena di cui fa parte, una dichiarazione intitolata “Ai socialisti rivoluzionari e liberali”. Nessun particolare è taciuto per denunciare le oppressioni, le ingiustizie e le sofferenze inflitte al popolo armeno.

Atabekian è un idealista attivo. Anarco-comunista, è un personaggio importante del movimento anarchico russo. Ha imparato l’arte della tipografia molto presto, spinto dal bisogno di mettere a disposizione delle masse armene la letteratura dei grandi, ma soprattutto i saggi anarchici. Prima di trasferirsi a Ginevra per studiare medicina, ha stampato, correndo grandi pericoli, la rivista «Hinchak» (Il suono della campana), dando grande spazio ai genocidi degli Armeni e agli scritti della resistenza. Va ovunque a portare i suoi libri, la rivista. Fin nei più sperduti villaggi.

Una volta a Ginevra, Atabekian stringe rapporti con molti Russi e con molti Italiani. Dopo aver lavorato un po’ in una vecchia stamperia ucraina, trasferisce i macchinari a casa sua e qui organizza una vera e propria biblioteca, con manoscritti preziosi, libri introvabili che traduce e ristampa.

La dichiarazione inviata al Congresso di Londra non ha alcun esito. Forse anche perché vi si accusano molti Stati europei di complicità nel massacro degli Armeni.

Poco più di un mese dopo, il 26 agosto, un gruppo di rivoluzionari armeni assale la sede centrale della Banca Ottomana a Istanbul uccidendo le guardie, con lo scopo di richiamare l’attenzione internazionale. Ma di nuovo l’Europa si rifiuta di vedere, e Abdul Hamid II può procedere con la sua ritorsione in tutta tranquillità, massacrando decine di migliaia di Armeni a Istanbul e nel resto del territorio ottomano.

Alexander Atabekian avrà una vita molto complicata. Trasferitosi a Mosca, viene arrestato più volte per violazione delle leggi inerenti alla stampa, fino ad essere internato in un gulag stalinista. È il 1940, e di lui non si saprà più nulla.

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Roma, Mkhitaryan si schiera con i soldati armeni: “Eroici martiri, sono con voi” (Corrieredellosport 17.07.20)

ROMA – Il centrocampista della Roma e della squadra nazionale di calcio dell’Armenia Henrikh Mkhitaryan ha pubblicato sulla sua pagina ufficiale Facebook un post esprimendo il proprio sostegno ai soldati delle forze armate dell’Armenia al cui confine nord orientale da domenica si registrano violenti scontri a fuoco con le forze armate dell’Azerbaigian. “Sto seguendo le notizie con grande preoccupazione sulle recenti tensioni ai confini della nostra patria e sugli insediamenti civili sotto tiro e desidero esprimere il mio sostegno ai nostri coraggiosi soldati che stanno sacrificando le loro vite per difendere la nostra patria con i loro atti eroici. Con profondo dolore, esprimo le mie condoglianze alle famiglie dei nostri eroici martiri e prego per la pronta guarigione dei soldati feriti. Auguro pace alla nostra patria! Sono con voi. Heno”, ha scritto Mkhitaryan.Secondo quanto riporta il Ministero della Difesa dell’Armenia da domenica si susseguono tentativi di incursione in territorio armeno da parte di soldati azeri e vengono sparati colpi di mortaio contro le abitazioni civili lungo il confine. Sarebbero morti quattro soldati armeni mentre i caduti azeri sarebbero almeno dodici. Per Baku la responsabilità degli scontri è in capo agli armeni. La diplomazia internazionale sta cercando di riportare la calma nella regione.

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L’Unione Armeni d’Italia condanna “l’aggressione dell’Azerbaigian contro la Repubblica d’Armenia” (opinione 17.07.20)

Riceviamo e pubblichiamo dall’Unione Armeni d’Italia.

Il 12 luglio 2020 un gruppo di soldati azeri, a bordo di un veicolo militare, ha tentato di penetrare nella zona nord-est del territorio armeno, nella provincia di Tavush, aiutato da un fuoco di sbarramento delle artiglierie azere, con l’intento di prendere la postazione tenuta dai giovani soldati di leva armeni.

In seguito alla risposta della parte armena, il folto gruppo di soldati azeri, appartenente alle truppe speciali del paese, ha dovuto ritirarsi, lasciando sul campo numerosi morti e feriti gravi, fra i quali un generale e un colonnello delle forze armate.

L’aggressione azera continua attraverso l’uso di artiglieria pesante, carri armati, bombardamenti mirati ai villaggi e alla popolazione civile armena.

Le forze armate azere, come è loro consuetudine, hanno schierato l’esercito vicino ad un insediamento di civili, circondando la propria popolazione con batterie di artiglieria e mettendola in pericolo. L’obiettivo era quello di provocare le forze armate armene, che in risposta alle provocazioni avrebbero sparato in quella direzione.

Dopo i tentativi della Turchia, importante alleata dell’Azerbaigian, di provocare instabilità nella regione, l’invocazione da parte degli azeri di una guerra contro l’Armenia rappresenta una grave mossa irresponsabile, oltretutto considerando la richiesta del Segretario generale delle Nazioni Unite per il cessate il fuoco globale per via della pandemia del Covid-19.

La tregua firmata fra le parti alla fine del conflitto del 1993, con la garanzia del gruppo di Minsk (Usa, Russia e Francia), viene costantemente violata dall’Azerbaigian da anni.

Parallelamente alla violazione sistematica della tregua e alla strumentalizzazione a fini provocatori della propria popolazione civile da parte dell’Azerbaigian, Paese che deve la sua ricchezza e il suo esercito ai proventi dei petrodollari, all’estero siamo costretti ad assistere a una rozza manipolazione delle notizie da parte di alcuni organi di stampa chiaramente schierati.

A proposito della sfera dei media internazionali, abbiamo assistito al lavoro di alcune testate giornalistiche che, cadendo nel tranello azero-turco, hanno cercato di ricostruire l’accaduto come se fossero stati gli Armeni ad attaccare per primi. Gli Armeni non sono interessati a territori azeri.

Desideriamo ribadire che gli Armeni sono un popolo pacifico, che rifiuta la violenza come arma di soluzione dei conflitti. Da sempre auspichiamo il coinvolgimento delle diplomazie per la salvaguardia della pace e per la soluzione giusta dei problemi del Caucaso.

Gli Armeni da anni sono vittime della politica distruttiva del nazionalismo turco ed oggi questa realtà ci viene imposta attraverso l’alleanza e la collaborazione con l’Azerbaigian.

Tutti questi avvenimenti ci ricordano che i sistemi autoritari, nei periodi di crisi, tentano di distogliere l’attenzione dei propri cittadini dalle questioni reali del proprio Paese, individuando il nemico da colpevolizzare, rappresentato spesso da un Paese vicino.

E ora, dopo più di un secolo di negazionismo del Genocidio Armeno da parte della Turchia, si è rafforzata la politica autoritaria del presidente Ilham Aliyev, tesa a mantenere la stabilità interna usando come collante l’odio contro il “Nemico Armeno”, da individuare in ogni parte del mondo e reprimendo ogni tipo di dissidenza.

Questo schema va ripetendosi ormai da un quarto di secolo a Baku. Un sistema fortemente corrotto istiga all’odio contro gli Armeni, rischiando di intaccare la stabilità di tutto il Caucaso.

In Azerbaigian, come in Turchia, questa centralizzazione del potere è resa possibile da una forte restrizione della libertà di espressione e di ogni altro tipo di libertà proprie della democrazia.

Negli ultimi anni la politica di aggressione verbale del presidente Aliyev si è tradotta in fatti concreti: il tentativo di invasione in questi giorni della Repubblica d’Armenia e nel 2016 del Nagorno Karabakh, territorio armeno da più di due millenni, con le sue città antiche, con le sue chiese e la sua gente autoctona. Siamo sinceramente stupiti nel vedere la mancanza da parte dei Paesi europei di interventi diretti ed efficaci tesi a frenare l’arroganza della dinastia Aliyev.

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Una nuova escalation intorno al Nagorno-Karabakh (pressenza.com 16.07.20)

Preoccupa la notizia, che raggiunge le agenzie internazionali, che vede migliaia di persone manifestare in Azerbaijan invocando la guerra contro la vicina Armenia. I manifestanti hanno marciato attraverso la capitale azera, Baku, chiedendo al governo di schierare l’esercito, invocando l’entrata in guerra del Paese, quando sale la tensione per i recenti conflitti al confine armeno, mentre frange radicali provano a rompere lo schieramento di forze dell’ordine, facendo irruzione in Parlamento. Migliaia i manifestanti, numerose le bandiere nazionali, intrise di nazionalismo e di chiamata alle armi le parole d’ordine, tra cui non solo quella di accelerare il dispiegamento delle truppe contro l’Armenia, ma anche di “riconquistare” il Nagorno-Karabakh, enclave armena in territorio azero, territorio conteso sin dagli anni del tramonto dell’URSS.

Il Nagorno-Karabakh, teatro di uno dei conflitti etno-politici per eccellenza degli anni a cavallo tra gli Ottanta e i Novanta del secolo scorso, «conflitto congelato», torna così sulla scena mondiale, torna a infiammare la regione e minaccia una nuova escalation del conflitto armeno-azero, animando manifestazioni come non si registravano da anni a questa parte, se è vero quanto riferito dalle diverse fonti giornalistiche, che hanno registrato, alle manifestazioni «per la guerra», la presenza di almeno ventimila persone, mentre altre fonti hanno assicurato la presenza di trentamila manifestanti. Negli scontri al confine armeno-azero degli ultimi giorni, i due Paesi si sono accusati reciprocamente di aver bombardato aree e infrastrutture civili al confine tra Tavush (Armenia nord-orientale) e Tovuz (Azerbaijan), ben più a Nord della regione contesa. Come riferito dalla stampa, almeno una decina di soldati azeri e un civile sono stati uccisi, secondo quanto riferito da fonti azere; quattro dei propri soldati sono morti, tra cui due ufficiali, secondo quanto riferito da fonti armene.

Uno scenario reso ancora più preoccupante dalla situazione regionale di tensione, che attraversa il Caucaso come non si registrava da tempo, e dalla situazione mondiale di allarme legata all’espansione della pandemia da coronavirus, che sempre più dovrebbe animare intesa e cooperazione tra tutti i Paesi del mondo per fare fronte alla minaccia comune dell’epidemia, mentre invece nuovi e vari focolai di conflitto si riaccendono. Anche in Azerbaijan, come in diversi altri Paesi, assembramenti e manifestazioni di massa sono vietati, nel tentativo di controllare la diffusione del coronavirus, nel contesto dell’attuale pandemia.

Come detto, sembra di tornare agli ultimi anni Ottanta e ai primi anni Novanta. L’Armenia e l’Azerbaijan erano repubbliche socialiste sovietiche, facenti parte dell’Unione Sovietica, sino alle proclamazioni di indipendenza e alle diverse separazioni nazionali che annunciarono e accompagnarono la fine dell’URSS, formalizzata nel 1991. Il progressivo smantellamento delle strutture istituzionali e amministrative dell’Unione, il venire meno dei legami di reciprocità e di solidarietà interni, insieme con l’accelerazione e l’aggravamento profondo della crisi economica e della crisi politico-istituzionale, ebbero come conseguenza, tra le altre, anche l’esplosione di conflitti e rivendicazioni di natura etno-politica, spesso dando luogo a distorte letture etnicistiche o etno-nazionali del ben più complesso e frastagliato processo di disgregazione dell’URSS. Così sul confine settentrionale e orientale, ad esempio nelle repubbliche baltiche, come in territorio caucasico, specie in Armenia ed Azerbaijan, il processo disgregativo trascese anche in veri e propri conflitti armati.

L’Armenia, a prevalenza cristiana, tra le chiese ortodosse orientali (la lingua armena mostra una ampia prossimità con il greco) e l’Azerbaijan, a larga maggioranza islamica, prevalentemente sciita (la lingua azera è strettamente legata al turco) entrarono in conflitto per la controversia del Nagorno-Karabakh, enclave armena in territorio azero, provincia autonoma in epoca sovietica, riconosciuto parte dell’Azerbaijan dal 1991, ma controllato dagli armeni; sebbene nel territorio dell’Azerbaijan, infatti, la maggioranza della popolazione locale è armena, e il soviet locale vi proclamò una repubblica autonoma nel settembre 1991.

Nel 1988, le truppe azere e le formazioni armene avviarono un conflitto che continua, con alterne vicende. La tregua del 1994, mediata dalla Russia, ha lasciato il Nagorno-Karabakh (Karabakh traduce l’espressione azera «giardino nero») sotto controllo armeno di fatto. Oltre un milione di persone sono state costrette alla fuga negli anni della guerra, la popolazione azera (il 25% del totale) è stata costretta ad abbandonare l’enclave, mentre le popolazioni armene fuggivano dal resto dell’Azerbaijan. L’escalation rischia ora di avere gravi ripercussioni regionali, persino su scala più ampia: la Russia ha fatto appello alla moderazione, il presidente turco Erdogan ha dichiarato che la Turchia non avrebbe esitato a difendere l’Azerbaijan.

Il tutto a poche settimane di distanza dall’appello del Segretario Generale delle Nazioni Unite, rivolto a tutti gli Stati, ad un cessate il fuoco globale, alla cessazione dei conflitti e alla moltiplicazione degli sforzi per la cooperazione internazionale nella stagione della pandemia. «In questo momento così critico, ripeto il mio appello a tutte le parti impegnate in conflitti armati nel mondo a cessare le ostilità. Insieme, dobbiamo impegnarci a costruire società più pacifiche, prospere e resilienti». Appena lo scorso 1 Luglio, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha approvato una risoluzione a favore di «una cessazione immediata delle ostilità in tutte le situazioni … per almeno novanta giorni consecutivi», in modo da garantire l’assistenza umanitaria alle popolazioni colpite dai conflitti e ai rifugiati, nonché contrastare la diffusione dell’epidemia.

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Il segretario stampa del ministero della difesa armeno Shusha Stepanyan ha annunciato la ripresa degli scontri al confine con l’Azerbaigian. (Sputniknews 16.07.20)

Il ministero della Difesa armeno Shusha Stepanyan ha scritto su Facebook della ripresa degli scontri al confine con l’Azerbaigian.

“Nella notte, alle 03:40 (01:40 ora di Roma), il personale militare delle Forze armate armene in prima linea ha notato il movimento del nemico. Sono passati alla difesa a tutto tondo, le unità armene hanno fermato un tentativo di penetrazione e di sabotaggio. Dopo una feroce battaglia, il nemico, che ha soffriva delle perdite, è stato respinto” ha scritto su Facebook.

Secondo Stepanyan, alle 04:20, le unità azere hanno iniziato a bombardare i villaggi di Aygepar e Movses, usando un obice D-30.

“Il fuoco d’artiglieria continua al momento. Le unità delle forze armate armene stanno neutralizzando le provocazioni delle forze armate azere”, ha detto Stepanyan, osservando che questa è stata la prima grande violazione del regime di cessate il fuoco, istituito da mezzanotte del 15 luglio.

Il Ministero della Difesa azero, da parte sua, ha confermato la ripresa degli scontri. È stato riferito che le forze armate armene hanno fatto un altro tentativo di attaccare posizioni nella regione di confine di Tovuz: i villaggi di Agdam, Dondar Gushchu e Vakhidli sono stati colpiti da armi e mortai di grosso calibro. Il dipartimento ha chiarito che nessuno è rimasto ferito tra la popolazione civile.

Lo scontro iniziato il 12 luglio sul confine armeno-azero continua per il terzo giorno nelle regioni adiacenti: Tovuz e Tavush, anch’esso al confine con la Georgia e situato a diverse centinaia di chilometri dal non riconosciuto Nagorno-Karabakh, dove la situazione è ora calma.

Nel luogo del bombardamento, ci sono postazioni di combattimento di stanza vicino al villaggio di Movses. Secondo Baku, sono stati uccisi 11 soldati azeri, compreso un generale. La parte armena ha annunciato due vittime e cinque feriti.

L’Azerbaigian e l’Armenia si addossano la colpa l’un l’altro per i bombardamenti reciproci. La comunità internazionale incoraggia le parti al dialogo. Il ministero degli Esteri russo ha dichiarato di essere pronto a fornire assistenza a Baku e Yerevan per stabilizzare la situazione.

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