Iniziativa in Campania per il 24 aprile: Giornata dedicata alla Memoria del Genocidio Armeno del 1915 (Cronachedellacamoania 22.04.20)

Il 24 aprile si commemora il 105° anniversario dell’inizio del primo genocidio del Novecento: il massacro del popolo armeno. A causa del Covid-19 e delle varie restrizioni, non potremo recarci al monumento del Khachkar (Croce di pietra) a S. Gregorio Armeno, a Napoli, inaugurato nel 2015. Invitiamo tutti ad esporre la Bandiera armena o la Bandiera nazionale listata a lutto dai balconi e ad accendere un cero in memoria degli oltre 1.500.000 Armeni massacrati. Il governo Turco continua a negare il genocidio, contro ogni evidenza oggettiva e storica.
La persecuzione scatenata tra il 1915 e il 1918 dall’allora potere turco nei confronti della popolazione armena residente in Anatolia e nel resto dell’Impero Ottomano rappresenta il primo esempio di sistematica e scientifica soppressione d’una minoranza etnico-religiosa dell’epoca contemporanea.

Scandalosamente, il massacro degli Armeni resta ancora fuori dalla lista europea dei Genocidi.
Dal 24 aprile 2006, il Presidente del “Comitato per il riconoscimento del Genocidio Armeno” dell’Associazione Internazionale Regina Elena, il Gr. Uff. Rodolfo Armenio, ha iniziato a commemorare il primo Genocidio del XX secolo, continuando negli anni con Gevorg Tovmasyan, uno dei responsabili della Comunità Armena della Campania, con cerimonie, convegni, mostre ed altre attività culturali, riallacciando il legame speciale creatosi nel settembre del 1920, quando a Pompei il Beato Bartolo Longo accolse un venerando superstite dell’Episcopato armeno, S.E.R. Mons. Giovanni Naslian (1875-1957), ultimo Vescovo di Trebisonda (1911-28) ed Arcivescovo titolare di Tarso degli Armeni.

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RICONOSCERE IL TRAUMA DEL GENOCIDIO ARMENO NON SMINUISCE L’OLOCAUSTO di Sivan Gaides (Gariwo 22.04.20)

Alcuni anni fa, in quanto soldato IDF che prendeva parte a un corso di formazione sulla costruzione dell’identità ebraica, ho partecipato a un tour dello Yad Vashem. Il sito commemorativo era stato appena ristrutturato ed era pieno di visitatori, per lo più anziani. La nostra guida di quel giorno, israeliana di origine svizzera, ha iniziato chiedendo con compiacimento al gruppo: “Avete sentito parlare di altri Sho’ot (Olocausti)?”

Soddisfatta del mio diritto di nascita in quanto israeliana di origine armena, ho alzato subito la mano e ho risposto sinceramente: “La Shoah armena”. La guida mi ha risposto con uno sguardo penetrante: “E pensa che sia la stessa cosa?”. Non si aspettava una risposta e ha proseguito con il tour.

Appena uscita dall’adolescenza, essere respinta pubblicamente davanti ai miei coetanei da una figura autorevole è stato umiliante. Inutile dire che, dopo quell’infausto inizio del tour, non ho più prestato attenzione alla guida e ho vagato per il museo, da sola con i miei pensieri.

Mi ci sono voluti anni per comprendere appieno quell’episodio allo Yad Vashem. L’insistenza della guida sul fatto che nulla potesse essere paragonato alla nostra Shoah nascondeva una verità più profonda e ironica: per chi sopravvive ai traumi, gli schemi della memoria sono molto più simili di quanto lei – o io – potessimo mai capire.

Sappiamo che nessuna figura accademica o politica credibile nega l’Olocausto. D’altro canto, la maggior parte dei Paesi si sottrae a una ferma presa di posizione sul genocidio armeno, e solo pochi lo hanno classificato come genocidio. Tale discrepanza fra il primo genocidio del ventesimo secolo in Europa e il genocidio più mortale è tutt’altro che casuale.

Venerdì 24 aprile è la giornata commemorativa delle vittime del genocidio armeno e quest’anno cade nella stessa settimana del Giorno della Memoria dell’Olocausto d’Israele, lo Yom HaShoah.

Il genocidio armeno viene commemorato il giorno che segna l’inizio del genocidio. Il 24 aprile 1915, le autorità ottomane hanno arrestato oltre 200 dei principali intellettuali armeni di Costantinopoli, che sono stati poi deportati e la maggior parte degli stessi uccisa.

La comunità internazionale sceglie invece di ricordare l’Olocausto il 27 gennaio, data che ne segna la fine: la liberazione di Auschwitz da parte dell’esercito sovietico nel 1945. A Israele, il Giorno della Memoria dell’Olocausto è il 27 Nisan del calendario ebraico, che segna l’anniversario dello scoppio della rivolta del ghetto di Varsavia del 1943, incarnazione dell’eroismo e della resistenza degli ebrei di fronte alla distruzione.

Il 24 aprile arriva senza alcun messaggio di speranza o di resistenza. La scelta della data riguarda solo le vittime, la pietra angolare su cui da allora è stata costruita la memoria del genocidio armeno.

Gli armeni si sono aggrappati alla tesi delle vittime perché non avevano i mezzi per la commemorazione a disposizione degli ebrei a livello mondiale. Le organizzazioni comunali ebraiche, i singoli filantropi e i governi occidentali hanno investito enormi somme per costruire monumenti commemorativi e musei dell’Olocausto, gestire archivi, pubblicare libri e condurre ricerche.

Attraverso lo Stato d’Israele, istituito poco più di tre anni dopo la liberazione dell’ultimo dei campi di concentramento nazisti, il ricordo dell’Olocausto ha trovato un sostenitore ufficiale negli ambienti diplomatici. Mentre le potenze mondiali che sostenevano la creazione d’Israele lo facevano principalmente per promuovere i propri interessi in Medio Oriente, la loro retorica pubblica parlava in modo commuovente della necessità di rimediare ai torti storici inflitti al popolo ebraico. Generazioni di leader israeliani hanno ricordato alle proprie controparti l’obbligo di ricordare e di continuare a ricordare.

Al popolo armeno sono mancati questi strumenti. Le prove primarie del genocidio sono più scarse e meno accessibili. A differenza della Germania nazista, che registrava le informazioni in modo metodico e rigoroso, l’indebolimento dell’Impero Ottomano funzionava a malapena e non concentrava i documenti in archivi centralizzati. Non c’è stata una conferenza ottomana di Wannsee in cui il genocidio armeno sia stato meticolosamente pianificato.

Le autorità turche hanno in gran parte nascosto il restante materiale d’archivio alla vista pubblica, e lo Stato turco non si è mai assunto la responsabilità del genocidio – a differenza della Germania, per la quale l’assunzione della responsabilità dell’Olocausto era una condizione fondamentale per l’accettazione della stessa nella famiglia delle nazioni.

I sopravvissuti hanno conservato ampie prove del genocidio, fra cui fotografie, video e testimonianze scritte e orali. Ma per gli armeni emigrati nel mondo occidentale, ci è voluto del tempo per accumulare un capitale sociale e finanziario sufficiente a promuovere la memoria pubblica. Gli armeni rimasti in Unione Sovietica hanno dovuto affrontare una decennale campagna di russificazione volta a offuscare le particolari identità e storie delle minoranze nazionali.

Solo dopo che la Repubblica d’Armenia ha dichiarato l’indipendenza nel 1991, più di 75 anni dopo il genocidio, un governo armeno ha potuto agire come custode della memoria del genocidio. Ma l’Armenia post-sovietica era un Paese povero, incentrato sulla difficile transizione verso un’economia di libero mercato e preoccupato dalla prolungata guerra del Nagorno-Karabakh con il vicino Azerbaigian. Solo a partire dagli anni 2000 lo Stato armeno si è stabilizzato e ha iniziato a dedicare risorse significative alle campagne di pubbliche relazioni sulla commemorazione del genocidio.

Nella Diaspora, la personalità mediatica armeno-americana Kim Kardashian West ha pubblicizzatole visite al Museo del Genocidio Armeno di Yerevan e ha elogiato il riconoscimento del genocidio da parte del Congresso degli Stati Uniti di fronte ai suoi milioni di follower. La mobilitazione di Kardashian West sulla questione è particolarmente degna di nota nel contesto dell’Olocausto, cui negli anni non è mancato il sostegno di molte celebrità.

Il genocidio armeno e l’Olocausto non sono stati perpetrati indipendentemente l’uno dall’altro. Si dice che Hitler abbia detto ai comandanti della Wehrmacht, alla vigilia dell’invasione tedesca della Polonia nel 1939, di non preoccuparsi delle conseguenze dell’uccisione di civili innocenti, poiché “Chi, dopo tutto, parla oggi dell’annientamento degli armeni?”

Tra coloro che hanno parlato, sia con i fatti che con le parole, figurano le undici persone e famiglie armene riconosciute dallo Yad Vashem come Giusti tra le Nazioni – per lo più sopravvissuti al genocidio, che hanno ricostruito le proprie case in tutta Europa e hanno riconosciuto il proprio obbligo di aiutare gli indifesi.

Io discendo da sopravvissuti all’Olocausto da parte di mio padre e da sopravvissuti al genocidio armeno da parte di mia madre. Il trauma transgenerazionale e il profondo senso di sradicamento sono altrettanto forti in entrambi i casi. Quando una persona è colpita da un trauma, spesso può aiutarla ascoltare persone con esperienze simili e rivendicare l’esclusività del trauma non aiuta nessuno.

Eppure, mentre l’educazione all’Olocausto è considerata il punto di riferimento per un’educazione storica responsabile in tutto il mondo sviluppato, i discendenti dei sopravvissuti al genocidio armeno devono ancora lottare perché il genocidio sia riconosciuto come tale. Come ho scoperto a Yad Vashem, anche gli educatori dell’Olocausto, che fanno un lavoro eccezionale nello spiegare un trauma, devono essere formati per comprendere ed empatizzare con altri traumi.

Data la quantità di informazioni facilmente reperibili sul genocidio che esiste nell’era degli smartphone, commemorare le sue vittime non dovrebbe più essere responsabilità esclusiva dei sopravvissuti e dei loro discendenti, vincolati come sono da una serie di fattori geopolitici, economici e circostanziali.

Sia visitando la Biblioteca Gulbenkiannella Città Vecchia di Gerusalemme, che ospita uno dei più grandi depositi di materiale sul genocidio al mondo, sia incoraggiando i consigli scolastici locali a insegnare la materia nei programmi di storia, le persone hanno molto potere per cambiare la narrazione attraverso iniziative che partono dal basso.

Il 24 aprile non deve solo raccontare una storia di vittime, ma può anche testimoniare la sopravvivenza e la rigenerazione culturale, ed essere parte di una storia universale che, per gli israeliani, dovrebbe essere particolarmente eloquente.

Sivan Gaides è nata in Armenia da padre ebreo e madre armena, e ha fatto l’aliyah con la sua famiglia nel 1990. Ha conseguito una laurea e un master in Scienze Politiche presso l’Università Ebraica di Gerusalemme e si occupa di educazione ebraica da vent’anni, lavorando anche come emissaria dell’Agenzia Ebraica in Germania e in India. Vive a Tel Aviv.

Traduzione di Valentina Gianoli dell’articolo pubblicato sul quotidiano Haaretz

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Negare il genocidio armeno: un delitto contro l’umanità (Laici.it 21.04.20)

Di Bruno Scapini

L’approssimarsi del 24 aprile, inevitabilmente ci porta a svolgere una riflessione sul genocidio degli armeni del 1915, la cui memoria ricorre puntualmente e, ahimé, tristemente, ogni anno a quella data. Di questo deplorevole evento della Storia si è già molto parlato. Si è discusso sulle sue connotazioni storiche e storiografiche; si è denunciato il crimine in tanti modi, sul piano sociale, etnico, religioso e politico; lo si è reso oggetto di una copiosissima letteratura biografica e autobiografica, come anche tema di ben note produzioni cinematografiche; e si sono biasimati i suoi autori per la loro crudeltà e infamia. Ma c’è un aspetto sul quale vorrei concentrare ora il mio pensiero e sul quale non si è ancora dibattuto abbastanza: l’importanza di condannare il negazionismo sul genocidio armeno come un reato contro la buona fede. Molti progressi sono stati registrati, negli ultimi decenni, a riguardo del riconoscimento del genocidio come tale, ovvero quale crimine contro l’umanità e, sopratutto, dalla data di nascita della moderna Armenia. La tenacia del popolo armeno e la determinazione dei padri fondatori della nuova Repubblica di Armenia a conseguire l’obiettivo del riconoscimento, traspaiono chiaramente dai principi fondamentali della Dichiarazione di indipendenza del 1990, là ove il documento si fa portavoce di una storica responsabilità della nazione armena: quella di restaurare la giustizia storica. Un obiettivo che si pretende di realizzare, proprio attraverso il riconoscimento del genocidio a livello internazionale, mantenendone la memoria storica. Ed ecco il senso di questa commemorazione. Essa dev’essere un atto di perpetuazione del ricordo, che deve servire sì a onorare le tante vittime dell’eccidio, ma anche e, sopratutto, a contribuire al riconoscimento del ‘Grande Massacro’ come crimine contro l’umanità: un genocidio, per l’appunto. E’ questo, a dispetto della miope visione dei negazionisti, l’unico modo per restituire la giusta dimensione storica e politica al tragico evento del 1915. Purtroppo, però, sebbene siano tante, ad oggi, le iniziative di riconoscimento intraprese da Governi e da altre entità politiche, l’identità storica degli armeni è ancora menomata dall’assenza di una universalità del riconoscimento. Tanti sono ancora i Governi che esitano a intraprendere questo passo, alimentando in questo modo quell’odioso fenomeno che passa per l’appunto sotto il nome di ‘negazionismo’. Primo fra tutti, il Paese autore del crimine: la Turchia. Ma tanti altri seguono più o meno direttamente questa linea. Nonostante una crescente mobilitazione di animi e di pensieri che si registra oggi nel mondo, ancora troppi sono i Governi che si astengono dal pronunciare chiaramente la fatidica parola, ‘genocidio’, parlando di questo massacro. E non stupisce, in una stretta logica di convenienza politica, scoprire come questi Paesi, pur dichiarandosi insospettabili campioni delle libertà e dei diritti umani, non abbiano ancora trovato il coraggio di opporsi alla fraudolenza di certi ‘concettivismi riduzionistici’, spuri e, pertanto, pericolosi. E’ la logica dell’opportunismo politico quella che prevale. Non illudiamoci: per gettare fumo negli occhi e ostentare un attivismo umanitario ipocrita e quanto mai dannoso, non mancano i politici che, sfuggendo alle proprie responsabilità, inducono subdolamente i rispettivi parlamenti ad adottare mozioni ideali sul genocidio armeno, con le quali si invitano i rispettivi Governi al riconoscimento, salvo poi rinviare ‘sine die’ il provvedimento, in forza di un odioso silenzio e inerzia di questi ultimi. Per non procedere al riconoscimento, infatti, ci si appoggia a pretestuose giustificazioni offerte da fatti imprevisti, più impellenti, o peggio, se ne decreta l’oblio, aspettando la decadenza della legislatura. Come qualificare un tale atteggiamento? Non dovremmo, forse, in uno slancio non tanto di aderenza alla Storia, quanto di fedeltà alla ‘buona fede’, equipararlo all’atto stesso del negazionismo, sebbene opportunamente camuffato, e accertarci che esso stesso venga condannato come reato? E non sarebbe forse proprio questo un delitto contro l’umanità? Non è forse la frode, l’atto ingannevole, l’essenza di uno dei più antichi principi dello ‘jus gentium’ di romana memoria? Justitia, veritas e fides: già Cicerone esaltava a fondamento di quel ‘Jus naturae’, dal quale tutti gli ordinamenti positivi odierni avrebbero tratto il fondamento per la regolazione dei rapporti umani ispirandosi alla ‘Naturalis Ratio’ e concepire il tanto acclamato oggi diritto umanitario. Sono, dunque, quelli i princìpi, già presenti nei nostri moderni ordinamenti. E probabilmente, basterebbe rispolverarli. Sì, riscoprirli e dichiararli apertamente, con coraggio, per restituire finalmente giustizia e dignità alle vittime armene, per uno dei più deprecabili crimini contro l’umanità. E fino a quel giorno, ricordiamocelo pure, il processo di restaurazione dell’identità storica della nazione armena di certo non potrà dirsi completato. Per fortuna, la tenacia e la determinazione dimostrate dal popolo armeno sono più forti di ogni negazionismo.

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Comunità armena Roma: iniziative in rete per ricordare il 105° anniversario del genocidio. “Memoria antidoto al negazionismo” (SIR 21.04.20)

“Il tempo passa, la memoria resta”: è sotto questo slogan che il “Consiglio per la comunità armena di Roma” ha lanciato un evento in rete per ricordare il 105° anniversario del genocidio armeno, 24 aprile 1915 – 24 aprile 2020. Il prossimo 24 aprile ricorre, infatti, l’anniversario dell’inizio delle uccisioni e deportazioni di massa a danno della minoranza armena nell’impero ottomano. L’emergenza coronavirus impedisce qualsiasi manifestazione pubblica a ricordo del primo genocidio del XX secolo così il “Consiglio per la Comunità armena di Roma” ha di conseguenza promosso una serie di iniziative ad hoc: nei giorni scorsi è stato pubblicato sulla pagina facebook della comunità (www.facebook.com/comunitaarmena) un logo creato ad hoc per il 105° anniversario del MedzYeghern con invito a condividerlo, come segno di vicinanza e partecipazione. Due giorni prima dell’evento previsto per il 24 aprile sarà lanciata, sempre sulla piattaforma facebook, una breve clip video. A partire dalle ore 10.30 di giovedì 23 aprile saranno trasmessi in Video Party sempre sulla pagina facebook della comunità, documentari, filmati e contenuti multimediali sul mondo armeno.
Nella giornata del 24 aprile la pagina fb “Comunità armena” trasmetterà in diretta, a partire dalle ore 15.00 testimonianze, interviste, contributi e riflessioni sul tema. “Lo scorso anno il parlamento italiano ha approvato una storica risoluzione di riconoscimento del genocidio armeno”. Sulla scia di tale pronunciamento, il Consiglio per la comunità armena di Roma si augura che “l’opinione pubblica italiana sia sempre più partecipe nel ricordo della tragedia del 1915. L’antidoto al negazionismo è la memoria. Contro il virus del negazionismo gli anticorpi della memoria”.

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La video-arte di Cerami unisce Napoli, l’Armenia e il Brasile (Corrieredelmezzogiorno 18.04.20)

Anche durante le pagine più severe della storia nazionale, l’Italia ha saputo produrre arte e regalare bellezza al mondo intero. La crudeltà con la quale la pandemia del coronavirus continua a sferzare la popolazione non ha arginato la vivacità e la creatività degli italiani. I balconi e le finestre si tingono del tricolore, l’intonazione dell’Inno di Mameli infonde forza e fiducia, il canto e la musica strappano un sorriso. “#andrà tutto bene” è l’hasthag divenuto virale sulla rete.

«Attraverso l’arte, la speranza si ribella ai fatti del dolore, li attraversa, ci porge al tempo stesso una direzione di marcia e un orizzonte – ha detto l’ambasciatore italiano in Armenia, Vincenzo Del Monaco – anche noi, dall’ambasciata d’Italia a Jerevan, vogliamo contribuire ad un messaggio di fiducia e anche noi lo facciamo attraverso l’arte, all’interno dell’iniziativa davvero straordinaria promossa dalla Farnesina, dal titolo “WeAreItaly”».

Il progetto è di Franz Cerami, vera e propria star internazionale della video arte. Si intitola Remix Portrait, poiché esso reinterpreta l’arte classica italiana restituendola alla collettività tramite videoproiezioni pubbliche. I ritratti dei grandi maestri del XV secolo si materializzano sui muri delle città di Jerevan, Napoli e San Paolo del Brasile, diventando tutt’uno con il tessuto urbano. Il tema è altamente simbolico, giacché al suo centro vi è il concetto del passaggio dal buio alla luce, ad esempio dal buio sociale di certe periferie ai riflettori che su di esse pone l’artista, trasformandole da luoghi di passaggio in vere e proprie mete.

«Il maestro Cerami ha sposato senza esitazione e con grande generosità l’idea di sviluppare pro-bono il progetto e di metterlo a disposizione della rete, nel segno della solidarietà – ha detto l’ambiascatore – ecco dunque che Remix Portrait ci accompagna lungo un viaggio che si dipana da Jerevan, per intrecciare Napoli e collegarsi a San Paolo. Un’opera dei due mondi! Mi auguro che in molti sul web possano apprezzare questa iniziativa, al tempo stesso di solidarietà e nel segno dell’arte».

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Armenia: premier Pashinyan ai cittadini, “diffusione del coronavirus sotto controllo” (Agenzia ova 18.04.20)

Erevan, 18 apr 09:50 – (Agenzia Nova) – La diffusione del coronavirus resta sotto controllo in Armenia, grazie agli sforzi del sistema sanitario e della pubblica amministrazione. Lo ha dichiarato il premier armeno Nikol Pashinyan, nel corso di una conferenza stampa rivolta ai cittadini, ripresa dall’agenzia di stampa “Armenpress”. “Circa metà degli spazi ospedalieri allestiti per i contagiati da coronavirus sono rimasti vuoti durante questo periodo”, ha detto il capo del governo. Secondo Pashinyan, ciò è un indicatore chiave della gestione della pandemia, “perché molti paesi hanno avuto situazioni di difficoltà, perché non avevano abbastanza posti in ospedale per i pazienti di Covid-19”. Pashinyan ha poi ringraziato i medici e i lavoratori del sistema sanitario, “che sono in prima linea nella lotta contro la pandemia, e non hanno potuto vedere i loro familiari per settimane”. In Armenia, ha aggiunto il premier, ci sono oltre 1.200 casi confermati, con 402 pazienti ricoverati e 19 decessi al momento. “Per molti paesi l’Armenia è un esempio di come sia necessario trattare i propri cittadini nei periodi di difficoltà e crisi”, ha concluso Pashinyan.
(Res)

Nagorno Karabakh, nuovo presidente de facto (Osservatorio Balcani e Caucaso 17.04.20)

Il 14 aprile scorso si è votato in Nagorno Karabakh per il secondo turno delle presidenziali. L’ex primo ministro Arayik Harutyunyan, sarà il nuovo presidente de facto. Il voto non è riconosciuto fuori dai confini dell’Armenia ed è ritenuto illegale dal vicino Azerbaijan

17/04/2020 –  Marilisa Lorusso

In 47.165 – cioè il 45,01% degli aventi diritto – hanno votato al secondo turno per le presidenziali in Nagorno Karabakh. Al primo turno, che era accorpato alle politiche, l’affluenza era stata più del 70%. Effetto Covid 19, sicuramente, tanto è vero che fra i votanti non si è presentato nemmeno l’altro candidato in lizza, che aveva invitato a non andare a votare per evitare il propagarsi della pandemia.

Il quadro politico post-elettorale

Secondo il conteggio dei voti finora disponibile, in attesa della pubblicazione definitiva dei risultati il 21 aprile, Arayik Harutyunyan, ex primo ministro (2007-2017), ministro di Stato (2017-2018), leader del partito Patria Libera è stato eletto Presidente con l’84,5% dei voti (39.860 voti) mentre Masis Mayilyan, ex ministro degli Esteri, ha ricevuto il 12,1% dei voti (5.428 voti).

Arayik Harutyunyan è un oligarca locale, con una vasta gamma di interessi commerciali nel territorio nel settore bancario, agricolo ed energetico, e secondo alcuni era l’uomo su cui puntava il primo ministro armeno Nikol Pashinyan. Un voto importante per l’Armenia: come avevamo già detto su queste pagine, non tutti i candidati si erano espressi a favore della nuova leadership e della rivoluzione di velluto a Yerevan.

I due candidati del secondo turno avevano comunque sottolineato il loro sostegno a Pashinyan.

Harutyunyan aveva in particolare dichiarato  : “Tutte le forze che oggi mettono in discussione le azioni delle autorità armene, in particolare del primo ministro, in relazione alla questione del Karabakh […] sono disfattiste, cospiratrici”.

Insomma, una nuova armonia dopo l’inusuale tensione post-rivoluzionaria: è infatti in Karabakh che la vecchia élite armena, caduta in disgrazia con la rivoluzione di velluto, ha il proprio bastione di resistenza e questo ha creato negli ultimi due anni non poche tensioni  .

Immediate le congratulazioni di Pashinyan  che rivolgendosi al neo-eletto presidente ha commentato: “Lei ha ricevuto un mandato dal popolo dell’Artsakh [Nagorno-Karabakh in Armeno] per rafforzare la sicurezza dell’Artsakh, per sviluppare l’economia e costruire una società basata sui valori democratici, sui diritti umani e sulle libertà fondamentali. A tal fine, ha adottato un programma volto all’attuazione di riforme profonde e sistematiche nella pubblica amministrazione, in ambito economico, politico, giudiziario e di altri aspetti della vita pubblica. Può contare sul sostegno del governo dell’Armenia e mio personale in questo processo”.

Unanime il non riconoscimento del voto, fuori dai confini dell’Armenia. Durissima la condanna dell’Azerbaijan  che denuncia l’illegalità delle elezioni.

Nonostante la condanna internazionale, dopo il voto nell’entità de facto nascerà un nuovo governo coerente politicamente con la nuova presidenza anche se il Partito della Patria Libera di Harutyunyan, in alleanza con il Partito dell’Alleanza Civica Unito, ha ottenuto sì il maggior numero di seggi (16, con il 39,7% dei voti), ma non abbastanza per formare un governo di maggioranza. Già in una conferenza stampa il 1° aprile scorso Harutyunyan  aveva annunciato di essere pronto a parlare con gli altri quattro partiti che hanno ottenuto seggi in parlamento per formare una coalizione.

La situazione Covid 19 in Nagorno-Karabakh

Sul tema Covid 19 fra il primo e il secondo turno qualcosa è cambiato in Nagorno Karabakh. Da zero casi di contagio si è passati nel giorno del voto a 6, con il primo caso registrato il 7 aprile. Il 13, il giorno prima del voto, le autorità della vicina Armenia avevano esteso lo stato di emergenza nel paese fino al 14 maggio. Il Presidente de facto uscente Bako Sahakyan il 12 aprile ha firmato un decreto con cui ha dichiarato lo stato di emergenza nel paese sulla base degli articoli 93 (disposizione 20) e 133.1 della Costituzione della Repubblica di Artsakh. Quindi si è potuto andare a votare, ma con il modulo di autocertificazione. Gli elettori si sono dimostrati reattivi e consapevoli del rischio, e non a caso a Mirik, dove è stato confermato il primo caso, l’affluenza alle urne è stata particolarmente bassa con solo il 10% degli aventi diritto che si sono presentati alle urne.

La missione d’osservazione elettorale armena non si è recata in Karabakh per il secondo turno. Troppo alto il rischio di contagio, con l’Armenia che ormai supera il migliaio di contagi e le vittime che si contano in due cifre.

Lo sforzo diplomatico ai tempi del COVID

Non vi è dinamica che si salva dalla pandemia, neanche il processo di pace. Ed è così che nonostante le tensioni di cui abbiamo già parlato non è possibile tornare alla prassi che accompagna il processo di mediazione per la soluzione pacifica del conflitto in Nagorno Karabakh.

I monitoraggi del team dell’OSCE lungo la linea di contatto sono sospesi, e buona parte delle delegazioni soprattutto non governative hanno lasciato non solo il Karabakh, ma tutto il Caucaso. Nell’esodo di cittadini verso i loro paesi di origine sono venute a mancare professionalità e ruoli importanti per le zone di conflitto. In questo periodo sospeso, in cui i problemi non sono risolti ma sono scomparsi i facilitatori di eventuali soluzioni, la diplomazia cerca di rimanere viva con i mezzi telefonici e digitali.

I contatti non si interrompono, come ha commentato il ministro degli Esteri armeno  : “La priorità è mantenere il cessate il fuoco. Anche se il normale ritmo di lavoro è in qualche modo interrotto in queste condizioni. Al momento non ci sono incontri, ma siamo in costante contatto con i Co-presidenti e il Rappresentante dell’OSCE per la Presidenza in carica. […] Apprezziamo gli sforzi volti a preservare il proseguimento del processo di pace”.

I Co-presidenti citati sono gli ambasciatori francese, russo e americano che costituiscono il Gruppo di Minsk, che dovrebbe portare alla conferenza di Minsk per la soluzione politica del conflitto, progetto rimasto sulla carta fino ad oggi nonostante il lavorio diplomatico del trio che dura da anni, con mandato dell’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa. Ogni presidenza a rotazione dell’Osce nomina poi un Rappresentate per il conflitto, e c’è appunto un team che staziona, in condizioni normali, permanentemente nella regione.

Il nuovo governo de facto dovrà probabilmente aspettare diverso tempo prima che si ritorni alla routine diplomatica della mediazione del conflitto. Nel frattempo c’è da sperare che prevalga la consapevolezza delle dimensioni della sfida in corso perché le armi e le lingue si fermino, e che quindi nessuna provocazione possa sabotare lo sforzo che deve essere per forza comune.

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Mkhitaryan: “Non mi rilasso, pronto a soffrire per la Roma” (Leggo.it 16.04.20)

Voglia di ricominciare. Ce l’ha pure Mkhitaryan che aveva appena iniziato a trovare la giusta continuità con la maglia della Roma dopo una serie di infortuni. Tre gol e 3 assist nelle ultime cinque partite di campionato prima della sosta imposta dal coronavirus. L’armeno sta vivendo nella capitale l’isolamento forzato a ma a fine stagione potrebbe tornare all’Arsenal. Troppo alto lo stipendio, troppo alte le richieste del club inglese a meno che l’agente Raiola non ottenga il prolungamento del prestito. Per ora Miki pensa solo a tornare in campo. “È difficile rilassarsi restando sempre nello stesso posto. L’obiettivo è riuscire a rimanere calmi e rilassati, accettare la situazione e concentrarsi sui prossimi passi. Sappiamo bene che la situazione non tornerà alla normalità rapidamente e che avremo bisogno di ulteriori settimane di lavoro per riprendere a giocare. C’è voglia di ripartire, ma al primo posto deve esserci la sicurezza di tutti”, ha ribadito in un’intervista-chat sui social. L’armeno è diventato da poche settimane papà e ha quindi parecchio da fare in casa: “Passo il lockdown nel mio appartamento e la maggiore del tempo va via con mio figlio. Quando c’è bel tempo e non si può uscire per fare una passeggiata è un peccato. Peccato anche non avere un giardino per stare un po’ di tempo all’aperto, ma mi consolo con Netlifx. Vedevo tanti film prima, ora ne vedo ancora di più. Con noi ci sono anche mia madre e mia suocera. Erano venute per la nascita di Hamleth, poi è iniziata questa emergenza e sono rimaste qui. In Armenia la situazione sembra sotto controllo”. E sui problemi legati agli allenamenti: “E’ una situazione diversa dal solito ma stiamo andando avanti con il lavoro. Il club ci segue costantemente, inviandoci anche l’attrezzatura necessaria. Abbiamo un programma da seguire e stiamo lavorando duro. Visto che dentro casa non riesco a correre sto utilizzando molto la cyclette”. In attesa del ritorno a Trigoria previsto per ora al 4 maggio.

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Mkhitaryan: “La Roma ci segue costantemente, stiamo lavorando duro anche da casa (insideroma.com 16.04.20)

La società giallorossa, tramite Whatsapp, ha intervistato Henrikh Mkhitaryan.. Queste le sue parole:

Ciao Micki, come va? (Posso chiamarti Micki sì?)
“Ciao! Come no? Mi chiamano tutti così! Qui tutto bene, è strano non avere la possibilità di uscire ma spero che tutto passi presto e che non succeda più”.

Come stai affrontando il lockdown?
“Sono qui, nel mio appartamento. Quando c’è bel tempo e non si può uscire per fare una passeggiata è un peccato. Peccato anche non avere un giardino per stare un po’ di tempo all’aperto. Ma bisogna restare a casa, questa è la cosa più importante da fare in questo momento”.

Però sei diventato papà da poco, complimenti!
“Grazie!”.

L’aspetto positivo almeno è che puoi passare tanto tempo insieme al piccolo Hamlet
“Sì, da questo punto di vista sono stato fortunato. Passare tutto questo tempo con la mia famiglia e con lui è la cosa migliore del mondo”.

Chi altro c’è a casa con voi?
“Con noi ci sono anche mia madre e mia suocera. Erano venute per la nascita di Hamleth, poi è iniziata questa emergenza e sono rimaste qui. Ed è un piacere per noi”.

Sei sempre aggiornato sulla situazione dei tuoi familiari e amici in Armenia?
“Sì, seguiamo costantemente le notizie da lì e gli aggiornamenti dei nostri amici. Anche in Armenia ci sono stati casi di Covid-19, ma la situazione è ancora sotto controllo e spero che si mantenga così. Abbiamo valutato se per qualcuno di noi fosse il caso di tornare in Armenia, ma poi abbiamo deciso che era meglio che nessuno si muovesse. Tutti dobbiamo fare la nostra parte”.

Come vanno gli allenamenti?
“Bene, ovviamente è una situazione diversa dal solito ma stiamo andando avanti con il lavoro. Il Club ci segue costantemente, inviandoci anche l’attrezzatura necessaria. Abbiamo un programma da seguire e stiamo lavorando duro. Visto che dentro casa non riesco a correre sto utilizzando molto la cyclette”.

A livello psicologico quanto è faticoso questo periodo?
“È difficile rilassarsi restando sempre nello stesso posto. L’obiettivo è riuscire a rimanere calmi e rilassati, accettare la situazione e concentrarsi sui prossimi passi. Sappiamo bene che la situazione non tornerà alla normalità rapidamente e che avremo bisogno di ulteriori settimane di lavoro per riprendere a giocare. C’è voglia di ripartire, ma al primo posto deve esserci la sicurezza di tutti”.

In che modo provi a rilassarti?
“Beh, per prima cosa c’è Hamlet da seguire. Poi c’è Netflix, sto guardando un sacco di film. Già ne vedevo molti, ora ancora di più”.

Che tipo di film vedi? E in che lingua?
“Vedo qualche film armeno, anche se quelli non si trovano su Netflix. Come lingua scelgo spesso il russo e l’inglese. Per l’italiano ancora non sono pronto, faccio fatica senza aggiungere i sottotitoli. Provo a seguire le notizie e i canali TV in italiano per migliorare il mio livello, ma per quanto riguarda i film faccio molta più fatica a capire”.

Tutti si sono accorti di quanto tu sia bravo con le lingue. Immagino che avrai tante chat aperte sul telefono in tante lingue diverse…
“Sì, cambio molto spesso la lingua in cui scrivo i messaggi di chat in chat”.

E questo non fa impazzire il correttore del telefono?
“Il mio cervello più che il correttore! Spesso mi trovo a non ricordare come si dice una parola nella lingua in cui sto scrivendo, mentre mi vengono in mente tutte le altre traduzioni”.

Quali sono i temi che ricorrono in questi giorni nelle differenti chat e nei gruppi?
“Principalmente aggiornamenti che riguardano il virus e le ipotesi su quando potremmo tornare ad allenarci. E poi girano un sacco di meme. Tutti li riceviamo e inviamo”.

Hai un esempio?
(Mkhitaryan invia un meme che ritrae un padre seduto comodamente sul divano e suo figlio neonato appeso al muro con una cinta di scotch, ndr). Questo fa ridere ma non riflette realtà. Hamlet ci tiene occupati parecchio ma è la normalità. A volte è difficile capire perché un bambino sta piangendo!”.

Con la spesa come va?
“Bene, ovviamente è più difficile del solito ma accompagno io in macchina mia madre o mia suocera al supermercato a prendere ciò di cui abbiamo bisogno”.

Grazie Micki, speriamo di rivederci presto a Trigoria!
“Grazie a te, a presto e stay safe!”.

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A Palermo c’è un gioiello nascosto ma abbandonato: una chiesetta in pieno centro (Balarm.it 15.04.20)

Diecimila è un numero spropositato per dei martiri. Eppure, benché non abbia fondamenti storici, all’incirca dal XIII secolo la leggenda dell’esercito composto da diecimila martiri giustiziati presso il monte Ararat in Armenia insieme al loro condottiero romano Acacio ha dato vita al loro culto religioso, che si commemora il 22 di giugno.

Tradizione rappresentata da diverse opere cinquecentesche conservate a Firenze e dal famoso dipinto di Dürer custodito nel Museo Nazionale di Vienna. Si racconta che, sotto gli imperatori Adriano ed Antonino Pio, nel II secolo d.C., Acacio fu inviato in Armenia insieme a novemila soldati, per sedare una rivolta nemica. Ma l’esercito romano non si aspettava di combattere contro centomila uomini.

Inizialmente spaventati per l’immane squilibrio di forze, i soldati imperiali furono rassicurati dall’apparizione di un angelo che li invitò a combattere in nome di Cristo per ottenere la vittoria. Dopo il successo della battaglia, furono battezzati sul monte Ararat. Ma gli imperatori romani, avendo appreso della loro conversione, intervennero per farli abiurare. Non riuscendo nel loro intento, li fecero torturare tremendamente in svariati modi: lapidazione, flagelli e obbligo di camminare su punte acuminate.

Ma nessun supplizio fu portato a termine nei loro confronti, poiché ogni volta furono salvati dagli angeli. Vedendoli uscire incolumi, altri mille uomini vollero convertirsi ed unirsi a loro, raggiungendo così il numero di diecimila. Diecimila che però non sfuggirono al loro destino, diventando martiri sullo stesso monte Ararat, dopo aver subito gli stessi tormenti di Cristo, compresa la crocifissione.

A Palermo, in via Francesco Raimondo quasi di fronte alla chiesa di S. Agostino, esiste ancora una chiesa (oratorio, secondo il Mongitore) dedicata ai Diecimila martiri. Un edificio sconsacrato e chiuso da tempo, di cui si può solo notare l’esterno, risultato di un rifacimento del XVII secolo, sul cui portale si trova un medaglione in stucco di S. Acacio dentro ad un timpano, sovrastato prima da una finestra ed infine da una loggetta.

Completano il tutto due tondi laterali decorati con le palme, simboli del martirio. La sacra fabbrica fu voluta, alla fine del XVI secolo, dalla Compagnia dei Diecimila Martiri, che era sorta nel 1580 nella scomparsa chiesa di S. Maria della Grazia al Capo. Detta Compagnia si univa alle processioni dell’ultima domenica del mese organizzate dalla parrocchia di S. Ippolito ed accoglieva i fedeli di tutti i ceti sociali, tanto da essere chiamata “di sciabica”.

L’edificio, composto da una sola aula rettangolare ed ormai privo pure dell’altare barocco, è in pessime condizioni. La volta è crollata e tutti gli elementi architettonici e decorativi sono praticamente scomparsi. Diverse decine di anni fa divenne sede di un partito politico e, a cavallo del secolo scorso, il cardinale De Giorgi la affidò all’Associazione artistico-culturale no profit Extroart che aveva l’intenzione di trasformarla in un centro Internazionale Multimediale di Arte Contemporanea. Ma il tempo è trascorso e dei fieri Diecimila martiri che coraggiosamente professarono la loro fede sino al martirio rimane un ricordo sbiadito ed una chiesa che attende ancora di rinascere.

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Armenia, il ct Caparros: «Ho parlato con Mkhitaryan prima di venire qui. Sarei andato a vederlo nel match Siviglia-Roma» (Laroma24.it 15.04.20)

EFE – Da qualche settimana è Joaquin Caparros il nuovo ct dell’Armenia. L’ex direttore sportivo e allenatore del Siviglia ancora non ha avuto modo di incontrare i propri giocatori a causa del Coronavirus, ma lavora quotidianamente con il suo assistente Luci Martin e il direttore sportivo della Federazione armena Ginéa Meléndez visionando video delle partite e analizzando le caratteristiche dei vari calciatori, anche di quelli che non sono mai entrati nel giro della nazionale e che potrebbero essere convocati. Il tecnico spagnolo non perde di vista neanche il capitano della squadra, Mkhitaryan, di proprietà dell’ e ora in prestito alla Roma, che ha già contattato prima che si insediasse sulla panchina della nazionale armena, come ha rivelato in un’intervista rilasciata all’agenzia di stampa iberica. «Mkhitarya continua ad allenarsi. Gli ho parlato prima di venire qui. È un caro ragazzo al livello sportivo e ha grandissime qualità umane – le parole di Caprros – Ciò che mi piace di questa nazionale è il senso patriottico che tutti hanno nel difendere la squadra e di questo me ne aveva parlato lo stesso Mkhitaryan. Se in questi giorni le partite si fossero giocate normalmente sarei andato a vederlo nel match di Europa League Siviglia-Roma, sebbene già lo conosca». «Sono in contatto con un gran numero di giocatori. Una delle prime cose che volevo fare è chiamare tutti i ragazzi convocati e presentarmi, visto che non lo avrei potuto fare personalmente» ha concluso il ct armeno.