“A Sua Immagine”: Lorena Bianchetti incontra Paolo Vallesi, viaggio in Armenia e prima domenica d’Avvento (SIR 30.11.19)

“A Sua Immagine” entra nell’Avvento con molte iniziative, a cominciare dalle puntate di sabato 30 novembre e domenica 1° dicembre. I temi in scaletta: Lorena Bianchetti incontra il cantautore Paolo Vallesi; parte il viaggio della redazione di “A Sua Immagine” in Armenia con don Marco Pozza; infine, puntata talk domenicale dedica all’Avvento. “A Sua Immagine” è una trasmissione realizzata dalla Rai in collaborazione con la Conferenza Episcopale Italiana, firmata da Laura Misiti e Gianni Epifani.
Nel dettaglio. Sabato 30 novembre alle 15.55 su Rai Uno la conduttrice di “A Sua Immagine” Lorena Bianchetti incontra il cantautore Paolo Vallesi, che dopo il grande trionfo Sanremese nel 1992 con il brano “La forza della vita” ha vissuto poi per quasi 20 anni un momento di oblio, tornando oggi alla ribalta della scena musicale. Nel corso del faccia a faccia con la Bianchetti, Vallesi ricorda gli inizi della carriera in parrocchia, con il primo complesso rock, così come il rapporto con la fede, la partecipazione alle Giornate mondiali della gioventù nonché il legame con la famiglia.
Alle 16.15 linea alla rubrica “Le ragioni della Speranza”, dedicata al commento del Vangelo della domenica: al via da questa puntata il viaggio in Armenia, alle radici del cristianesimo, con il teologo don Marco Pozza. Tra le prime tappe del viaggio, si segnalano il monastero del Khor Virap, il monte Ararat e il complesso monastico di Noravank. Come sempre, compagna di viaggio di “A Sua Immagine” è l’Opera Romana Pellegrinaggi, con don Giovanni Biallo.
“Parola di Dio” è il titolo della puntata di “A Sua Immagine” di domenica 1° dicembre alle ore 10.30 su Rai Uno. Nella prima domenica d’Avvento, “A Sua Immagine” si occupa del “libro dei libri”, la Sacra Bibbia. Ospiti del talk domenicale con Lorena Bianchetti il biblista padre Raniero Cantalamessa, lo scrittore Eraldo Affinati e Roberta Rocelli, fra i responsabili del Festival Biblico in Veneto. Molte le testimonianze nel corso della puntata, tra cui quella di padre Enzo Bianchi, fondatore della Comunità di Bose.
Alle 10.55, dopo il notiziario di “A Sua Immagine” con Paolo Balduzzi, linea alla Santa Messa, sempre in diretta su Rai Uno: la celebrazione eucaristica viene trasmessa dalla Chiesa. S. Maria Assunta in Poggibonsi (Si), per la regia Tv di Michele Totaro e il commento di Simona De Santis. Momento conclusivo con la domenica mattina di “A Sua Immagine” è infine l’ascolto e il commento in diretto dell’Angelus di papa Francesco, alle 12 da piazza San Pietro.
Per rivedere tutte le puntate del programma e per maggiori approfondimenti, è possibile consultare il portale RaiPlay alla pagina dedicata oppure il sito Ceinews.it.

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Morta Goar Vartanyan: la spia che salvò Churchill, Roosevelt e Stalin (Ilgiornale 29.11.19)

Goar Vartanyan, la spia russa che contribuì al fallimento di un complotto nazista per uccidere i “big three” – Franklin D.

Roosevelt, Winston Churchill e Iosip Stalin – si è spenta all’età di 93 anni.

Una storia singolare quella di lady Vartanyan, nata nell’Armenia sovietica e protagonista in diversi scenari mondiali a difesa degli interessi russi.

Secondo il Cremlino, il contributo più importante nella sua lunga carriera da spia è certamente quello contro il complotto nazista per assassinare Churchill, Roosevelt e Joseph Stalin nel 1943.
Secondo fonti dei servizi russi, Goar Vartanyan e il suo defunto marito, Gevork, furono coinvolti nel sabotaggio dell’Operazione Salto in Lungo – Weitsprung – un complotto nazista per uccidere i “tre grandi”, mentre i leader alleati erano a Teheran per il loro primo incontro durante la Seconda Guerra Mondiale. Un attentato che, se realizzato, avrebbe potuto compromettere gli esiti del conflitto bellico e, probabilmente, delle democrazie occidentali.

In estrema sintesi, il piano fu teorizzato dall’agente segreto tedesco Ernst Kaltenbrunner e vagliato e confermato da Adolf Hitler, grazie a diverse informazioni sottratte da un codice decifrato della US Navy, dal quale si era appreso la data e il luogo – Teheran – della conferenza dei tre leader, fissata per metà ottobre del 1943. A supporto dell’operazione sul campo fu coinvolto l’agente Elyesa Bazna, sotto il nome in codice “Cicerone”, che trasmise i dati chiave relativi la conferenza. Una falla nel fragile sistema di sicurezza adottato provocò presto la scoperta del piano da parte dei servizi segreti sovietici, grazie alle figure dei coniugi Vartanyan.

Nel 1981 uscì nei cinema europei la produzione internazionale “Nido di spie”, ispirata liberamente alle vicende del fallito attentato.

Vartanyan è morta lunedì e sarà sepolta nel cimitero di Troyekurovskoye a Mosca, secondo l’agenzia di stampa filogovernativa russa Ria Novosti. Suo marito era morto nel 2012 all’età di 87 anni.
Dmitry Peskov, segretario stampa del presidente russo Vladimir Putin, ha dichiarato mercoledì in una conferenza stampa che il leader russo ha espresso le sue profonde e sentite condoglianze a riguardo. Peskov ha affermato, inoltre, che questo singolare duo di spie ha notevolmente influenzato il corso della storia europea e non.

Goar Vartanyan nacque a Gyumri – nell’allora Armenia Sovietica – il 25 gennaio 1926, la sua famiglia si trasferì in Iran all’inizio degli anni ’30. Dopo aver aderito ad un gruppo antifascista all’età di 16 anni, ha lavorato con Gevork, il futuro marito, per smascherare agenti tedeschi con notevole diligenza e ottimi risultati. Nel 1951, i Vartanyan si trasferirono in URSS e si ritiene abbiano avuto lunghe carriere nel servizio di intelligence sovietico. Gevork Vartanyan, a tal proposito, ricevette il premio “Eroe dell’Unione Sovietica” per i suoi servizi resi. Fonti giornalistiche russe confermano che l’SVR – Služba vnešnej razvedki – l’agenzia di intelligence russa che ha preso il posto del KGB dopo lo scioglimento dell’Unione Sovietica – ha affermato che la coppia venne coinvolta in numerosi “lavori di intelligence attiva” in “condizioni estreme in molti paesi e scenari”.

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Addio alla zarina delle spie russe, Goar Vartanyan: con il marito sventò attacco nazista a Churchill, Roosvelt e Stalin (Il Messaggero 28.11.19)

«Senza di loro – è stato l’omaggio del portavoce del Cremlino Dmitri Peskov – la storia del mondo sarebbe stata molto diversa». E in effetti se non ci fosse stata lei, Goar Vartanyan e suo marito Gevorg, Winston Churchill, Franklin Delano Roosvelt e Stalin sarebbero rimasti uccisi nel loro primo incontro, nel 1943, a Theran. E invece lei, la  zarina di tutte le spie russe, con il compagno agente segreto anche lui, li salvò dall’attentato e la storia cambiò.
Ora questa figura a dir poco mitica dell’intelligence sovietica, è morta all’età di 93 anni: sarà sepolta nel cimitero di Troekurovsky, accanto al marito, scomparso nel 2012 a 87 anni. Per lei si sono scomodati tutti, da Vladimir Putin ai vertici dell’Svr, i servizi segreti esteri russi, che hanno ricordato come le «gesta» di Goar e di suo marito sono già state «cantate» in una lunga galleria di libri e film.

Vartanyan, originaria dell’Armenia, si trasferì con la famiglia in Iran nei primi anni ’30 ed entrò a far parte del gruppo antifascista – capeggiato dal suo futuro marito – a 16 anni. Insieme, a guerra ormai scoppiata, si destreggiarono nel complesso gioco dello spionaggio mediorientale sino ad avere una parte rilevante nello sventare il piano nazista (l’operazione Long Jump) concepito per assassinare i tre grandi nel corso del loro primo incontro, nel 1943, a Teheran. Ovviamente nessuno, a parte chi di dovere a Mosca, lo sapeva – com’è d’obbligo negli apparati d’intelligence: primeggiare nell’ombra. Capacità rara che venne adeguatamente ricompensata. Nel 1951 i coniugi Vartanyan furono così portati nell’Urss e nel 1956 si diplomarono con successo presso l’Istituto di Lingue Straniere di Yerevan, nella natia Armenia.

Il resto è materiale da leggenda: 30 anni di servizio continuo in giro per il mondo nelle vesti d’innocua coppia sposata, probabilmente parte del programma top-secret sovietico di “spionaggio profondo”, ovvero slegato dai più tradizionali incarichi legati alle sedi diplomatiche, ai media o alle import-export. Nome in codice: “Anita ed Henri”. Nel 1986 il ritorno in patria, tra medaglie e riconoscimenti (benché il posto d’onore, nella beatificazione pubblica, sia sempre stato riservato a Gevorg). Il loro lavoro, dicono gli esperti, è stato tanto riservato e cruciale che non verrà mai declassificato. Putin, fa sapere il Cremlino, ha espresso le sue condoglianze ai parenti e agli amici di Goar Vartanyan, che conosceva bene e di persona, come del resto suo marito. Tra spie, del resto, vige sempre un certo cameratismo.
Ma c’è chi mette in discussione la leggenda. «Il fallito piano nazista, denominato Long Jump,  per uccidere i tre statisti è  un mito del Kgb che fu pubblicato dopo che la guerra era conclusa»: lo spiega alla testata americana Radio Free Europe lo storico dello spionaggio Alexander Vassiliyev. «Finora – afferma l’esperto – non è stata ottenuta nessuna prova che indichi i preparativi nazisti per gli omicidi a Teheran». Secondo Vassiliyev, «molti storici credono che Stalin diffuse le voci sull’operazione terroristica a Teheran per avvicinarsi a Roosevelt e ridurre l’influenza di Churchill». Già nel 2012, il Wall Street Journal scriveva che «il piano tedesco non è mai stato esposto nei dettagli e alcuni storici dubitano che sia persino esistito». Secondo il Cremlino, invece, la vicenda è autentica, e senza i Vartanyan «la storia del mondo sarebbe stata molto diversa»

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Armenia: tomba di amazzone scoperta in antica necropoli (Scienzenotizie 29.11.19)

Una delle mitiche Amazzoni descritte dagli antichi greci sarebbe stata trovata sepolta nel nord dell’Armenia insieme a vasi di ceramica e gioielli risalenti all’VIII-VI secolo a.C. La tomba è stata rinvenuta nel 2017 nella necropoli di Bover I nella provincia armena di Lorri, ma ora l’analisi delle ossa hanno dimostrato come appartenesse a una donna di età compresa tra 20 e 29 anni non appartenente alla nobiltà, come inizialmente si era pensato per la ricchezza dei gioielli, ma una guerriera.

Armenia: tomba di amazzone scoperta in antica necropoli

Durante l’esame delle ossa danneggiate, gli archeologi hanno rilevato, infatti, una punta di freccia di ferro sul ginocchio sinistro che veniva utilizzata per la caccia o il combattimento e, inoltre, i segni di una spada sui fianchi mentre una parte della gamba sinistra è stata tagliata con un’ascia. Secondo gli investigatori si tratta di tracce inequivocabili che dimostrano la natura di combattente della donna. Possenti muscoli caratterizzavano il corpo della donna, soprattutto nel torace e nelle spalle, a causa della costante flessione e del sollevamento dei pesi, come tipicamente accadeva agli arcieri esperti.

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E’ stata scoperta la tomba di una guerriera morta a cause delle ferite riportate in battaglia, nell’odierna Armenia, che risale a più di duemila anni fa.

Non erano solo le donne Vichinghe a combattere ma, a quanto pare, anche quelle dell’antico popolo del regno degli Urarti combattevano al fianco dei loro colleghi maschi. E’ quanto emerge dai resti di una tomba, antica più di duemila anni fa, scavata nel 2017 in una zona facente parte dell’attuale Armenia. Lo scheletro che gli archeologi hanno ritrovato apparteneva ad una donna, una personalità molto importante, probabilmente, vista la quantità degli oggetti rinvenuti di fianco ai suoi resti.

Lo scheletro era posizionato su un fianco e l’asse formato dalla testa e dai piedi indicava il Nord-Ovest. Braccia e gambe erano state bloccate e, su ciò che rimaneva delle ossa, gli scienziati hanno osservato innumerevoli fratture provocate delle armi dei suoi nemici. La ferita più eclatante è forse quella notata sul femore dove, incastrata nell’osso, è emersa la punta di metallo di un freccia. Ma i colpi che le sono stati inferti non finiscono qui. Le ossa pelviche, il femore e la tibia avevano lesioni imputabili probabilmente a colpi di spada o di ascia.

Anche l’ulna presentava fendenti di spada solo che, in questo caso, i traumi erano indiretti, probabilmente, ovvero il risultato dei violenti impatti di un arma contro lo scudo imbracciato dalla donna. I colpi inferti in questo modo erano potenti e l’energia di essi passava dallo scudo all’ulna e all’avambraccio. Non è strano, quindi, pensare, come hanno fatto gli archeologi, che la donna fosse una guerriera di una certa importanza per le genti del suo popolo, anche se di più preciso, per ora, non si sa nulla.

Al momento della morte la donna aveva un’età compresa tra i venti ed i ventinove anni e questa è la seconda sepoltura di una guerriera proveniente dall’Armenia. Quello degli Urarti, dal quale la guerriera proveniva, è stato un Regno in cui le donne partecipavano alla caccia e alla guerra, almeno le donne più influenti e che godevano quindi di una certa libertà, come ci dimostrano le tombe nelle quali queste guerriere sono state rinvenute.

Armenia-Italia: vicepresidente Csm Ermini a Erevan, focus su cooperazione (Agenzianova 27.11.19)

Erevan, 27 nov 17:03 – (Agenzia Nova) – Il presidente della Corte di cassazione dell’Armenia, Yervand Khundkaryan, ha ricevuto il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura italiana, David Ermini, che è stato ieri in visita a Erevan. All’incontro, secondo quanto riferisce la stampa locale, hanno partecipato anche il presidente della Camera civile e amministrativa della Cassazione armena Ruzanna Hakobyan e il presidente della Camera penale Lilit Tadevosyan. Nell’incontro Khundkaryan ha illustrato quella che è la missione costituzionale della Corte di cassazione dell’Armenia, le procedure per esaminare gli appelli e l’importanza della giurisprudenza nel lavoro dell’organismo giudiziario. I rappresentanti armeni hanno inoltre evidenziato l’importanza del processo di riforme attualmente in corso nel settore giudiziario del paese caucasico, sottolineando che Erevan conta molto sulla cooperazione con i partner internazionali. (Res)

Il genocidio armeno raccontato in Biblioteca da Antonia Arslan e Siobhan Nash-Marshall (Novara today 26.11.19)

Antonia Arslan è nata a Padova nel 1938. Ha origini armene e, riguardo al genocidio del popolo armeno, ha anche scritto saggi divulgativi e romanzi. Il suo esordio letterario avviene nel 2004 con “La masseria delle allodole” (Rizzoli), vincitore del Il Premio Strega di narrativa e finalista al Premio Campiello. Il libro più recente è “Lettera a una ragazza in Turchia” (Rizzoli). “Tu devi avere un coraggio nuovo, mia ragazza di Turchia. Ti vogliono rimandare indietro a tempi lontani, mentre a te piacciono capelli al vento e gonne leggere, ascoltare musiche forti, andare a zonzo con gli amici e sentirti uguale a loro. Vorresti lottare a viso scoperto. E invece dovrai scoprire di nuovo il coraggio sotterraneo dei deboli, l’audacia che si muove nell’ombra, e cercare nella tua storia antica le ragioni e la forza per sopravvivere.”Queste le parole di Antonia Arslan nella sua lettera immaginata a una ragazza turca. Con la maestria che è solo dei grandi narratori, Antonia Arslan ripercorre le vicende delle sue antenate armene, tessendo un racconto che si dipana attraverso un filo teso dai tempi antichi per arrivare fino ai giorni nostri. Perché la paura subdola che ci colpisce ogni giorno, le oscure premonizioni che si propagano da Oriente a Occidente, da Istanbul a Bruxelles, sono le stesse delle donne armene che si sono sacrificate in nome della libertà. L’antidoto contro la paura è la memoria, è il tappeto di storie di chi ha subìto un ribaltamento del suo mondo all’improvviso. L’autrice della Masseria ci regala un libro intimo, attualissimo, un viaggio straordinario in cui ridà vita alle vicende di donne che combattono per il proprio futuro e per restare se stesse.

Siobhan Nash-Marshall insegna filosofia al Manhattanville College di New York dopo essersi specializzata all’Università di Padova e alla Cattolica di Milano. “I peccati dei padri” (Guerini e associati) si occupa del negazionismo turco e del genocidio armeno. Nel 1915 il governo dell’Impero Ottomano cominciò a scacciare gli armeni dalle terre dove i loro antenati avevano vissuto da tempi immemorabili. Gli uomini furono uccisi; donne, vecchi e bambini furono deportati nella parte più inospitale del deserto siriano, del tutto inadatta al vivere umano.

Ma la pulizia etnica nell’Armenia occidentale era solo una parte del progetto dei Giovani Turchi per l’intera Anatolia. Lo scopo finale era in realtà di trasformare quelle terre nella «terra avita del popolo turco» (il cosiddetto vatan), un luogo dove la cultura, l’economia e la gente fossero tutti turchi. Questo progetto fu attuato su larga scala in ogni direzione, con impressionante determinazione e violenza.

La Turchia odierna sta ancora cercando di costruire il suo vatan, proseguendo così il genocidio iniziato dai turchi ottomani, e continuando a negare, di fatto, che questo abbia avuto luogo. Coprire un crimine vuol dire prolungarne gli effetti.

In I peccati dei padri Nash-Marshall mette in rapporto l’assoluto disprezzo dei fatti e delle genti, del territorio e della storia che è caratteristica comune sia del genocidio nel 1915 che dell’attuale negazionismo turco, con la vacua sprezzante indifferenza alla realtà fattuale che si diffonde sempre di più nel mondo moderno.

I “Giovedì letterari in biblioteca” sono organizzati dal Centro Novarese di Studi Letterari in collaborazione con l’Istituto Storico Fornara con il patrocinio del Comune di Novara e della Regione Piemonte con il supporto della Fondazione Comunità Novarese Onlus, all’interno del progetto “La comunità dei libri”.

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Roma, i dubbi su Mkhitaryan: portare l’armeno in Turchia? Fonseca ci pensa (Corriere dello Sport 26.11.19)

ROMA – È tornato ad allenarsi con il gruppo dodici giorni fa, dopo uno stop di un mese e mezzo per la lesione tendinea dell’adduttore della gamba destra. Henrikh Mkhitaryan ha perso dieci partite da quando si è fermato lo scorso 30 settembre, e non è escluso che possa saltare anche l’undicesima per tornare nelle migliori condizioni nella trasferta contro il Verona di domenica prossima. 

Il dubbio di Paulo Fonseca, ma in generale della Roma, è se portare il trequartista a Istanbul, per la gara di Europa League contro il Basaksehir. Due i principali motivi. Prima di tutto di natura fisica, con il giocatore che non ha ancora disputato un minuto in campo dal suo rientro in gruppo, e inserirlo in una partita così importante e delicata per le sorti di qualificazione ai sedicesimi di Europa League potrebbe essere un azzardo eccessivo.

Il secondo motivo è di natura politicaMkhitaryan, capitano della nazionale armena, si troverebbe buttato nella mischia – quasi sicuramente a partita in corso – in uno stadio che non lo accoglierebbe nel migliore dei modi visti i freddi rapporti che intercorrono tra i due paesi. La Turchia tuttora non riconosce ufficialmente il genocidio di oltre un milione e mezzo di armeni nel 1915, pianificato sotto l’Impero Ottomano. Un genocidio formalmente riconosciuto invece dal governo italiano e, da meno di un mese, anche dagli Stati Uniti“Il parlamento turco condanna e non riconosce l’adozione da parte della Camera dei Rappresentanti americana di un documento in cui si aderisce alla teoria del genocidio armeno. Una decisione che getta ombre su verità storiche e va a discapito dei membri del congresso che hanno mostrato saggezza e coscienza”, la riposta firmata da quattro dei cinque partiti del parlamento turco, compreso il partito di governo Akp, di cui il presidente Erdongan è leader.  

“La squadra di Erdogan”, così viene soprannominata l’Istanbul Basaksehir (i colori sociali sono l’arancione, il bianco e l’azzurro, gli stessi del partito conservatore), ha come presidente Goksel Gumusdag, vicesindaco di Istanbul e membro dell’Akp. Insomma, il partito di Erdogan e Gumusdag ha negato ancora una volta il genocidio armeno, e Mkhitaryan dovrebbe scendere in campo contro la loro squadra di calcio. In uno stadio che promette fiamme e fuoco vista l’importanza della gara, riempito dai fischi assordanti degli ultrà. Si fanno chiamare “Il gruppo 1453”, dalla data della presa di Costantinopoli da parte del sultano Maometto II: sono nazionalisti e islamisti, sostenitori ovviamente di Erdogan e del suo modello politico. 

Fonseca: “Sbagliamo spesso l’ultima decisione. Su Mkhitaryan…”

Naturalmente l’incolumità del giocatore non è in discussione, la polizia turca ha messo a disposizione la scorta per i vari trasferimenti della Roma nella città, i dubbi sono esclusivamente di ragione sportiva. Fonseca si sta chiedendo se vale realmente la pena portare a Istanbul un giocatore che non ha ancora pienamente recuperato il ritmo partita e la forma fisica, rischiandolo a partita in corso in uno stadio che lo fischierebbe e che potrebbe destabilizzare la prestazione dell’armeno se inserito in campo. Una possibilità è lasciarlo nella Capitale, continuando ad allenarsi a Trigoria nei due giorni di trasferta dei compagni di squadra, per poi impiegarlo con maggiore serenità nella trasferta di Verona. Dubbi che il tecnico scioglierà domani in conferenza stampa e con le convocazioni. Mkhitaryan (che per entrare in Turchia dovrebbe ritirare il visto all’aeroporto di Istanbul) ha comunque dato il suo ok alla trasferta, ancora scottato del forfait (con una situazione però decisamente più critica) nella finale di Europa League non giocata in Azerbaigian contro il Chelsea, sempre per motivi politici. Il trequartista nel corso della sua carriera ha già disputato due partite in Turchia, entrambe a Istanbul. Mai però contro “la squadra di Erdogan” e i suoi gruppi ultrà nazionalisti. 

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Calvene. Don Pozza in Armenia a raccontare la speranza (Altovicentinoonline 25.11.19)

Da sabato prossimo 30 novembre al 12 gennaio 2020 Don Marco Pozza, da otto anni cappellano del carcere di massima sicurezza “Due Palazzi” di Padova, commenterà di nuovo il Vangelo della domenica all’interno di “A sua immagine”, condotto da Lorena Bianchetti. Il programma, nato dalla collaborazione tra la Rai e la Conferenza Episcopale italiana, va in onda su Rai1.

Ogni sabato alle 16.15 circa (e la domenica alle 6.20 in replica) don Marco, originario di Calvene, condurrà la rubrica “Le ragioni della speranza” che, questa volta, sarà dall’Armenia. Maestosa, affascinate, inaspettata, l’Armenia costituisce un ponte tra Asia ed Europa: è la più antica nazione cristiana della storia. Il viaggio di don Marco ha inizio dal monastero di Khor Virap, ai piedi del monte Ararat: si dice che lì si trovi l’Arca di Noè. Visitando poi l’Echmiadzin (sede del “papa” della Chiesa Armena) si approfondirà la storia del monachesimo e si entrerà con lui anche nei monasteri di Geghard e Tatev dove per arrivarci si prende la funivia più lunga del mondo. Il viaggio proseguirà, quindi, a Yerevan, la capitale del Paese, dove don Marco commenterà il Vangelo dal memoriale del genocidio. Le ultime due saranno “due puntate armene” in Italia: la conversazione con Antonia Arslan, scrittrice italo-armena, e l’ultima nell’isola veneziana di san Lazzaro, dove da secoli c’è una presenza armena nel monastero.

A raccontarci questa esperienza è Laura Misiti, una delle responsabili del programma: “A Sua Immagine ci regalerà un altro prezioso viaggio, per lo sguardo e per lo spirito. Dopo i pellegrinaggi in Terra Santa e Giordania realizzati con l’Opera Romana Pellegrinaggi, sarà la volta dell’Armenia, nuovamente in marcia, a partire dal tempo d’Avvento, come pellegrini alle sorgenti della nostra fede. L’attesa, infatti, è cammino”.

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Giorgio Petrosyan ‘contro’ ius soli/ Re kickboxing “cittadinanza solo per chi merita” (Ilsussidiario 25.11.19)

Da un tir al freddo e al gelo fino al regno incontrastato della kickboxing: è Giorgio Petrosyan, una storia incredibile che lo accumuna al fratello Armen nella fuga rocambolesca dall’Armenia in guerra nel 1998. Oggi Giorgio è il re della kickboxing mondiale, multi milionario ma mai dimentico delle condizioni e delle origini umili da cui proviene: «Dopo essere finito alla Caritas di Gorizia con lo status di rifugiato politico, in attesa di un permesso di soggiorno, il sognatore Giorgio che si procurava da mangiare lavorando come lavavetri, alla fine su quel ring ci è salito, portando con sé la rabbia degli ultimi, dei disperati, dei miserabili», ben ricorda Il Giornale che oggi lo ha intervistato esaltando quel campione del mondo dalle origini tanto umili quanto disperate. Il prossimo 1 febbraio proprio a Milano, città che lo ha accolto dopo la fuga clandestina dall’Armenia, Giorgio Petrosyan difenderà il titolo di campione del mondo: «oggi è casa mia. In Italia la kickboxing si sta diffondendo sempre di più. Adesso è conosciuta tra i giovani. Quando ci sono eventi nei palazzetti, questi sono sempre pieni e ci sono tanti bambini. Come in Asia, dove è anche il primo sport e dove è nata questa disciplina (originaria del Giappone e poi diffusasi negli Usa, la kickboxing coniuga il calcio tipico delle arti marziali con i pugni della boxe».

PETROSYAN, TRA BALOTELLI E IUS SOLI

Non mancano gli spunti nella bella intervista di Arcobelli su Il Giornale che vanno ben oltre alla kickboxing, a cominciare dall’amicizia che lega Giorgio Petrosyan alla superstar Mario Balotelli: «Mario è un amico, ha un gran fisico e se la cava bene nella kick. Io però non seguo molto il calcio, ma quello che posso dire è che nel nostro mondo ci sono solo applausi e niente gestacci. Il nostro è uno sport sano dove ci sono delle regole da rispettare». Proprio per le sue origini, per la sua difficile risalita verso una conquista sociale, non manca la domanda finale a Petrosyan sul complicato tempo della cittadinanza dopo l’ipotesi del Pd di rilanciare Ius soli e Ius culturae nei prossimi lavori della legislatura post-Manovra: «La cittadinanza la deve ottenere chi la merita davvero. Io l’ ho ottenuta nel 2014 dopo tanti sacrifici. In questo periodo si parla tanto di stranieri, ma non siamo tutti uguali: chi sbaglia deve pagare, punto. Perché ci sono stranieri che sono qui e lavorano e meritano la cittadinanza, e c’ è chi ce l’ ha e va in giro solo a fare casino?», è il “colpo da ko” del campione del mondo dalle origini armene.

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Concerto e conferenza sulla figura di Padre Komitas (Arezzonotizie 25.11.19)

 

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Comunicato stampa: Della mia dolce Armenia, evento a cura dell’Associazione D.I.M.A. per i 150 anni dalla nascita di Komitas. Mostra fotografica e concerto.

Con Della mia dolce Armenia D.I.M.A. da vita a una serie di eventi nei quali, mantenendo la centralità della musica, si intreccia alla storia, alla poesia e alla letteratura che hanno contribuito a ispirarla. In una visione umana più profonda e consapevole il linguaggio della musica e delle immagini unito al racconto, diventano chiave di lettura viva della stessa musica e di storie vicine e lontane che aiutano a capire il mondo in cui viviamo.

Sabato 7 dicembre 2019 l’Associazione Culturale D.I.M.A. di Arezzo, in collaborazione con Armonica Onlus di Roma, ospiterà l’evento della serie Gli Incontri di D.I.M.A. – XVIII° edizione Della mia dolce Armenia, organizzato in occasione dei 150 anni dalla nascita di Padre Komitas, intellettuale, musicista ed etnomusicologo armeno, simbolo del paese caucasico.
La giornata prevederà una serie di iniziative, nello specifico l’inaugurazione della mostra fotografica a cura di Andrea Ulivi (visitabile dal 7 al 22 dicembre nei locali di Casa Petrarca), una conferenza a cura di Carlo Coppola sulla figura di Padre Komitas e il concerto Della mia dolce Armenia con Agnessa Gyurdzhyan, soprano e Lilit Khachatryan, pianoforte.

L’evento, coinvolgerà anche gli alunni del Liceo Scientifico Statale “F. Redi” di Arezzo in un progetto di alternanza scuola-lavoro: i giovani studenti infatti, a seguito di un’approfondita formazione, saranno le guide della mostra fotografica che si terrà dal 7 al 22 dicembre.
Sarà possibile visitare la mostra su prenotazione all’indirizzo email info@dimamusicarezzo.com oppure telefonando al +39 3772994923 (al pomeriggio dalle ore 15 alle 19).

Mostra fotografica, a cura di Andrea Ulivi. Inaugurazione sabato 7 dicembre ore 16.30, Casa Petrarca.

Una serie di immagini in bianco e nero, quelle di Andrea Ulivi, che hanno come tema l’Armenia. La mostra comprende circa quaranta fotografie scattate dal 2009 al 2014. Il suo obiettivo è di indagare quei luoghi e offrirsi all’anima di quel popolo. Due i grandi temi toccati: la vita di un popolo antichissimo e i luoghi a questo popolo sacri, i luoghi che hanno costituito la sua identità, la sua armenità, la sua spiritualità: “Fotografare i luoghi affinché questi stessi luoghi non ci dimentichino. Non fotografo i luoghi per ricordarli, ma per essere; perché questi luoghi non ci dimentichino, là dove lasciamo le nostre tracce come in un deserto”.

Andrea Ulivi (Firenze, 1960) è fotografo, editore e docente. Nel 1998 fonda a Firenze la casa editrice Edizioni della Meridiana. In campo fotografico ha realizzato mostre personali tra cui Zona Tarkovskij, San Miniato. Una porta di speranza, Luce armena, Della mia dolce Armenia, Immagini dal Silenzio, oltre ad aver pubblicato numerosi volumi fotografici. ha esposto in Italia, Armenia, Europa, Stati Uniti. È curatore per l’Italia degli scritti del regista Andrej Tarkovskij. È fotografo di scena, membro del Consiglio di Amministrazione della Fondazione Vittorio e Piero Alinari, curatore dell’Istituto Internazionale Andrej Tarkovskij. Insegna presso la Scuola di Editoria di Firenze. Vive e lavora a Firenze.

Conferenza e introduzione al concerto, a cura di Carlo Coppola ore 17.30, Casa Petrarca.

Dottore di Ricerca in Italianistica presso l’Università di Bari, si occupa di Storia della Diaspora Armena in Italia dal Medioevo al Genocidio del 1915. Con il Centro Studi “Hrand Nazariantz” che presiede tiene abitualmente presentazioni e conferenze sulla cultura armena antica e contemporanea. Principali pubblicazioni: Hrand Nazantz: tracce di una doverosa biografia (2012), Profughi armeni a Bari tra istituzioni filantropiche e Chiesa cattolica nella crisi degli anni Trenta (2014)  l’edizione critica di Nella terra del terrore il Martirio dell’Armenia di Henri Barby (2016). Il 3 settembre 2018 il Presidente della Repubblica di Armenia Armen Sarkissian gli ha concesso la Cittadinanza della Repubblica di Armenia. Approfondirà e contestualizzerà la figura di Komitas non solo come musicista, intellettuale ed etnomusicologo ma anche da una prospettiva storico-sociale.

Concerto Della mia dolce Armenia, a seguito della conferenza.

Un viaggio musicale nella cultura armena alla scoperta del repertorio per voce e pianoforte di Komitas. Un concerto per festeggiare il 150esimo anniversario dalla nascita del compositore proponendo una scelta rappresentativa dell’opera laica. Padre Komitas, emblema della cultura armena ma figura sconosciuta al mondo occidentale, svolse un lavoro etnomusicologico importantissimo tramandando la musica popolare attraverso una serie di registrazioni e trascrizioni realizzate da lui stesso. Raccolse un patrimonio immenso che comprendeva canti legati alla coltivazione dei campi, canti patriottici, canti d’amore, canti rituali per nozze, danze e anche ninna nanne.

Agnessa Gyurdzhyan soprano e Lilit Khachatryan pianista, entrambe di origine armena, condurranno il pubblico in questo affascinante viaggio nella musica di Komitas.

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Intervista con il premier armeno: «Aiutare i siriani che soffrono è per noi un dovere morale» (Cds 24.11.19)

Il premier Nikol Pashinyan al Corriere su medici e sminatori mandati nella Siria in guerra: «I suoi abitanti salvarono persone dell’Armenia durante il genocidio compiuto dall’Impero Ottomano» – Sull’Italia che ha tra i primi fornitori di energia l’Azerbaijan, nemico nel conflitto per il Nagorno-Karabakh: « Presto il vostro primo fornitore sarà il sole»
Se le frontiere tra Armenia e Turchia fossero aperte e voi armeni poteste attraversare il territorio turco, il suo Paese disterebbe dalla Siria mezza giornata di auto. Che cos’è per voi adesso la Siria?

«Una terra da aiutare. Per noi è innanzitutto una questione di aiuti umanitari. Il nostro Paese all’inizio dell’anno ha mandato lì una missione apposita: personale sanitario, sminatori civili».

Quella in Siria è una delle comunità importanti della vostra diaspora, formata in totale nel mondo da circa nove milioni di persone. Quanti profughi siriani hanno trovato rifugio da voi?

«Ventimila. E siamo tre milioni di abitanti. Assistere i rifugiati siriani per noi è una sorta di missione morale».

Risponde così Nikol Pashinyan, primo ministro di Armenia, quando si parla di una delle guerre più lunghe di questo secolo, quella cominciata nel 2011 come rivolta popolare contro il regime del raìs di Damasco Bashar el Assad, diventata presto guerra civile e poi resa scontro internazionale tra Stati da interventi palesi o coperti di alcuni vicini e potenze lontane. Ex giornalista, 44 anni, attivo una decina di anni fa di campagne contro assetti politici armeni che gli sono costati quattro mesi di latitanza e undici di carcere, protagonista nel 2018 del terremoto elettorale chiamato a Erevan «rivoluzione di velluto» – espressione già impiegata per Praga nel 1989 – Pashinyan è stato ricevuto venerdì scorso dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Ed è ripartito dopo una visita in Italia di tre giorni.

Il suo Paese ha una storia incastrata per molto tempo tra due imperi dissolti: la Turchia, dalla quale è stata sanguinosamente colpita nella fase finale dell’Impero Ottomano, e l’Unione Sovietica. Fu il frantumarsi del potere sovietico, di fatto imperiale anche se non si definiva così, a togliere il freno alla guerra tra Armenia e Azerbaijan, entrambe repubbliche dell’Urss, per il Nagorno-Karabakh, un’enclave a maggioranza armena oltre i confini azeri. Nessun risolutivo accordo di pace è ancora riuscito a spegnere del tutto questo conflitto. Nonostante la guerra, la vita di entrambi i Paesi ha anche una routine fatta di esportazioni, affari, diplomazia. E questi passano, tra l’altro, per l’Italia.

Può spiegare perché aiutare siriani è per gli armeni una sorta di missione morale?

«Ai tempi dell’Impero Ottomano il popolo siriano salvò tanti armeni dalle forze militari imperiali. Perciò in questi tempi nei quali i siriani soffrono noi non potremmo stare in disparte. Sono felice che possiamo onorare il nostro debito morale. Il nostro personale medico ha eseguito numerosi interventi chirurgici. Tante donne e tanti bambini siriani sono stati curati da medici armeni. A bambini siriani sono stati procurati spazi nei quali possano giocare in sicurezza».

Che cosa vi preoccupa di più adesso guardando verso la Siria?

«Siamo preoccupati dall’invasione turca. L’abbiamo condannata. Crediamo che la comunità internazionale debba intraprendere azioni affinché le forze turche oggi in Siria siano riportate indietro, in territorio turco».

La Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti ha riconosciuto che i massacri e le persecuzioni commesse dall’Impero Ottomano contro il vostro popolo costituirono un genocidio. Questo che cosa cambia per voi?

«È molto, molto importante. Contribuisce a prevenire possibili ulteriori genocidi. In più questo tipo di decisioni sta cambiando l’atmosfera nella nostra regione. Sono un messaggio: politiche altrettanto aggressive non sarebbero accettate dalla comunità internazionale. Più di un secolo dopo il genocidio la Turchia è percepita ancora dagli armeni come possibile minaccia per la nostra sicurezza. E da circa trenta anni il nostro confine è chiuso dalla parte turca, non dalla nostra. Dal lato armeno è aperto».

Riprenderebbe le relazioni diplomatiche con Ankara?

«Abbiamo detto e ripeto che siamo pronti a riallacciare relazioni diplomatiche con la Turchia senza alcuna precondizione. Non riteniamo il riconoscimento internazionale del genocidio armeno una precondizione per i nostri rapporti con la Turchia. Quello è un processo molto importante che conta non nei nostri rapporti con loro, ma, come dicevo, per una prevenzione globale dei genocidi».

Oggi nel mondo vediamo odio nei social network, episodi di antisemitismo in Francia e altrove, violenze e abusi contro cristiani in parti di Medio Oriente e Africa, casi di razzismo verso profughi e migranti. Dal punto di vista di chi governa un Paese che ha conosciuto un genocidio e ha una diaspora, c’è qualcosa della quale dovremmo essere consapevoli e che non consideriamo a sufficienza?

«Talvolta purtroppo distinguiamo le situazioni molto tardi, quando qualcosa è già andato fuori controllo. Esprimo la mia gratitudine alla Camera dei deputati italiana per aver riconosciuto il genocidio armeno come tale. Noi ci diamo da fare con i nostri partner stranieri per avere il più possibile di riconoscimenti del genere e per ottenerne a livello globale. Però risponderei alla sua domanda collegandola alla nostra situazione attuale. Lei cita l’antisemitismo in Francia e altrove: l’Europa adesso ne è consapevole. Ma nella nostra parte di mondo, per esempio in Azerbaijan, abbiamo un ampio fenomeno di armenofobia. I Paesi europei non ne sono abbastanza informati».

A che cosa si riferisce?

«Per esempio alla finale della Europe Ligue giocata nella primavera scorsa a Baku, capitale dell’Azerbaijan. L’ex giocatore dell’Arsenal, e oggi della Roma, Henrikh Mkhitaryan non poté partecipare. Perché? Perché il suo cognome armeno è un grosso problema in Azerbaijan. Tifosi europei che indossavano magliette dedicate a lui vennero fermati dalla polizia. Una settimana fa un autista, cittadino dell’Azerbaijan, è stato arrestato soltanto perché ascoltava una canzone di un musicista armeno. E l’anno scorso abbiamo avuto casi di cittadini americani, russi, turchi non autorizzati a entrare in Azerbaijan perché avevano cognomi che suonavano armeni. Come si collega questa situazione con la politica ufficiale del governo dell’Azerbaijan?».

L’Azerbaijan accusa voi di aggressione militare per il Nagorno-Karabakh e afferma che lei è particolarmente duro.

«Un ufficiale delle forze armate armene, Gurgen Margarian, venne ucciso a colpi di ascia da un ufficiale azero, Ramil Safarov, mentre stava dormendo. Entrambi erano a Budapest per un seminario della Nato. Fu nel 2004. Pochi anni dopo essere stato condannato all’ergastolo in Ungheria, l’ufficiale azero è stato estradato nel suo Paese. Nella sua patria è stato accolto come eroe nazionale, ha ricevuto la grazia dal presidente Ilham Aliyev, è stato promosso e gli è stato assicurato un appartamento a Baku».

Sulla storia e le sue conseguenze, anche terribili, le vostre valutazioni e quelle dell’Azerbaijan divergono. Da tanto tempo.

«Abbiamo un conflitto e andrebbe risolto. Quando diventai premier proposi una formula. Dissi che ogni soluzione doveva essere accettata dal popolo dell’Armenia, dal popolo del Nagorno-Karabakh e dal popolo dell’Azerbaijan. Sono stato l’unico leader armeno a pronunciarsi così. Ho avuto pesanti critiche nel mio Paese. Molti hanno detto: perché il leader armeno dovrebbe prendersi cura del popolo dell’Azerbaijan?»

La distanza fra le vostre posizioni mi ricorda una osservazione che ascoltai da Shimon Peres, ex presidente di Israele ed ex premier laburista: «L’errore compiuto spesso dalla gente è di credere che un processo di pace cominci come lieto fine. Parte invece da situazioni oscure». Con popoli che si combattono.

«Una soluzione può reggere se considera le tre parti in conflitto. Speravo che il presidente Aliev pronunciasse dichiarazioni analoghe alle mie. Aspetto da oltre un anno e non ne ho notizia. Ma se lo farà avremo un vero progresso nei negoziati. Spero che i partner europei e il gruppo di Minsk dei presidenti incoraggino Aliev ad accogliere questa formula: ogni soluzione del Nagorno-Karabakh dovrebbe essere accettata dai popoli di Armenia, Nagorno-Karabakh e Azerbaijan. Comprenderei che il presidente azero prima di tutti citasse il popolo azero. Andrebbe bene».

L’Azerbaijan è uno dei principali fornitori di energia per l’Italia. Costituisce un problema per le vostre relazioni con il nostro Paese?

«Abbiamo relazioni abbastanza buone e speriamo di renderle anche migliori. Ma direi che l’Azerbaijan non è un fornitore di energia. Lo è di petrolio e gas. Oggi il significato della parola “energia” sta cambiando molto rapidamente. Presto per l’Italia e dovunque il principale fornitore di energia sarà il sole. Dunque dobbiamo considerare i fatti e il futuro».

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Se le frontiere tra Armenia e Turchia fossero aperte e voi armeni poteste attraversare il territorio turco, il suo Paese disterebbe dalla Siria mezza giornata di auto. Che cos’è per voi adesso la Siria?

«Una terra da aiutare. Per noi è innanzitutto una questione di aiuti umanitari. Il nostro Paese all’inizio dell’anno ha mandato lì una missione apposita: personale sanitario, sminatori civili».

Quella in Siria è una delle comunità importanti della vostra diaspora, formata in totale nel mondo da circa nove milioni di persone. Quanti profughi siriani hanno trovato rifugio da voi?

«Ventimila. E siamo tre milioni di abitanti. Assistere i rifugiati siriani per noi è una sorta di missione morale».

Risponde così Nikol Pashinyan, primo ministro di Armenia, quando si parla di una delle guerre più lunghe di questo secolo, quella cominciata nel 2011 come rivolta popolare contro il regime del raìs di Damasco Bashar el Assad, diventata presto guerra civile e poi resa scontro internazionale tra Stati da interventi palesi o coperti di alcuni vicini e potenze lontane. Ex giornalista, 44 anni, attivo una decina di anni fa di campagne contro assetti politici armeni che gli sono costati quattro mesi di latitanza e undici di carcere, protagonista nel 2018 del terremoto elettorale chiamato a Erevan «rivoluzione di velluto» – espressione già impiegata per Praga nel 1989 – Pashinyan è stato ricevuto venerdì scorso dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Ed è ripartito dopo una visita in Italia di tre giorni.

Il suo Paese ha una storia incastrata per molto tempo tra due imperi dissolti: la Turchia, dalla quale è stata sanguinosamente colpita nella fase finale dell’Impero Ottomano, e l’Unione Sovietica. Fu il frantumarsi del potere sovietico, di fatto imperiale anche se non si definiva così, a togliere il freno alla guerra tra Armenia e Azerbaijan, entrambe repubbliche dell’Urss, per il Nagorno-Karabakh, un’enclave a maggioranza armena oltre i confini azeri. Nessun risolutivo accordo di pace è ancora riuscito a spegnere del tutto questo conflitto. Nonostante la guerra, la vita di entrambi i Paesi ha anche una routine fatta di esportazioni, affari, diplomazia. E questi passano, tra l’altro, per l’Italia.

Può spiegare perché aiutare siriani è per gli armeni una sorta di missione morale?

«Ai tempi dell’Impero Ottomano il popolo siriano salvò tanti armeni dalle forze militari imperiali. Perciò in questi tempi nei quali i siriani soffrono noi non potremmo stare in disparte. Sono felice che possiamo onorare il nostro debito morale. Il nostro personale medico ha eseguito numerosi interventi chirurgici. Tante donne e tanti bambini siriani sono stati curati da medici armeni. A bambini siriani sono stati procurati spazi nei quali possano giocare in sicurezza».

Che cosa vi preoccupa di più adesso guardando verso la Siria?

«Siamo preoccupati dall’invasione turca. L’abbiamo condannata. Crediamo che la comunità internazionale debba intraprendere azioni affinché le forze turche oggi in Siria siano riportate indietro, in territorio turco».

La Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti ha riconosciuto che i massacri e le persecuzioni commesse dall’Impero Ottomano contro il vostro popolo costituirono un genocidio. Questo che cosa cambia per voi?

«È molto, molto importante. Contribuisce a prevenire possibili ulteriori genocidi. In più questo tipo di decisioni sta cambiando l’atmosfera nella nostra regione. Sono un messaggio: politiche altrettanto aggressive non sarebbero accettate dalla comunità internazionale. Più di un secolo dopo il genocidio la Turchia è percepita ancora dagli armeni come possibile minaccia per la nostra sicurezza. E da circa trenta anni il nostro confine è chiuso dalla parte turca, non dalla nostra. Dal lato armeno è aperto».

Riprenderebbe le relazioni diplomatiche con Ankara?

«Abbiamo detto e ripeto che siamo pronti a riallacciare relazioni diplomatiche con la Turchia senza alcuna precondizione. Non riteniamo il riconoscimento internazionale del genocidio armeno una precondizione per i nostri rapporti con la Turchia. Quello è un processo molto importante che conta non nei nostri rapporti con loro, ma, come dicevo, per una prevenzione globale dei genocidi».

Oggi nel mondo vediamo odio nei social network, episodi di antisemitismo in Francia e altrove, violenze e abusi contro cristiani in parti di Medio Oriente e Africa, casi di razzismo verso profughi e migranti. Dal punto di vista di chi governa un Paese che ha conosciuto un genocidio e ha una diaspora, c’è qualcosa della quale dovremmo essere consapevoli e che non consideriamo a sufficienza?

«Talvolta purtroppo distinguiamo le situazioni molto tardi, quando qualcosa è già andato fuori controllo. Esprimo la mia gratitudine alla Camera dei deputati italiana per aver riconosciuto il genocidio armeno come tale. Noi ci diamo da fare con i nostri partner stranieri per avere il più possibile di riconoscimenti del genere e per ottenerne a livello globale. Però risponderei alla sua domanda collegandola alla nostra situazione attuale. Lei cita l’antisemitismo in Francia e altrove: l’Europa adesso ne è consapevole. Ma nella nostra parte di mondo, per esempio in Azerbaijan, abbiamo un ampio fenomeno di armenofobia. I Paesi europei non ne sono abbastanza informati».

A che cosa si riferisce?

«Per esempio alla finale della Europe Ligue giocata nella primavera scorsa a Baku, capitale dell’Azerbaijan. L’ex giocatore dell’Arsenal, e oggi della Roma, Henrikh Mkhitaryan non poté partecipare. Perché? Perché il suo cognome armeno è un grosso problema in Azerbaijan. Tifosi europei che indossavano magliette dedicate a lui vennero fermati dalla polizia. Una settimana fa un autista, cittadino dell’Azerbaijan, è stato arrestato soltanto perché ascoltava una canzone di un musicista armeno. E l’anno scorso abbiamo avuto casi di cittadini americani, russi, turchi non autorizzati a entrare in Azerbaijan perché avevano cognomi che suonavano armeni. Come si collega questa situazione con la politica ufficiale del governo dell’Azerbaijan?».

L’Azerbaijan accusa voi di aggressione militare per il Nagorno-Karabakh e afferma che lei è particolarmente duro.

«Un ufficiale delle forze armate armene, Gurgen Margarian, venne ucciso a colpi di ascia da un ufficiale azero, Ramil Safarov, mentre stava dormendo. Entrambi erano a Budapest per un seminario della Nato. Fu nel 2004. Pochi anni dopo essere stato condannato all’ergastolo in Ungheria, l’ufficiale azero è stato estradato nel suo Paese. Nella sua patria è stato accolto come eroe nazionale, ha ricevuto la grazia dal presidente Ilham Aliyev, è stato promosso e gli è stato assicurato un appartamento a Baku».

Sulla storia e le sue conseguenze, anche terribili, le vostre valutazioni e quelle dell’Azerbaijan divergono. Da tanto tempo.

«Abbiamo un conflitto e andrebbe risolto. Quando diventai premier proposi una formula. Dissi che ogni soluzione doveva essere accettata dal popolo dell’Armenia, dal popolo del Nagorno-Karabakh e dal popolo dell’Azerbaijan. Sono stato l’unico leader armeno a pronunciarsi così. Ho avuto pesanti critiche nel mio Paese. Molti hanno detto: perché il leader armeno dovrebbe prendersi cura del popolo dell’Azerbaijan?»

La distanza fra le vostre posizioni mi ricorda una osservazione che ascoltai da Shimon Peres, ex presidente di Israele ed ex premier laburista: «L’errore compiuto spesso dalla gente è di credere che un processo di pace cominci come lieto fine. Parte invece da situazioni oscure». Con popoli che si combattono.

«Una soluzione può reggere se considera le tre parti in conflitto. Speravo che il presidente Aliev pronunciasse dichiarazioni analoghe alle mie. Aspetto da oltre un anno e non ne ho notizia. Ma se lo farà avremo un vero progresso nei negoziati. Spero che i partner europei e il gruppo di Minsk dei presidenti incoraggino Aliev ad accogliere questa formula: ogni soluzione del Nagorno-Karabakh dovrebbe essere accettata dai popoli di Armenia, Nagorno-Karabakh e Azerbaijan. Comprenderei che il presidente azero prima di tutti citasse il popolo azero. Andrebbe bene».

L’Azerbaijan è uno dei principali fornitori di energia per l’Italia. Costituisce un problema per le vostre relazioni con il nostro Paese?

«Abbiamo relazioni abbastanza buone e speriamo di renderle anche migliori. Ma direi che l’Azerbaijan non è un fornitore di energia. Lo è di petrolio e gas. Oggi il significato della parola “energia” sta cambiando molto rapidamente. Presto per l’Italia e dovunque il principale fornitore di energia sarà il sole. Dunque dobbiamo considerare i fatti e il futuro».