Usa: la Camera riconosce il genocidio armeno, ira della Turchia (Cds, Ansa …30.10.19)

Corriere della Sera – Risoluzione approvata alla quasi unanimità con voto bipartisan. La protesta di Ankara: «Atto ad uso interno, privo di qualsiasi base storica e giuridica»

Doppio schiaffo della Camera Usa ad Ankara, a due settimane dalla visita del presidente turco Recep Tayyip Erdogan alla Casa Bianca: i deputati hanno approvato in modo bipartisan quasi all’unanimità una risoluzione che riconosce il genocidio armeno e un’altra che chiede al presidente Donald Trump di imporre sanzioni e altre restrizioni alla Turchia e ai dirigenti di quel Paese per l’offensiva nella Siria settentrionale. Immediata la reazione di Ankara, che «rifiuta» la risoluzione sul genocidio armeno, bollandola come una decisione «ad uso interno, priva di qualunque base storica e giuridica». «È un passo politico insignificante – ha detto il capo della diplomazia di Ankara Mevlut Cavusoglu – indirizzato solo alla lobby armena e ai gruppi anti-Turchia».

Il voto dei parlamentari Usa

Il ministero degli esteri turco ha condannato fortemente anche la risoluzione sulle sanzioni, sottolineando che la decisione non è consona all’ alleanza Nato tra i due Paesi e all’accordo tra Usa e Ankara sulla tregua in Siria, e ammonendo Washington a prendere misure per evitare passi che danneggino ulteriormente le relazioni bilaterali. La Camera Usa ha riconosciuto formalmente il «genocidio armeno» con una maggioranza schiacciante (405 sì su 435 voti, di cui 11 contrari). Il testo, non vincolante, invita a «commemorare il genocidio armeno» e a «rifiutare i tentativi di associare il governo americano alla sua negazione», nonché a educare sulla vicenda. L’approvazione è stata salutata con un lungo applauso in aula.

La ricostruzione storica

Il genocidio armeno è stato riconosciuto da una trentina di Paesi, tra cui l’Italia. Secondo le stime tra 1,2 e 1,5 milioni di armeni sono stati uccisi durante la prima guerra mondiale dalle truppe dell’impero ottomano, all’epoca alleato di Germania e Regno austro-ungarico. Ma Ankara rifiuta il termine genocidio sostenendo che vi furono massacri reciproci sullo sfondo di una guerra civile e di una carestia che fecero migliaia di morti da entrambe le parti. Nell’aprile 2017, pochi mesi dopo l’insediamento alla Casa Bianca, Donald Trump aveva definito il massacro degli armeni nel 2015 «una delle peggiori atrocità di massa del XX secolo», senza però usare il termine genocidio. Ma bastò a suscitare l’ira della Turchia. Barack Obama, prima di essere eletto nel 2008, si era impegnato ad riconoscere il genocidio armeno ma non lo fece.

La parola al Senato

La risoluzione sulle sanzioni è stata approvata con 403 sì e 11 no. Ora deve pronunciarsi il Senato. Il doppio schiaffo arriva dopo che Trump ha ritirato le truppe Usa dalla Siria abbandonando gli alleati curdi all’ offensiva turca. Incalzato dal Congresso, il tycoon ha imposto alcune sanzioni modeste, revocandole non appena è stata annunciata la tregua. Ma Capitol Hill è ancora irritata, in un raro momento di unità bipartisan sullo sfondo della battaglia per l’impeachment.

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Camera Usa riconosce il genocidio armeno. Ira Turchia (Ansa 30.10.19)

Doppio schiaffo della Camera Usa ad Ankara, a due settimane dalla visita del presidente turco Recep Tayyip Erdogan alla Casa Bianca: i deputati hanno approvato in modo bipartisan quasi all’unanimità una risoluzione che riconosce il genocidio armeno e un’altra che chiede al presidente Donald Trump di imporre sanzioni e altre restrizioni alla Turchia e ai dirigenti di quel Paese per l’offensiva nella Siria settentrionale. Immediata la reazione di Ankara, che “rifiuta” la risoluzione sul genocidio armeno, bollandola come una decisione “ad uso interno, priva di qualunque base storica e giuridica”. “E’ un passo politico insignificante – ha detto il capo della diplomazia di Ankara Mevlut Cavusoglu – indirizzato solo alla lobby armena e ai gruppi anti-Turchia”. Il ministero degli esteri turco ha condannato fortemente anche la risoluzione sulle sanzioni, sottolineando che la decisione non è consona all’ alleanza Nato tra i due Paesi e all’accordo tra Usa e Ankara sulla tregua in Siria, e ammonendo Washington a prendere misure per evitare passi che danneggino ulteriormente le relazioni bilaterali. La Camera Usa ha riconosciuto formalmente il “genocidio armeno” con una maggioranza schiacciante (405 sì su 435 voti, di cui 11 contrari). Il testo, non vincolante, invita a “commemorare il genocidio armeno” e a “rifiutare i tentativi di associare il governo americano alla sua negazione”, nonché a educare sulla vicenda. L’approvazione è stata salutata con un lungo applauso in aula. Il genocidio armeno è stato riconosciuto da una trentina di Paesi, tra cui l’Italia. Secondo le stime tra 1,2 e 1,5 milioni di armeni sono stati uccisi durante la prima guerra mondiale dalle truppe dell’impero ottomano, all’epoca alleato di Germania e Regno austro-ungarico. Ma Ankara rifiuta il termine genocidio sostenendo che vi furono massacri reciproci sullo sfondo di una guerra civile e di una carestia che fecero migliaia di morti da entrambe le parti.


Camera Usa riconosce il Genocidio Armeno, risoluzione storica che fa infuriare Erdogan (Il Messaggero)

Città del Vaticano – La decisione era nell’aria da tempo ed è stata accelerata dopo l’attacco della Turchia alla Siria. La Camera americana (a due settimane dalla visita del presidente Erdogan alla Casa Bianca) ha approvato in modo bipartisan – quasi all’unanimità – una storica risoluzione che riconosce per la prima volta il genocidio armeno. In un’altra risoluzione chiede al presidente Donald Trump di imporre sanzioni e altre restrizioni alla Turchia e ai dirigenti di quel paese per l’offensiva nella Siria settentrionale

Anche l’Italia riconosce il Genocidio Armeno: passa alla Camera la mozione bipartisan, solo FI si astiene

La reazione di Ankara che «rifiuta» la risoluzione sul genocidio armeno e mantiene una posizione totalmente negazionista, non si è fatta attendere. «È un passo politico insignificante – ha detto il capo della diplomazia di Ankara Mevlut Cavusoglu – indirizzato solo alla lobby armena e ai gruppi anti-Turchia».

Il ministero degli esteri turco ha condannato fortemente anche la risoluzione sulle sanzioni, sottolineando che la decisione non è consona all’alleanza Nato tra i due paesi e all’accordo tra Usa e Turchia sulla tregua in Siria, e ammonendo Washington a prendere misure per evitare passi che danneggino ulteriormente le relazioni bilaterali.

La Camera americana ha riconosciuto formalmente il «genocidio armeno» con una maggioranza schiacciante (405 sì su 435 voti, di cui 11 contrari). Si tratta di riconoscere i fatti storici che portarono nel 1915 alla eliminazione sistematica, attraverso un piano di sterminio, di 1 milione e mezzo di cristiani armeni dall’allora Impero Ottomano. Una pulizia etnica perseguita attraverso leggi e mediante il dispositivo militare. Il testo, non vincolante, invita a «commemorare il genocidio armeno» e a «rifiutare i tentativi di associare il governo americano alla sua negazione», nonché a educare sulla vicenda. L’approvazione è stata salutata con un lungo applauso in aula.

Antisemitismo, il capo dei rabbini europei allarmato per la crescita dell’ultradestra

Il genocidio armeno è stato riconosciuto da una trentina di paesi. Ankara rifiuta il termine genocidio sostenendo che vi furono massacri reciproci sullo sfondo di una guerra civile e di una carestia che fecero migliaia di morti da entrambe le parti, ma i documenti inoppugnabili conservati in decine di archivi, tra cui quello della Santa Sede, provano esattamente il contrario. Fu un piano di sterminio premeditato.

Regione Lazio approva mozione per riconoscere il genocidio armeno

Nell’aprile 2017, pochi mesi dopo l’insediamento alla Casa Bianca, Donald Trump aveva definito il massacro degli armeni nel 1915 «una delle peggiori atrocità di massa del XX secolo», senza però usare il termine genocidio. Ma bastò a suscitare l’ira della Turchia. Barack Obama, prima di essere eletto nel 2008, si era impegnato a riconoscere il genocidio armeno ma non lo fece per timori di ritorsioni da parte di Erdogan.

Persino Papa Francesco ha dovuto subire una crisi diplomtica con la turchia per aver celebrato una messa funebre a San Pietro tre anni fa, in occasione del centenario del genocidio, durante la quale ha parlato di “genocidio”. Tanto è bastato per ricevere minacce e ritorsioni.

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Usa riconoscono genocidio armeno e approvano sanzioni. Erdogan: “Risoluzione senza valore” (La Repubblica)

WASHINGTON – Doppio schiaffo della Camera Usa ad Ankara, a due settimane dalla visita del presidente turco Recep Tayyip Erdogan alla Casa Bianca: i deputati hanno approvato in modo bipartisan quasi all’unanimità una risoluzione che riconosce il genocidio armeno da parte dell’impero Ottomano durante la Prima Guerra Mondiale e un’altra che chiede al presidente Donald Trump di imporre sanzioni e altre restrizioni alla Turchia e ai dirigenti di quel Paese per l’offensiva nella Siria settentrionale.

La rabbia di Ankara, convocato ambasciatore

La risoluzione approvata ieri dalla Camera dei Rappresentanti Usa “non ha nessun valore” per la Turchia, ha detto Erdogan. Il leader turco ha ribadito la “condanna” già espressa dal suo ministero degli Esteri, che stamani ha convocato l’ambasciatore americano ad Ankara David Satterfield per protestare. “Nella nostra fede il genocidio è assolutamente vietato. Consideriamo questa accusa come il più grande insulto al nostro popolo”, ha aggiunto Erdogan.

L’Armenia esulta

Il premier Nikol Pashinyan ha parlato su Twitter di “voto storico” e “passo importante verso verità e giustizia storica”. “Questa risoluzione ha profondo significato perché commemora il genocidio armeno attraverso il riconoscimento e il ricordo internazionale”, ha aggiunto il ministero degli Esteri armeno, ringraziando i deputati statunitensi per “il loro incredibile impegno per verità, giustizia, umanità, solidarietà e per i valori universali dei diritti umani”. Sono stimati tra 500 mila e un milione e mezzo gli americani di origine armena.

Genocidio armeno riconosciuto a maggioranza schiacciante

La Camera Usa ha riconosciuto formalmente il “genocidio armeno” con una maggioranza schiacciante (405 sì su 435 voti, di cui 11 contrari). Il testo, non vincolante, invita a “commemorare il genocidio armeno” e a “rifiutare i tentativi di associare il governo americano alla sua negazione”, nonché a educare sulla vicenda. L’approvazione è stata salutata con un lungo applauso in aula. Il genocidio armeno è stato riconosciuto da una trentina di Paesi, tra cui l’Italia. Secondo le stime tra 1,2 e 1,5 milioni di armeni sono stati uccisi durante la prima guerra mondiale dalle truppe dell’impero ottomano, all’epoca alleato di Germania e Regno austro-ungarico. Ma Ankara rifiuta il termine genocidio sostenendo che vi furono massacri reciproci sullo sfondo di una guerra civile e di una carestia che fecero migliaia di morti da entrambe le parti.

Nell’aprile 2017, pochi mesi dopo l’insediamento alla Casa Bianca, Donald Trump aveva definito il massacro degli armeni nel 2015 “una delle peggiori atrocità di massa del XX secolo”, senza però usare il termine genocidio. Ma bastò a suscitare l’ira della Turchia. Barack Obama, prima di essere eletto nel 2008, si era impegnato ad riconoscere il genocidio armeno ma non lo fece. La risoluzione sulle sanzioni è stata approvata con 403 sì e 11 no. Ora deve pronunciarsi il Senato.


Usa, la Camera riconosce il genocidio armeno e chiede sanzioni contro Ankara per la Siria (Quotidiano.net)

Washington, 30 ottobre 2019  – La Camera Usa non fa sconti al presidente turco Recep Tayyip Erdogan, e a soli due settimane dalla sua visita alla Casa Bianca ha approvato in modo bipartisan quasi all’unanimità una risoluzione che riconosce il genocidio armeno, e un’altra che chiede al presidente Donald Trump di imporre sanzioni e altre restrizioni alla Turchia e ai dirigenti di quel Paese per l’offensiva nella Siria settentrionale.

La reazione di Ankara, che non riconosce la risoluzione sul genocidio armeno, non si è fatta attendere bollando la decisione “ad uso interno, priva di qualunque base storica e giuridica”.

Il capo della diplomazia di Ankara Mevlut Cavusoglu ha detto: “È un passo politico insignificante indirizzato solo alla lobby armena e ai gruppi anti-Turchia”. Il ministero degli esteri turco ha condannato fortemente anche la risoluzione sulle sanzioni, sottolineando che la decisione non è consona all’alleanza Nato tra i due Paesi e all’accordo tra Usa e Ankara sulla tregua in Siria.

Poi Ankara ha ammito Washington a prendere misure per evitare passi che danneggino ulteriormente le relazioni bilaterali. Ma la Camera Usa ha riconosciuto formalmente il “genocidio armeno” con una maggioranza schiacciante (405 sì su 435 voti, di cui 11 contrari).


Usa, Camera vota risoluzione che riconosce genocidio armeno (Rainews.it)

La Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti ha votato, a grande maggioranza, una risoluzione che riconosce il “genocidio armeno”. Il voto, senza precedenti, è stato accolto dai vivi applausi dell’emiciclo. Si tratta della prima volta che una tale risoluzione viene sottoposta a votazione negli Stati Uniti. Il testo che invita “commemorare il genocidio armeno” e intende “respingere i tentativi di associare il governo degli Stati Uniti alla negazione del genocidio armeno” è stato adottato con 405 voti su complessivi 435, mettendo a segno una rara convergenza tra democratici e repubblicani. Immediata la condanna del governo turco, secondo il quale la presa di posizione americana “non ha alcun fondamento storico”. Il genocidio armento è riconosciuto da una trentina di Paesi e da gran parte della comunità degli storici. Secondo le stime, tra 1,2 e 1,5 milioni di armeni furono uccisi durante la Prima guerra mondiale dalle truppe dell’Impero ottomano. – See more at: http://www.rainews.it/dl/rainews/articoli/Usa-Camera-vota-risoluzione-che-riconosce-genocidio-armeno-921631ad-ed4e-463d-bd99-6197e842d4f1.html


Anche gli Usa riconoscono il genocidio armeno. Ankara convoca l’ambasciatore (Huffington post)

L’ambasciatore Usa ad Ankara, David Satterfield, è stato convocato al ministero degli Esteri turco a seguito della risoluzione approvata ieri dalla Camera dei Rappresentanti americana che riconosce il “genocidio armeno”. Lo riferiscono fonti diplomatiche di Ankara.

La convocazione, precisano le fonti, è stata decisa per denunciare la “risoluzione priva di qualsiasi base storica o legale” sul “genocidio armeno” e un’altra proposta di legge che chiede al presidente Donald Trump di sanzionare la Turchia a seguito della sua offensiva militare in Siria.

Il testo approvato dalla Camera Usa, che non è vincolante, era già stato duramente condannato stanotte anche in una nota ufficiale del ministero degli Esteri. Ankara nega che i massacri di centinaia di migliaia di armeni compiuti durante la Prima Guerra Mondiale dall’impero Ottomano siano stati frutto di un “genocidio” pianificato, sostenendo che sono avvenuti sullo sfondo di una guerra civile, e ne contesta anche le cifre.

Le nuove tensioni tra Ankara e Washington giungono a due settimane dalla visita del presidente Recep Tayyip Erdogan alla Casa Bianca. Una visita che adesso il presidente turco mette in dubbio, dicendosi “ancora indeciso” su se andare o meno a Washington il prossimo 13 novembre.

Con la risoluzione approvata ieri la Camera Usa ha riconosciuto formalmente il “genocidio armeno” con una maggioranza schiacciante (405 sì su 435 voti, di cui 11 contrari). Il testo, non vincolante, invita a “commemorare il genocidio armeno” e a “rifiutare i tentativi di associare il governo americano alla sua negazione”, nonché a educare sulla vicenda. L’approvazione è stata salutata con un lungo applauso in aula.

Il premier armeno Nikol Pashinyan ha definito “storico” il riconoscimento formale da parte della Camera Usa del genocidio armeno. “Accolgo positivamente lo storico voto del Congresso Usa sul riconoscimento del genocidio armeno”, compiuto dall’Impero Ottomano durante la prima guerra mondiale, ha detto Pashinyan, che ha definito l’approvazione del documento “un chiaro passo verso il ristabilimento della giustizia storica che conforterà milioni di discendenti dei sopravvissuti al genocidio”.

Il genocidio armeno è stato riconosciuto da una trentina di Paesi, tra cui l’Italia. Secondo le stime tra 1,2 e 1,5 milioni di armeni sono stati uccisi durante la prima guerra mondiale dalle truppe dell’impero ottomano, all’epoca alleato di Germania e Regno austro-ungarico. Ma Ankara rifiuta il termine genocidio sostenendo che vi furono massacri reciproci sullo sfondo di una guerra civile e di una carestia che fecero migliaia di morti da entrambe le parti.

Nell’aprile 2017, pochi mesi dopo l’insediamento alla Casa Bianca, Donald Trump aveva definito il massacro degli armeni nel 2015 “una delle peggiori atrocità di massa del XX secolo”, senza però usare il termine genocidio. Ma bastò a suscitare l’ira della Turchia. Barack Obama, prima di essere eletto nel 2008, si era impegnato ad riconoscere il genocidio armeno ma non lo fece.
La risoluzione sulle sanzioni è stata approvata con 403 sì e 11 no. Ora deve pronunciarsi il Senato.

Il doppio schiaffo arriva dopo che Trump ha ritirato le truppe Usa dalla Siria abbandonando gli alleati curdi all’offensiva turca. Incalzato dal Congresso, il tycoon ha imposto alcune sanzioni modeste, revocandole non appena è stata annunciata la tregua. Ma Capitol Hill è ancora irritata, in un raro momento di unità bipartisan sullo sfondo della battaglia per l’impeachment.


GLI STATI UNITI RICONOSCONO IL GENOCIDIO ARMENO (Gariwo)

Per la prima volta la più grande potenza al mondo, gli Stati Uniti, a oltre un secolo da quegli eventi, rompe il silenzio sul genocidio armeno. Lo fa con una risoluzione, approvata ieri a larghissima maggioranza dalla Camera (405 voti favorevoli e 11 contrari) che pone fine a una danza macabra protrattasi fin troppo a lungo: un solo presidente fino ad oggi, Ronald Reagan, ha avuto infatti il coraggio di usare la parola “genocidio” nei confronti del Metz Yeghern – il Grande Male, come lo chiamano gli armeni –, mentre per il Congresso si tratta, in assoluto, di un riconoscimento senza precedenti per questa tragedia costata la vita, durante il primo conflitto mondiale, a un milione e mezzo di persone.

Tante le ragioni di questo ostinato negazionismo, cui la risoluzione di ieri pone un seppur tardivo rimedio: dalla Guerra Fredda, che aveva visto su fronti contrapposti la piccola Repubblica sovietica armena e la Turchia, fedele alleata nella NATO; fino all’ostinazione con cui Ankara ha perseguito per decenni una politica di pressioni e minacce nei confronti di chiunque, poco importa se Stato o personalità pubblica, provasse a farsi promotore di questa verità storica.

Grande commozione da parte della nutrita comunità armena americana, ma anche dai discendenti del genocidio, sparsi in tutto il mondo dopo la catastrofe del 1915. Una risoluzione che si apre con una apprezzabile menzione dell’ambasciatore americano Henry Morgenthau, un Giusto che si oppose con grande coraggio al Metz Yeghern, e che ricorda – cosa spesso poco nota – come il genocidio abbia travolto anche altre minoranze cristiane dell’Impero Ottomano, dagli assiri ai greci. Importante anche il riconoscimento tributato alla figura di Raphael Lemkin, l’inventore della parola e del concetto di genocidio. Per quanto spesso lo si ignori (o si finga di farlo), l’idea stessa di genocidio è contenuta fin dal principio nella definizione e nella storia di questo termine. Lemkin, infatti, coniò il neologismo proprio in base alle similitudini da lui riscontrate fra la Shoah e il Metz Yeghern.

Ma non solo del passato si è discusso ieri nel dibattito alla Camera. Come spesso avvenuto nel caso del genocidio armeno, il riconoscimento è arrivato in un momento storico ben specifico, in cui Washington, dopo aver offerto a Erdogan su un piatto d’argento il Kurdistan siriano, vuole esercitare pressioni su Ankara, dando al contempo un segnale, sia all’interno che all’esterno, di non sudditanza nei confronti dell’autocrate turco.

Non a caso Nancy Pelosi, durante il dibattito alla Camera, ha ribadito come “i recenti attacchi dei militari turchi contro il popolo curdo sono un forte monito riguardo al pericolo per il nostro tempo”. E non serve alcuna malizia per ricordare come sia più semplice mettere nero su bianco una risoluzione su una tragedia del secolo scorso, peraltro non vincolante per la Turchia, rispetto al porre freno alla macchina della morte messa in moto da Erdogan che, proprio in questi giorni, compie massacri di curdi, armeni, assiri e yazidi in quegli stessi territori che, al tempo del genocidio, furono teatro di pagine terribili.

Un’affinità che dev’essere assai ben chiara anche alla mente di Erdogan, che solo pochi giorni fa vantava, con esplicita menzione a quanti si opponevano alla sua invasione del Kurdistan, come la Turchia nella sua storia non abbia mai compiuto massacri di civili; altri i crimini da ricordare, secondo il presidente turco: da Srebrenica alla persecuzione dei Rohingya, dalla Palestina fino agli uiguri e all’Afghanistan.

È giusto dunque gioire ed essere grati agli Stati Uniti per questo importante riconoscimento storico, che mette in difficoltà tanto i negazionisti, vecchi e nuovi, che quella retorica vittimistica di cui il presidente turco è solo un triste e tardo epigono. Ma questa risoluzione non deve servire solo a rimarginare vecchie ferite, per quanto profonde. Il Medio Oriente di oggi sta conoscendo, con una ferocia e una rapidità non inferiori a quelle dimostrate dai Giovani Turchi un secolo fa, una crisi che vede sull’orlo dell’estinzione le diverse minoranze etniche e religiose di sono composte quelle terre.

Il più grande omaggio che possiamo fare alle vittime del passato, alle loro memorie di sangue, è batterci affinché non si ripetano e si ripresentino. Di lacrime tardive è pieno il mondo; e il pericolo è che, a volte, a nulla servano. Ripartiamo da questo giusto riconoscimento del passato che ci arriva da Washington per guardare, con occhi nuovi, al nostro presente e al prossimo futuro. Per riprendere coraggio.

Che la giustizia di ieri sia anche quella di oggi e di domani.

Italia-Armenia: Raggi incontra presidente parlamento Mirzoyan, focus su sviluppo capitale (Agenzianova 29.10.19)

Roma, 29 ott 14:24 – (Agenzia Nova) – Il presidente del parlamento di Erevan, Ararat Mirzoyan, ha incontrato la sindaca di Roma, Virginia Raggi, nel quadro della sua visita ufficiale in Italia. Lo riferisce l’agenzia di stampa “Armenpress”. Stando alle informazioni diffuse, le due parti hanno discusso lo sviluppo della capitale italiana e le sfide che esso comporta in termini di gestione. Mirzoyan ha incontrato anche i presidenti di Senato e Camera dei deputati, Maria Elisabetta Alberti Casellati e Roberto Fico, nel quadro della visita. (Res)

Serbia-Armenia: governo Belgrado approva provvedimento per eliminazione visiti per cittadini armeni (Agenzianova 28.10.19)

Belgrado, 28 ott 11:46 – (Agenzia Nova) – L’ultimo giorno di visita, sabato 5 ottobre, Sarkissian ha deposto una corona di fiori presso il monumento in onore del popolo armeno a Belgrado. I due presidenti hanno ribadito la volontà di rafforzare la cooperazione e aprire un nuovo capitolo nelle relazioni bilaterali. “Questa è la mia prima visita in Serbia. I nostri popoli hanno legami storici e culturali secolari, che oggi crescono in relazioni bilaterali dinamiche, fondate sulla visione del futuro”, ha detto il presidente armeno. “Insieme abbiamo confermato l’impegno e il desiderio di rafforzare la cooperazione e aprire un nuovo capitalo nei nostri rapporti”, ha ancora detto Sarkissian indicando per la cooperazione economica i settori dal maggiore potenziale, dall’agroalimentare all’alta tecnologia fino al turismo. (segue) (Seb)

La Camera dei Rappresentanti Usa pronta a riconoscere ufficialmente il Genocidio Armeno (Il Messaggero 26.10.19)

La Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti d’America è pronta a mettere ai voti una risoluzione per il riconoscimento ufficiale del Genocidio armeno, il piano di sterminio della comunità armena, costato 1 milione e mezzo di vittime, e portato avanti dall’Impero Ottomano nel 1915. Il voto sulla risoluzione è stato inserito nei lavori parlamentari della prossima settimana. Si tratta di un passaggio molto importante, caldeggiato dalla comunità armena ma finora fortemente osteggiato dalla realpolitik a favore della Turchia. A determinare l’avanzata della risoluzione sembra che sia stato lo stesso Trump – hanno fatto notare diversi giornali americani – per fare pressioni su Erdogan protagonista di una operazione bellica in Siria contro i curdi.

​Mozione genocidio armeno, la Turchia convoca l’ambasciatore italiano ​ad Ankara

La risoluzione era stata presentata da alcuni parlamentari lo scorso aprile, e da allora aveva ricevuto il sostegno di 117 rappresentanti della Camera, attualmente a maggioranza democratica.

«Ci prepariamo ad un provvedimento sulle sanzioni alla Turchia, e anche un provvedimento sul Genocidio armeno. Sono certo che il governo della Turchia sarà scontento per entrambe queste due azioni, ma del resto anche noi non siamo contenti del governo turco» ha spiegato Eliot Engel, Presidente della Commissione esteri della Camera dei Rappresentanti.

Regione Lazio approva mozione per riconoscere il genocidio armeno

La comunità armena ha manifestato soddisfazione per questo passaggio tanto atteso.  «Il recente attacco turco a gruppi etnici vulnerabili – ha dichiarato Brian Ardouny, Direttore esecutivo della Armenian Assembly of America – conferma la necessità che il Congresso riconosca in ermini inequivocabili il Genocidio armeno, approvando le risoluzioni già presentate alla Camera dei Rappresentanti e al Senato».

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Fino ad oggi, i diversi tentativi messi in atto negli USA da associazioni armene per far votare risoluzioni parlamentari sul riconoscimento del Genocidio armeno sono caduti nel vuoto, a causa dell’opposizione delle diverse amministrazioni presidenziali interessate a non compromettere i buoni rapporti tra Turchia e Stati Uniti.

In passato, i Presidenti  Carter e  Reagan avevano usato l’espressione Genocidio armeno, ma successivamente George Bush e Obama avevano prudentemente evitato di utilizzare questa espressione. In Turchia parlare di genocidio armeno è punibile con il carcere: esiste un articolo del codice penale che prevede punizioni per chi attenta all’unità della nazione.

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ASIA/TURCHIA – Parlamento USA mette in agenda il voto sul riconoscimento del Genocidio armeno (Fides 25.10.19)

Washington (Agenzia Fides) – La Camera dei Rappresentanti USA, ramo del Congresso degli Stati Uniti d’America, si prepara a mettere ai voti una risoluzione che comporterebbe il riconoscimento ufficiale da parte statunitense del Genocidio armeno, il massacro sistematico di armeni perpetrato nei territori della Penisola anatolica nel 1915. Il voto sulla risoluzione in questione è stato inserito nell’agenda dei lavori parlamentari della prossima settimana. La risoluzione era stata presentata da alcuni parlamentari lo scorso aprile, e da allora aveva ricevuto il sostegno di 117 rappresentanti della Camera, attualmente a maggioranza democratica. Nel contesto delle tensioni in atto tra Usa e Turchia sugli scenari siriani, il voto parlamentare sulla controversa questione del Genocidio armeno viene esplicitamente presentata da alcuni suoi supporter come un potenziale fattore di pressione statunitense sulle scelte della leadership politica turca. “Ci prepariamo a avere un provvedimento sulle sanzioni alla Turchia, e anche un provvedimento sul Genocidio armeno. Sono certo che il governo della Turchia sarà scontento di entrambe, ma del resto anche noi non siamo contenti del governo turco” ha dichiarato in una intervista radiofonica Eliot Engel, Presidente della Commissione esteri della Camera dei Rappresentanti.
Anche associazioni e gruppi armeni operanti negli USA hanno espresso compiacimento per l’iniziativa, che secondo alcuni media gode del sostegno della democratica Nancy Pelosi, Presidente della Camera. “Il recente attacco turco a gruppi etnici vulnerabili” ha dichiarato Brian Ardouny, Direttore esecutivo della Armenian Assembly of America in riferimento all’intervento militare turco nei territori della Siria nord-orientale “conferma la necessità che il Congresso riconosca in ermini inequivocabili il Genocidio armeno, approvando le risoluzioni già presentate alla Camera dei Rappresentanti e al Senato”.
Fino ad oggi, i diversi tentativi messi in atto negli USA da associazioni armene per far votare risoluzioni parlamentari sul riconoscimento del Genocidio armeno sono caduti nel vuoto, a causa dell’opposizione delle diverse amministrazioni presidenziali interessate a non compromettere i buoni rapporti tra Turchia e Stati Uniti. Il Presidente USA Donald Trump, come riferito da Fides (vedi Fides 25/4/2017), nell’aprile 2017 aveva dedicato un pronunciamento ufficiale ai massacri pianificati subiti nella Penisola anatolica dagli armeni nel 1915, ma aveva evitato di applicare a quei massacri sistematici la definizione di “Genocidio armeno”, accodandosi alla linea seguita dai suoi ultimi 4 predecessori per non suscitare reazioni risentite da parte della Turchia.
In passato, i Presidenti USA Jimmy Carter e Ronald Reagan avevano usato l’espressione “Genocidio armeno”, ma poi, da George H.W Bush a Barack Obama, l’espressione era scomparsa da lessico dei leader della Casa Bianca nei loro pronunciamenti ufficiali.
La stampa USA ricorda che il Presidente Obama, anche a causa delle pressioni turche sul Congresso USA, aveva accantonato la promessa fatta durante una campagna elettorale di riconoscere la natura genocidaria dei massacri subiti nell’attuale territorio turco dagli armeni più di un secolo fa. (GV) (Agenzia Fides 25/10/2019)

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Lo sterminio degli armeni – Prima parte – (Laluce.news 24.10.19)

Pubblicheremo la storia delle delle persecuzioni contro gli armeni culminate nel genocidio del 1915-1918. Questa è la prima di dieci parti. 

La Fine del XIX Secolo 

La serie di persecuzioni scatenate contro le popolazioni armene a partire dal penultimo decennio del XIX secolo, culminate nel genocidio del 1915-1918, sono riconducibili a cause di assoluta immanenza e ben spiegabili in termini puramente materialisti, attingendo alla documentazione disponibile, alla geopolitica ed alla sociologia. Le cause dello sterminio sono una costellazione riconducibile pressoché in blocco al travolgente impatto delle strutture sociali del tempo con la modernità, piuttosto che ad una metafisica e sostanzialmente risibile “malvagità islamica” buona soltanto per rafforzare in un’opinione pubblica decerebrata e pornofila la solita foia securitaria in gran voga oggidì.

A partire dall’inizio dell’era moderna in Armenia – termine che storicamente indica un territorio almeno dieci volte più ampio di quello attualmente sotto la sovranità di Erevan – accanto ad una maggioranza di contadini si era andata formando una classe borghese abbastanza numerosa ed influente, i cui usi, la cui cultura ed i cui consumi erano profondamente influenzati dai corrispettivi europei; le testimonianze documentali della situazione sono imponenti e confermano l’alto livello di vita di professionisti, commercianti ed artigiani concentrati in comunità ad Istanbul, a Izmir ed in altri grossi centri, nonché sparpagliati in tutta l’Anatolia. I musei delle comunità armene ancora esistenti, come quella di Esfahan nella Repubblica Islamica dell’Iran o quella siriana di Aleppo, mostrano la raffinatezza anche materiale di cui la borghesia armena riusciva a circondarsi. A questo fenomeno si univano i legami culturali con gli Stati europei, primi tra tutti la Francia e la Russia, nelle cui università ricevevano formazione anche parecchi giovani armeni.

L’élite cui abbiamo accennato viveva gomito a gomito con curdi, turchi e molte altre popolazioni in un mondo che a tutti i livelli dava per scontate due cose che oggi inimmaginabili: la normalità della differenza, e l’idea che essa differenza non implicasse una particolare superiorità o inferiorità. Nonostante la scarsità di beni materiali e la sua influenza sulla qualità della vita, nel territorio imperiale – come in tutti i territori imperiali – coesistevano comunità dai costumi diversissimi. Le basi pratiche e ideologiche per il genocidio vanno ricercate non in un “islam” buono per gli articoli dei giornalini “d’Occidente”, ma nell’irruzione travolgente della modernità e delle idee nazionaliste. Lungi dal costituire un monolito “islamico”, l’Impero ottomano aveva concesso ad esempio fino alla metà del XIX secolo ai propri sudditi non musulmani di prestare servizio come dragomanni (interpreti, guide, segretari) per una potenza straniera; alla carica si accompagnavano esenzioni fiscali ed uno statuto giuridico particolare, che consentiva ai dragomanni di farsi proteggere dallo stato per il quale operavano.

Questa polverizzazione di diritti e privilegi venne meno durante la tanzimat, la “riorganizzazione” imperiale tentata negli stessi anni per tentare di metabolizzare gli effetti e l’influenza della modernità, che tra le altre cose dotò di rappresentanze e di assemblee proprie i millet, le nazionalità comprese nell’impero.

L’inizio del precipitare delle sorti armene va fatto risalire almeno al 1878, anno a partire dal quale divenne sempre più evidente che la supremazia ottomana in Europa orientale aveva i giorni contati. Il trattato di Santo Stefano ed il seguente congresso di Berlino (congresso il cui scopo sostanziale era quello di limitare l’influenza russa nella regione) avevano imposto all’impero perdite territoriali molto consistenti, vissuti dai militari come una deminutio capitis insanabile. Da sempre puntello del potere e forza sociale tra le più influenti, la casta militare godeva nell’impero, ed ha continuato a godere nella Turchia contemporanea, di un prestigio e di un’autorevolezza molto alti.

Con gli ultimi anni del XIX secolo va facendosi strada ad Istanbul – e presso essa classe militare – la convinzione che gli altri Stati europei (che le idee nazionaliste le hanno prima prodotte e poi fatte completamente proprie, improntando ad esse la propria forma di Stato e la propria politica interna ed estera) abbiano in agenda lo smembramento e l’occupazione dell’impero alla prima occasione favorevole; la politica di Abdulhamid II, al trono dal 1876, si basa sull’autoritarismo e sulla burocratizzazione: gli aspetti peggiori del nazionalismo vengono fatti propri dalla burocrazia, con l’abbandono dell’idea di una “cittadinanza ottomana” ed il recupero strumentale dell’appartenenza religiosa per legare all’etnia turca gli altri popoli musulmani non turchi, la cui aggressività viene diretta contro i cristiani. Dal 1891 i curdi sono irreggimentati in reparti semiregolari, su modello di quelli cosacchi: la cavalleria hamidiana è destinata alla guardia personale del sultano ed alla sorveglianza della frontiera con l’Impero russo e sarà tra le forze militari protagoniste dei successivi eventi.

Nel nuovo stato di cose, nel nuovo ordinamento giuridico che paga all’ideologia nazionalista tributi via via più pesanti e dagli effetti sempre più articolati, i non turchi, i non musulmani non soltanto diventano rapidamente “altra cosa” rispetto ai gruppi maggioritari, ma prendono essi stessi coscienza nazionale. In territorio ottomano nascono società segrete armene su modello carbonaro; a Van, nel 1885 lo Armenakan; a Ginevra il Hntchack e a Tbilisi il Dashnaksutiun. Rifacendosi al trattato di Berlino ed agendo nelle zone di una frontiera ondivaga, le formazioni armene tentano di assicurare le funzioni statali in cui Istanbul non riesce più a mostrarsi efficiente, facendo crescere tra gli armeni la percezione della propria appartenenza nazionale e la prospettiva dell’autogoverno.

La minoranza radicale è protagonista degli avvenimenti: nel 1890 un processo pubblico ad Istanbul è occasione per scaramucce e per proclami contro il Sultano. Pochi mesi dopo una colonna di appartenenti al Dashnaksutiun provoca un incidente di frontiera e la repressione arriva immediata, con l’arresto di religiosi di spicco e la sospensione dell’assemblea del millet armeno. Gli attivisti armeni rispondono con attentati. Nell’estate del 1894, nella zona di Sasun, tre villaggi rifiutano di pagare una seconda volta imposte già pagate ad esattori curdi: la cavalleria hamidiana rastrella la zona facendo migliaia di morti e la notizia arriva in Europa occidentale senza che la propaganda imperiale riesca a controbattere in modo efficace: la sproporzione tra atti di guerriglia o di insubordinazione e successiva rappresaglia è intollerabile agli occhi di chiunque. Le violenze dei tre anni successivi, note grazie a una nutrita serie di rapporti consolari, causarono duecentomila morti e si accompagnarono alla distruzione di chiese e villaggi.

Nel 1896 un commando armeno compì uno spettacolare assalto alla Banca ottomana di Istanbul, centro degli interessi europei nell’Impero: l’atto fu seguito da un’altra ondata di repressione e l’opinione pubblica europea si divise ancora una volta sull’opportunità di azioni cui corrispondeva immancabilmente una reazione sproporzionata, mentre le esigenze di una politica realista imponevano a Francia e Russia di barcamenarsi tra le “verità” della propaganda imperiale e quella delle note consolari.

Nonostante l’interpretazione dei massacri hamidiani di quegli anni sia ancora oggetto di dibattito, la volontà politica che li muoveva, ossia il restauro del vecchio ordine, ne fa qualcosa di non genocidario; i massacri costituiscono una sostanziale ammissione di impotenza da parte della Sublime Porta ad affrontare gli stravolgimenti sociali che la modernità comportava: non l’eliminazione degli armeni come popolo ma il restauro del sistema dei millet e l’eliminazione dell’attivismo radicale erano gli obiettivi di Abdulhamid, che verrà poi sconfitto dalle forze da lui stesso messe in moto.

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Armenia in bicicletta Maroso e il tour benefico (Giornale di Vicenza 24.10.19)

Un viaggio in Armenia per conoscere la storia del suo popolo e visitarne le bellezze ma senza dimenticare la solidarietà. Undici persone, appartenenti all’associazione Ponti di Pace di Bassano, hanno trascorso la seconda metà di agosto nello Stato del Medio Oriente. Della comitiva faceva parte anche il sindaco di Cassola, Aldo Maroso. Il gruppo, in Armenia, si è spostato in bicicletta, percorrendo un totale di 600 chilometri, su 1200 totali, in 8 giorni di pedalate. «Scopo del viaggio era non tanto, o non solo, visitare alcuni tra i siti archeologici più celebri dell’Armenia – riferisce Silvano Mocellin, uno dei referenti dell’associazione – ma andare di persona a vedere il villaggio dove ricostruiremo un ambulatorio medico, finanziandone il funzionamento». Il villaggio si trova nel nord-ovest dell’Armenia e l’ambulatorio sarà in appoggio all’ospedale “Redemptoris Mater” di Ashotsk, paese distrutto dal terremoto del 1988, che fece migliaia di vittime. Qui Papa Giovanni Paolo II vi volle costruire un ospedale, che fece gestire dai padri Camilliani, e una rete di ambulatori medici sparsi lì intorno, in un altopiano a 2000 metri. Padre Mario Cuccarollo è il direttore amministrativo. Il costo del progetto si aggira sui 20mila euro, che l’associazione vorrebbe finanziare integralmente. «Abbiamo approfittato del viaggio per recarci anche a Tbilisi le ultime due notti – racconta Mocellin – dove qualche anno fa avevamo finanziato, in un centro della Caritas, un campetto da calcio tuttora ben conservato e utilizzatissimo dai ragazzi della capitale georgiana». L’associazione Ponti di Pace è nata nel 1989 in occasione della storica spedizione ciclistica Bassano-Venezia -Mosca. È formata da un gruppo di amici con idee, professioni e interessi diversi, ma con la passione comune della bicicletta. Bicicletta intesa come mezzo di trasporto per viaggiare, incontrare persone e scoprire luoghi nuovi. Fu però la spedizione Bassano-Venezia-Pechino del 2001 a imprimere una nuova svolta all’impegno dell’associazione. All’epoca i partecipanti, in visita al villaggio di Surami, rimasero molto colpiti dalla povertà e dall’accoglienza dei bambini di strada.

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Tradimenti, terrorismo e violenza: la storia del Kurdistan (ilbolive.unipd 23.10.19)

Il conflitto in Kurdistan ha una storia piuttosto complessa, fatta di tradimenti, promesse non mantenute, equilibri politici instabili e, soprattutto di violenza. Quando si fa riferimento al Kurdistan si va a indicare una vasta zona, di circa 550.00 chilometri quadrati, che si snoda tra il Nord della Siria e dell’Iraq, il vicino confine con Iran e Armenia e, infine, la parte orientale della Turchia. Non si tratta di un vero e proprio stato, ma piuttosto di un popolo che da un secolo rivendica la sua identità e chiede di essere autonomo. Secondo le stime i curdi sono tra i 30 e i 45 milioni, di cui più o meno la metà vive in Turchia. Nel Paese di Erdogan i curdi rappresentano una consistente minoranza: il 20% della popolazione totale.

Questo popolo è da sempre stanziato nella parte nord della Mesopotamia e, dopo un periodo di emirati indipendenti, è stato annesso all’Impero Ottomano e all’Iran unificato dai Safavidi. Per l’Impero Ottomano le tribù curde, da subito, rappresentarono un problema di ordine interno, finché venne presa la decisione, sotto consiglio tedesco, di creare la cavalleria leggera “Hamidiye” e di sfruttare il loro caldo temperamento per tenere sotto controllo altre minacce, per esempio quella armena. Nei piani del sultano c’era la totale integrazione delle tribù curde nell’Impero, infatti assicurò dei posti di riguardo a corte a tutti quei notabili curdi che, se non si fossero schierati al suo fianco, sarebbero stati di certo contro di lui. La politica di integrazione portò ad alcuni frutti, per esempio, agli inizi del 1900 nacque una classe media curda, di tipo borghese, formata a Costantinopoli e in contatto con le idee borghesi europee di quel tempo. E che discendeva dai principi curdi che avevano combattuto contro l’Impero Ottomano.

Con l’avvento della Grande guerra l’avventura nazionalistica dell’Impero Ottomano giunse al suo ultimo atto, e il Paese venne smembrato dalla conferenza di pace di Parigi. Le decisioni prese dalla conferenza furono molte, ma in questa sede basterà ricordare che vennero decise l’autonomia del Kurdistan, anche se i suoi confini dovevano essere ancora stabiliti, e l’indipendenza dell’Armenia. Il problema fu che queste decisioni vennero prese senza tenere conto del movimento nazionalista turco che controllava militarmente tutta l’Anatolia orientale. Anche il successivo trattato di Sévres prevedeva la creazione di uno stato curdo, sebbene ridimensionato, ma è con il seguente trattato di Losanna che i curdi furono traditi per la prima volta. Era il 1923 e il Kurdistan fu frammentato a seconda degli interessi delle potenze vincitrici. Iniziarono in quel momento le lotte del popolo curdo per il riconoscimento del diritto di poter creare un proprio stato, lotte che sono state represse, talvolta con episodi così violenti da costringere una parte del popolo a migrare lontano dalle proprie terre.

A seconda della realtà politica in cui il popolo curdo fu incluso ci furono evoluzioni diverse, pur sempre accomunate dalla repressione. La Turchia fondata dal generale Kemal Ataturk, uno dei protagonisti della guerra d’indipendenza, inizia la repressione militare in vista di uno stato centralizzato e sfavorevole alle minoranze: la popolazione curda viene obbligata a rinnegare la propria lingua e a “turchificarsi”. Altri curdi furono inclusi in Siria, che era un protettorato francese, e altri ancora in una “nuova creazione” sotto protettorato britannico: l’Iraq. La richiesta di indipendenza continuò a essere viva nei decenni successivi, ma tornò in primo piano dopo il secondo conflitto mondiale.

Il professore di storia delle relazioni internazionali Antonio Varsori ripercorre le principali tappe del conflitto del Kurdistan

Un nuovo spiraglio di speranza si affacciò all’alba del 1946, quando l’Unione sovietica incoraggiò i curdi a fondare uno stato autonomo. Nasce quindi la Repubblica di Mahabad nella porzione di Kurdistan iraniano: non uno stato a tutti gli effetti, ma una realtà che chiedeva di essere riconosciuta all’interno dello stesso Iran. La repubblica durò soli undici mesi: l’obiettivo dell’Urss era di annettere l’Iran del nord e, una volta ritirate le truppe sovietiche dal territorio, la Repubblica fu rasa al suolo. Mustafa Barzani, uno dei leader militari della Repubblica, tornò nel suo paese di nascita, l’Iraq e da qui guidò una rivolta nazionalista curda. Seguì un conflitto che durò fino al 1970, con episodi di guerriglia armata e di conseguenti repressioni.

Qualche anno più tardi anche per i curdi siriani iniziarono grossi problemi: circa il 20% di loro si vide espropriare le terre a favore di arabi e assiri, perse la cittadinanza, il diritto di voto e di partecipazione politica. Erano visti come una minaccia alla Siria unita, quindi nel giro di un decennio circa 30.000 curdi furono sfollati. Fu creata una sorta di “cintura araba” che separò il Kurdistan siriano dal Kurdistan della Turchia.

Il popolo curdo ha, purtroppo, un pesante primato: si tratta della popolazione più tradita. Una nuova promessa di aiuto per uno stato curdo venne fatta, e infranta, da Richard Nixon e Mohammad Reza Pahlavi, rispettivamente a capo di Stati Uniti e Iran. Nel 1972 lo Scià si rivolse a Nixon con la richiesta di dare sostegno alla rivolta dei curdi in Iraq. Nixon accettò e fornì armi ai ribelli, con lo scopo di minare la stabilità del Paese, a quel tempo filo-sovietico. Nel 1975 però, il sovrano persiano si accordò con l’Iraq e gli Stati Uniti si ritirano. Il popolo curdo si trovò abbandonato per la seconda volta.

Il conflitto si inasprì nuovamente attorno agli anni Ottanta, quando lo scontro militare si intensificò soprattutto in Turchia e in Iraq. A dare nuova linfa alle rivendicazioni curde furono una serie di movimenti politici, tra cui il più noto fu il Partito dei lavoratori del Kurdistan, il PKK. Fondato dal curdo con cittadinanza turca Abdullah Ocalan, aveva come obiettivo la creazione di una repubblica indipendente curda. Il PKK prevedeva l’uso indiscriminato della violenza: si insediò in Iraq del nord e da qui compì gli attentati terroristici contro la Turchia. Il conflitto, mai realmente risolto, causò migliaia di vittime su entrambi i fronti, e durò quarant’anni.

Prima di arrivare ai periodi più recenti, occorre fare riferimento a un’altra triste pagina del conflitto. Quando la guerra tra Iran e Iraq volse al termine, alla fine degli anni Ottanta, Saddam Hussein salì al potere a Bagdad e iniziò un vero e proprio genocidio contro la popolazione curda nel Paese. Il più tristemente noto fu l’attacco chimico di Halabja, nel marzo 1988, con cui furono uccisi con il cianuro 5.000 curdi, colpevoli di non aver opposto sufficiente resistenza al nemico iraniano. La repressione fu quindi durissima, ma la questione curda ritornò alla ribalta quando, nel 1990, l’Iraq invase il Kuwait. Le Nazioni unite risposero con l’embargo e Hussein concesse ai curdi l’autorizzazione di coltivare la “terra di nessuno”, ovvero le frontiere con Iran e Turchia. Nel 1991 fu George W. Bush, un altro presidente statunitense, a sostenere una nuova rivolta curda, anche questa strumentale per indebolire il Rais, ma la rivolta degli sciiti e dei curdi fu repressa nel sangue. Gli Stati Uniti imposero così una no-fly zone sulle montagne al confine tra Turchia e Iraq dove i curdi si erano rifugiati in migliaia, accordo che rimase valido fino al 2003 quando gli Stati Uniti invasero il Paese. Dopo la caduta del regime di Saddam Hussein la situazione si pacificò e la zona nord dell’Iraq ha ottenuto il riconoscimento di regione federale autonoma, con il nome di Kurdistan-Iraq o anche Regione del Kurdistan. Il ritiro delle truppe americane da questi territori si è concluso solo nel 2011, anno in cui si è formato anche un altro tipo di autonomia in Medioriente, il Rojava.

Lo scoppio della guerra civile siriana ha permesso ai curdi dello stato di formare un’amministrazione autonoma, nota come Rojava e ufficialmente riconosciuta dal governo. Il controllo del territorio fu ottenuto dall’Unità di protezione popolare, un gruppo di combattenti legato al PKK, e successivamente alleato con gli Usa, per contrastare l’avanzata dell’Isis.

Nel frattempo in Turchia, il PKK, che aveva dichiarato il cessate il fuoco nel 1999, decise di infrangerlo nel 2004. Recep Tayyip Erdogan, da poco insediatosi al governo turco, promise di risolvere la questione curda con più democrazia rispetto ai suoi predecessori: riabilitò l’uso della lingua curda, restaurò i nomi di alcune città curde e approvò una parziale amnistia per ridurre le condanne ai militanti del PKK incarcerati. Lo stesso Ocalan, dal carcere, invocò la fine della lotta armata. Ma nel 2015 Erdogan, per questioni legate alla guerra civile in Siria e per motivi elettorali, ha interrotto la tregua e ha scatenato una guerra contro il separatismo curdo. Riprende così la guerriglia nel sud-est del Paese, con attentati anche su Istanbul e Ankara. Con una serie di decreti, possibili grazie alla dichiarazione di stato d’emergenza effettuata da Erdogan dopo il tentativo di golpe subito, organizzazioni, scuole di lingue e istituzioni culturali curde sono state chiuse, e a ridosso del confine siriano i sindaci eletti sono stati deposti e sostituiti da amministratori. La guerra di Erdogan ai curdi si fa ogni giorno più dura, non solo nei confini nazionali, ma anche in territorio siriano.

La guerra al califfato dell’Isis ha visto per molti anni le milizie curde in prima linea in Siria, così pensava di dare vita, nella zona, a una regione con ampia autonomia come successo in Iraq, ma questa prospettiva non piace alla Turchia, che invece non concepisce la creazione di uno stato curdo lungo i suoi confini a est. La presenza dei marines americani in quella zona ha scongiurato ogni azione militare da parte della Turchia, ma nel 2018 è il presidente americano Donald Trump ad annunciare il ritiro delle sue forze armate, perché la guerra contro l’Isis è stata vinta. Dopo grandi proteste contro l’abbandono degli alleati, Trump si trova costretto al dietrofront, fino al 7 ottobre 2019, quando Trump dà l’ordine definitivo. Con gli americani diretti verso casa, la strada è sgombra per l’invasione turca della Siria.

L’obiettivo dichiarato di Erdogan è spazzare via la presenza delle milizie curdo siriane Unità di protezione popolari (YPG) e Unità di protezione delle donne (YPJ) dalle zone a ridosso della sua frontiera. Nella notte tra il 9 e il 10 ottobre la Turchia ha dato inizio alla sua “Operazione fronte di pace”, che con la sua violenza si è dimostrata piuttosto un imbroglio linguistico.

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System Of A Down e Korn agli I-Days Milano 2020 (Spettakolo.it 23.10.19)

È tempo di nuovi grandi annunci per I-DAYS Milano 2020, la rassegna musicale che porterà sul palco i grandi artisti internazionali la prossima estate.

Dopo l’annuncio di Billie Eilish (per la prima volta headliner di un festival italiano il 17 luglio), ora è la volta dei System Of A Down e dei Korn, sul palco del MIND – Milano Innovation District (area expo) venerdì 12 giugno 2020. 

biglietti per la data saranno disponibili per l’acquisto in anteprima a partire dalle ore 10.00 di lunedì 28 ottobre 2019 per i possessori di carte Intesa Sanpaolo sul sito www.ticketone.it/intesasanpaolo (per 48 ore).
La messa in vendita generale partirà invece dalle ore 11.00 di mercoledì 30 ottobre su www.livenation.it, www.ticketmaster.it e www.ticketone.it

System of A Down tornano in Italia dopo essersi esibiti due anni fa a Firenze Rocks, dove avevano infiammato il palco della Visarno Arena.
Stati Uniti e Armenia, due mondi opposti che trovano la perfetta unione nello stile inconfondibile e nella musica della band, formatasi in California da membri di origine armena. Serj Tankian (voce, tastiere, chitarra), Daron Malakian (chitarra e voce), Shavo Odadjian (basso, cori) e John Dolmayan (batteria) sono emersi nel 1994 e sono i massimi rappresentanti del genere nu-metal/alternative-metal. Da allora il successo di critica e pubblico non li ha mai abbandonati, come testimoniano i cinque album in studio pubblicati (di cui tre hanno debuttato alla #1 nella Billboard US Chart) e i 40 milioni di dischi venduti nel mondo. Nominato a 4 Grammy Awards e vincitore di 1 Grammy per ‘la miglior performance Hard-Rock’ con il brano B.Y.O.B nel 2006, il gruppo continua ad esibirsi sui palchi di tutto il globo con show che sono pura ‘dinamite’, senza mai tralasciare l’‘impegno’, legato a temi sociali e messaggi politici importanti.

Korn hanno cambiato il mondo con l’uscita del loro album omonimo nel 1994. La musica della band, formata da Jonathan Davis (voce), James “Munky” Shaffer e Brian “Head” Welch (chitarra), Reginald “Fieldy” Arvizu (basso) e Ray Luzier (batteria), è divenuta la ‘colonna sonora’ di un’intera generazione. I Korn hanno venduto 40 milioni di dischi nel mondo, vinto due Grammy Awards e segnato record fino ad ora rimasti imbattuti nel campo del rock e nu-metal.. The Ringer li considera addirittura un vero e proprio “movimento, come nessuna band oggi potrà mai essere”.

I-DAYS 2020 si tiene nello stesso spazio che nelle scorse stagioni ha accolto Eminem, Pearl Jam e Imagine Dragons, al MIND Milano Innovation District – Area Expo, una zona verde specifica attrezzata per i grandi concerti, altamente qualificata e dotata di tutti i servizi: treno e metropolitana che la collegano al centro di Milano, parcheggi, servizi igienici residenti, un’ampia zona food & beverage con una vasta e variegata offerta di cibi e bevande, anche vegetariani e vegani. Un ambiente adeguato per accogliere nel miglior modo il pubblico della musica live internazionale.

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Perché il Kurdistan non esiste? (Focus 23.10.19)

La “questione curda” è tornata alla ribalta con le recenti azioni militari turche sul confine siriano, ennesima tragedia per un popolo formalmente “senza terra”, nonostante una promessa di quasi 100 anni fa. Le origini della crisi sono infatti legate alla caduta dell’Impero Ottomano, processo iniziato alla vigilia del primo conflitto mondiale e conclusosi nell’arco un decennio. Peraltro, quell’Impero non aveva più la grandiosità di un tempo, quando Costantinopoli giganteggiava su tutto il Medio Oriente e il Nord Africa, ma era una potenza ridimensionata alla penisola anatolica e poco più.

LA FINE DELL’IMPERO OTTOMANO. Un duro colpo era stato inflitto con il Trattato di Londra del 1913, firmato dopo le guerre balcaniche, quando l’Impero – già privato di tutti i territori in Nord Africa – perse anche la sovranità sui Balcani. Tre anni più tardi, inoltre, con l’accordo segreto Sykes-Picot, Gran Bretagna e Francia si spartirono a tavolino le zone arabe dell’Impero Ottomano, estendendovi la propria influenza pur garantendo alle varie aree una parvenza di indipendenza. Con la sconfitta nella Grande Guerra, l’Impero fu definitivamente smembrato con il Trattato di Sèvres, firmato il 10 agosto 1920, che definì i nuovi confini della Turchia. Il Paese ne uscì gravemente mutilato, perdendo tra l’altro i territori prossimi alla Siria, passati sotto controllo francese.

 

Trattato di Sèvres, 1920

L’Impero Ottomano spartito tra le Potenze dell’Intesa nel 1920. | WIKIMEDIA

 

CURDI E ARMENI: LE TERRE PROMESSE. Il trattato imposto da Francia, Impero Britannico, Grecia, Italia e altre potenze alleate durante la Prima guerra mondiale prevedeva anche azioni concrete a favore delle minoranze etniche, come i curdi e ciò che restava degli armeni dopo il genocidio operato dai turchi. Il trattato imponeva la cessione di una parte del territorio turco alla Repubblica di Armenia (che però di lì a poco sarebbe stata assorbita dallURSS), e stabiliva che una specifica commissione della Società delle Nazioni (organizzazione che precedette l’ONU) avrebbe dovuto garantire al popolo curdo uno Stato indipendente. In altre parole, i curdi ricevettero la “promessa” di un Kurdistan.


Nel 1915 la Turchia pianificò il genocidio di oltre un milione e mezzo di armeni, uomini e donne, vecchi e bambini, “tutti traditori” (se non oggi, domani) quanto oggi i curdi sono “tutti terroristi”


Il progetto non troverà però mai alcun seguito. Sulla scena pubblica dell’Impero Ottomano si era affacciato il generale Mustafa Kemal, meglio noto come Atatürk, “padre dei turchi”, pronto a rivoluzionare lo stato delle cose. Kemal si fece promotore di un intenso e combattivo nazionalismo turco, riuscendo a scacciare la presenza straniera dal territorio (guerra d’indipendenza del 1919-1922) e a rovesciare l’ultimo sultano ottomano, Maometto VI. Il progetto politico del nuovo leader, quello di creare uno Stato moderno e laico, cozzava però con le disposizioni di Sèvres: il trattato fu quindi stracciato, e nell’ottobre del 1922 ripresero le negoziazioni con le potenze europee.

I TRADIMENTI DELL’OCCIDENTE. L’accordo fu trovato infine nel 1923 con la firma del Trattato di Losanna, che sancì il riconoscimento internazionale della Repubblica di Turchia. Questa, a sua volta, si impegnò a riconoscere alle comunità di greci, armeni ed ebrei presenti nel territorio lo status di minoranze nazionali. Del progetto del Kurdistan invece si perse ogni traccia: la maggior parte del territorio storicamente appartenente ai curdi rientrò nei confini orientali della Turchia, mentre il resto fu suddiviso tra Siria, Iraq, RSS Armenia e Iran.

Non solo: dal momento che non era stata riconosciuta come minoranza, la comunità curda divenne perseguibile, e così, da allora, questo popolo ha dovuto imparare a combattere per non estinguersi, continuando a rivendicare con fierezza una piena indipendenza.

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