Campania Europa Mediterraneo: focus sul genocidio armeno (Ilvaglio.it 01.05.19)

A San Giorgio del Sannio (Palazzo Bocchini), presso l’Associazione Campania Europa Mediterraneo, sabato 4 maggio alle ore 19 è in programma la presentazione del libro “Il CHICCO ACRE DELLA MELAGRANA”, scritto a quattro mani dalla giornalista Letizia Leonardi e dal professionista armeno Giorgio Kevork Orfalian. E’ il primo degli eventi dedicati all’Armenia, paese ospite, insieme al Libano, della dodicesima edizione del Premio Internazionale Giornalistico e Letterario MARZANI, in programma nel mese di settembre 2019.All’appuntamento, si legge in una nota, pareciperanno Letizia Leonardi, Amerigo Ciervo (presidente ANPI provinciale), Enzo parziale (presidente di Campania Europa Mediterraneo), Mario Pepe (sindaco di San Giorgio del Sannio.

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Letizia Leonardi, è nata a Civitavecchia nel 1965 e attualmente residente a Piombino. Giornalista professionista, ha lavorato nelle redazioni di Civitavecchia dei quotidiani nazionali «Il Messaggero» e «Il Tempo». Ha pubblicato contributi sulla cultura armena su riviste e volumi. Ha tradotto dal francese Mayrig (Divinafollia, 2015), il libro autobiografico di Henri Verneuil, presentato, per la prima volta, al Salone Internazionale del Libro di Torino e in moltissimi eventi pubblici. Come giornalista free lance, ha collaborato con diversi giornali on line e pubblicazioni cartacee. Si è laureata in Scienze Economiche e Bancarie presso l’Università degli Studi di Siena, È stata anche insegnante di Diritto, Economia e Scienza delle finanze.

Kevork Orfalian, figlio della diaspora armena, è nato a Tripoli nel 1950 e attualmente vive tra Roma e Yerevan. Si è diplomato nel prestigioso collegio armeno Moorat Raphael di Venezia. Ha lavorato per importanti ditte nel commercio internazionale come agente di vendita per il mercato dell’est Europa e del Golfo Arabo. Parla 7 lingue e ha dedicato e dedica gran parte del suo impegno alla Comunità Armena di Roma e d’Italia. Accusato ingiustamente di essere un terrorista armeno ha scontato molti mesi di dura prigionia nelle carceri turche

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Il genocidio armeno: La Francia ricorda, la Turchia nega (Lopinione.it 30.04.19)

La “Questione armena”, o meglio il genocidio del popolo armeno, è uno di quei “momenti” della Storia che per opportunità “politiche” ed economiche, si tende e si è teso a trascurare. Emmanuel Macron ha voluto mantenere una promessa elettorale fatta nel 2017 istituendo, il 24 aprile, il giorno della “Memoria armena”, in ricordo della retata di intellettuali armeni avvenuta a Costantinopoli nel 1915. La “Questione armena” ha una genesi di matrice geopolitica, e si inserisce all’interno della “Prima Questione d’Oriente”; ricordo, che l’Impero Ottomano assunse la definizione di “malato d’Europa”, dopo la storica sconfitta inflitta dall’Alleanza Cattolica, guidata da Giovanni III Sobieski, a Kara Mustafa sotto i bastioni viennesi, il 12 settembre 1683; inizia da quella data la contrazione territoriale della Porta, che si conclamerà, con la sconfitta nella guerra russo-turca del 1878.

La conseguente e controversa Pace (trattato) di Santo Stefano regolata dalla Russia il 3 marzo 1878, riduce l’Impero ottomano a circa le dimensioni dell’attuale Turchia; ricordando che se l’esercito russo non fosse stato fermato “diplomaticamente” dalla Gran Bretagna, dall’Impero Austro Ungarico e dalla Francia, a pochi chilometri da Costantinopoli, si sarebbe realizzato il “Progetto Greco” di Caterina II, programmato un secolo prima, che prevedeva il ritorno della Capitale ottomana nell’ambito del Cristianesimo dopo la conquista islamica del 1453. La vittoria russa liberò dal dominio della Porta quasi tutta l’area danubiano-balcanica e allentò la “pressione” anche nel Vicino oriente. Tuttavia i termini del Trattato di pace non furono ne condivisi ne recepiti dalle altre potenze europee (ovviamente escluse dal Tavolo), che spinsero il Sultano a temporeggiare sui termini dell’applicazione dell’accordo, a causa della grande e legittima ascendenza che la Russia avrebbe esercitato sui territori liberati dal giogo ottomano. Il successivo trattato di Berlino del 13 giugno 1878, convocato da Andrássy, aprì una conferenza internazionale nella quale la Pace di Santo Stefano sarebbe stata esaminata per apportare le variazioni idonee ad un bilanciamento d’interessi tra le nazioni europee, a scapito della Russia vincitrice e tracciando un nuovo assetto dei Balcani. E’ proprio da questo nuovo “assetto” geostrategico che nascono, dai popoli liberati dall’oppressione turca, le rivendicazioni sui territori, sui diritti in generale e sulla necessità di riformare i sistemi sociali e politici che per secoli erano stati disciplinati da una supremazia su base religiosa ed etnica (nonostante qualche sfumata pseudo Costituzione liberale). Dopo la Serbia, il Libano, la Grecia e la Bulgaria, anche l’Armenia e la Palestina diventano temi di “interesse” internazionale. Il territorio tradizionalmente abitato dagli armeni, a inizio Ottocento, era diviso tra l’Impero Ottomano, quello Persiano e quello Russo, La parte anatolica subì un processo di islamizzazione e turchizzazione che si accentuerà per tutto il XIX secolo, favorito dal regime fondiario ottomano. La maggior parte degli armeni erano contadini, legati alla famiglia patriarcale, alla Chiesa e al villaggio, ma era presente anche una minoranza urbana di mercanti, architetti, medici, finanzieri, che vivevano a Costantinopoli o in altre grandi città. L’avido interesse internazionale, presente al “capezzale” ottomano, suscitò grandi aspettative nel popolo armeno, conscio della propria fragilità e generalmente sfiduciato; le mancate riforme, però, indussero alla nascita di partiti tendenzialmente radicali-rivoluzionari, come l’Amenakat fondato a Van nel 1885, il partito Hunchakian nato a Ginevra 1887, ed il Dashnak Suction a nato a Tblisi nel 1990 di ispirazione socialista. Brevemente, la conseguenza della nascita di correnti ideologiche “sovversive”, da l’inizio ad una escalation di violenze diffuse ed articolate ai danni della popolazione armena, che portò, già tra il 1890 ed il 1896, ad una prima forte oppressione dei Turchi contro l’antica comunità cristiana degli armeni, che si manifestò con stragi, distruzioni di chiese, sostituite da moschee, circa duecentomila uomini armeni furono uccisi ed iniziarono le prime consistenti deportazioni. L’entrata nel primo conflitto mondiale dell’Impero ottomano a fianco dell’Impero tedesco, nasce su un principio che sarà il filo conduttore delle azioni turche, cioè l’identificazione della Guerra nel jihad; lo scopo del Sultano Abd ul-Amid, era quello di andare oltre lo spirito di sopraffazione, identificando il “conflitto” su principi religiosi, etnici e nazionalisti, in una visione della politica, per la prima volta centripeta. L’arresto di quasi 3mila armeni, dirigenti politici, leader di comunità, commercianti, intellettuali, uomini d’affari, giornalisti, funzionari pubblici e studenti, segna l’inizio, il 24 aprile 1915, dell’eccidio degli armeni. La “ripulitura” etnica dell’Anatolia, della Cilicia, della città di Zeytun, seguita dalla regione di Van lungo la linea del Mar Nero, fino al confine persiano, dalla presenza della popolazione armena era l’obiettivo principale delle direttive del Ministero dell’Interno di Costantinopoli. Varie risoluzioni di “valore” internazionale hanno rilevato la gravità del genocidio, fino alla risoluzione del 1946 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, che definiva l’azione turca come: “… il rifiuto al diritto all’esistenza di un intero gruppo umano …”. Da quel momento venne istituito un Comitato giuridico, che tra varie ratifiche, nel 1950, approva la Convenzione sul genocidio armeno. Il 26 novembre 1968 le Nazioni Unite votarono la decisione che prolungava indefinitamente la responsabilità dei crimini, con la Convenzione dell’imprescindibilità dei crimini di guerra contro l’Umanità.

Molti studiosi hanno scritto su tale tragico evento: Vahakn Dadrian, Bernard Bruneteau, Guenter Lewy, Marcello Flores ed altri, tutti con lo scopo di analizzare le cause e gli effetti sociologici che hanno tracciato il destino ed il “profilo” del popolo armeno, ma con il sicuro e voluto “effetto collaterale” di “rimarcare”, con varie letture, l’oggettività imprescindibile delle realtà storiche. Tuttavia la giornata della “Memoria armena” di Emmanuel Macron, non lo ha visto, per ora, in prima linea, è stato compito del primo ministro, Edouard Philippe, di partecipare ad una cerimonia, a Parigi, nell’ottavo arrondissement, davanti alla statua dell’armeno Padre Komitas, morto a Parigi nel1935; altrove sono stati autorizzati i prefetti ad organizzare analoghe manifestazioni e cerimonie nei loro dipartimenti di competenza.

Le dinamiche ideologiche del Genocidio, non possono essere comprese se si riducono le cause alle componenti di breve e medio periodo, e che si sono catalizzate all’inizio della Guerra, esse devono essere analizzate inserendole nel processo di crisi e “modernizzazione” dell’Impero ottomano, valutando soprattutto il ruolo avuto dal nazionalismo nel contesto della Prima guerra mondiale, che costituisce il sub strato ideologico che ha permesso deportazioni e massacri. Ritengo, inoltre, che i problemi fondamentali del Genocidio sconfinano le considerazioni sul destino di un particolare gruppo di vittime o le peculiarità di un rapporto tra il carnefice e la sua vittima; quello che considero pertinente sono i concetti di memoria e “impunità”, che non dovrebbero prevedere ne oblio ne tempi di “prescrizione”. Le dinamiche e gli interessi economici e politici hanno spesso condizionato la Storia, rendendone parziale o errata la conoscenza pubblica; è rilevante ricordare ed analizzare i tragici eventi del secolo passato e di questo secolo, al fine di non occultare le spesso controverse considerazioni che vengono date su drammatici momenti storici, specialmente quando si parla di genocidi. Il tardivo riconoscimento, il frequente schizofrenico revisionismo, l’ignoranza ed il negazionismo (turco in questo caso), sono un altro aspetto del “genocidio mentale” che purtroppo spesso subisce una sempre più rilevante parte della massa.

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Nagorno Karabakh: la vita dopo la guerra (Osservatorio Balcani e Caucaso 30.04.19)

Il 2 aprile 2016 è ricordato come l’inizio della cosiddetta Guerra dei quattro giorni, tra Nagorno-Karabakh e Azerbaijan. Come risultato di quella guerra vi furono più di cento vittime, grandi distruzioni e l’abbandono di centri abitati situati in prossimità delle operazioni militari. Sul lato del Karabakh, è stato il villaggio di Talish ad essere evacuato. Il 2 aprile le truppe azerbaijane riuscirono ad entrare nel villaggio dove, in quel momento, risiedevano numerosi civili. I militari dell’Azerbaijan mutilarono e uccisero Marusya Khalapyan, nata nel 1924, suo figlio Valera e la moglie di lui Razmela.

Gli altri abitanti del villaggio fuggirono e si nascosero per giorni nei dintorni e solo quando venne dichiarato il cessate il fuoco rientrarono a Talish trovando uno scenario terribile: il villaggio era distrutto, più di metà delle case erano demolite ed inabitabili, molte macchine e macchinari agricoli erano stati bruciati e centinaia di capi di bestiame erano stati uccisi.

Mataghis

Situazione simile era quella di Mataghis, presso Talish. Le case severamente danneggiate e i colpi di artiglieria che cadevano ogni giorno impedirono a lungo ai suoi residenti di rientrare. Narek Sargsyan è da 8 anni che vive a Mataghis, nel nord del Nagorno-Karabakh. 8 anni fa vi arrivò per aiutare un amico a ristrutturare la sua casa ma poi, innamorato della natura di questo luogo, decise di rimanervi a vivere.

“Quando arrivai per la prima volta qui pensavo che di tanto in tanto sarei ritornato a Gyumri, seconda città dell’Armenia, di cui sono originario. Ma dopo quanto accadde nell’aprile 2016 mi sono reso conto non avrei mai più abbandonato Mataghis. Dopo la guerra guardo al mondo in modo diverso e guardo a Mataghis in modo diverso”, afferma Sargsyan.

Mataghis, nella regione di Martakert, è uno dei luoghi più pericolosi sul versante del Karabakh. Nella guerra degli anni ’90, Mataghis, assieme a decine di altri insediamenti nelle vicinanze, venne conquistato dalle truppe dell’Azerbaijan e parzialmente distrutto. Nell’aprile del 1994 venne liberato e i suoi residenti tornarono lentamente alle loro case incominciando la ricostruzione.

Il secondo grave attacco al villaggio avvenne nell’aprile del 2016. Venne bombardato per giorni. Ciononostante i suoi abitanti sono riusciti per due volte a superare l’orrore della guerra e sono ripartiti a ricostruire le loro vite.

Attualmente Mataghis ha 540 residenti di cui 245 sono bambini e ragazzini sotto i 17 anni. “Di fatto è ancora in corso una guerra non dichiarata. Spesso sentiamo colpi di arma da fuoco sparati dal nemico. Per fortuna senza morti. Siamo così abituati a sentire spari che senza per noi sarebbe troppo tranquillo”, afferma Sargsyan. Dopo i fatti dell’aprile 2016 quasi tutti sono rientrati alle proprie case e i lavori di ristrutturazione sono quasi terminati.

Talish

La vita è tornata anche a Talish, epicentro della guerra dell’aprile 2016. Tre anni fa anche questo villaggio venne quasi completamente distrutto. I più anziani, le donne e i bambini lasciarono il villaggio. “Nei giorni della guerra di aprile abbiamo rapidamente portato le donne ed i bambini via dal villaggio. Era troppo pericoloso. Per un lungo periodo vivemmo solo noi uomini qui. Quando necessario, diventavamo soldati. Se serve difenderemo le nostre terre con i denti”, ribadisce Petros Abrahamyan.

“Portai mia moglie e i miei figli in un posto sicuro. Poi tornai in municipio per organizzare lo sfollamento della popolazione. Poi, quando mi resi conto che la situazione peggiorava, portammo via tutti gli abitanti del villaggio”, ricorda Vilen Petrosyan, sindaco di Talish.

Attualmente molto è in ricostruzione e ovunque vi sono cantieri aperti. La scuola del paese, l’asilo e il centro culturale sono già a buon punto. “Sono state risistemate numerose case e sono stati ostruiti nuovi appartamenti: sono dodici gli edifici in ricostruzione e dovrebbero essere consegnati per giugno o luglio”, afferma il sindaco aggiungendo che non tutti gli abitanti originari sono ancora rientrati a Talish ma che è un processo che sta arrivando a compimento.

Sono 22 le case del villaggio ricostruite grazie ai finanziamenti messi a disposizione dalla Hayastan All-Armenian Fund, fondo istituito con decreto del presidente dell’Armenia nel 1992 la cui missione è quella di unire armeni in Armenia e della diaspora per superare le difficoltà del paese e aiutare a stabilire uno sviluppo sostenibile in Armenia e in Nagorno Karabakh. Il programma, “ricostruzione di Talish” del Fondo è stato lanciato nel maggio del 2018 con un investimento sino ad ora di 506 milioni di drams (equivalente di circa 920.000 euro).

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Il genocidio armeno e la politica eurasiatica italiana (Lintellettualedissidente.it 30.04.19)

La Camera dei Deputati ha approvato una mozione che impegna il governo a riconoscere formalmente il genocidio consumato ai danni del popolo armeno: un gesto che ribadisce i forti legami culturali e religiosi tra Roma ed Erevan e conferma il progressivo riavvicinamento dell’Italia al cuore pulsante dell’Asia.

di Maxence Smaniotto – 30 Aprile 2019

Il 10 aprile 2019 la Camera ha approvato la mozione che riconosce il genocidio dei sudditi armeni dell’impero ottomano ad opera del governo dei Giovani Turchi, nel 1915, in piena Prima guerra mondiale. La mozione è passata con 382 voti favorevoli, 0 contrari e 43 astenuti, cioè tutti i deputati di Forza Italia. Fortemente voluta dalla Lega e da Fratelli d’Italia, la mozione è stata ugualmente sostenuta dal Partito Democratico, e impegna il governo Conte a riconoscere pienamente il genocidio del 1915. Considerati come quinta colonna agli ordini della Russia, i panturchisti che avevano conquistato il potere nell’impero ottomano in occasione della rivoluzione del 1909 massacrarono un milione e mezzo di armeni che vivevano nelle regioni orientali dell’impero, in ciò aiutati dalle tribù kurde e dai Circassi. Roma è di conseguenza a un passo dal divenire il ventinovesimo Paese al mondo a riconoscere i massacri del 1915 per quello che furono: un genocidio, la volontà, da parte della maggioranza turcofona e sunnita, di eliminare ogni minoranza religiosa, a cominciare dalla più numerosa, quella cristiana degli armeni. Ma non furono solamente loro ad essere massacrati, le loro donne vendute come schiave negli harem e i loro orfani turchizzati al fine di sradicarne l’identità. Ben prima dei demenziali massacri ad opera dello Stato Islamico, yezidi, aleviti, assiro-caldeani e greci patirono ricorrenti persecuzioni che sfociarono in nuovi massacri durante il genocidio degli armeni e proseguono periodicamente fino ad oggi. I legami storici e attuali tra l’Italia e gli armeni Seppur poco conosciuto in Italia, il genocidio degli armeni è stato raccontato attraverso vari libri, documentari e film di produzione nostrana. Segno che, anche se l’Armenia non figura tra i paesi più conosciuti da parte degli italiani, suscita malgrado tutto un certo interesse e una sicura e reciproca simpatia. Eppure i legami tra l’Italia e il popolo armeno esistono da secoli, soprattutto grazie gli scambi commerciali e culturali tra gli armeni del regno di Cilicia e la Repubblica di Venezia, nell’Alto Medioevo. Svariate comunità armene s’insediarono a Genova, Livorno, Sicilia e Ravenna nel corso dei secoli. La prima stamperia di Livorno è nata grazie all’iniziativa di un sacerdote armeno, nel 1643, e il primo libro mai stampato in armeno ha visto la luce proprio a Venezia, nel 1512.

La casa madre dell’Ordine dei mechitaristi, fondato dal monaco benedettino Mechitar nel 1700, si trova sull’isola di San Lazzaro degli Armeni, nella laguna di Venezia (pare che Iosif Stalin vi soggiorno’ nel 1907, lavorandovi come campanaro prima di recarsi in Svizzera per incontrarvi Lenin, allora in esilio). Mechitar Il genocidio del 1915 si rivelerà un’altra occasione per rinsaldare i legami tra l’Italia e gli armeni. Giacomo Gorrini, console a Tresibonda, sarà un importante testimone oculare del massacro e delle deportazioni. Dopo il genocidio l’Italia accolse varie migliaia di sopravvisuti, che s’installarono principalmente a Venezia, Padova e Milano. Oggi i rapporti diplomatici tra Erevan e Roma sono solidi e si basano in buona parte sui legami storici e culturali tra i due Paesi, soprattutto sulle comuni radici cristiane, in quanto l’Armenia fu il primo Paese al mondo ad adottare il cristianesimo come religione di Stato nel 301. Paese piccolo, senza sbocchi sul mare e con due frontiere, quelle con la Turchia e con l’Azerbaigian, chiuse e militarizzate, l’Armenia non rappresenta un importante sbocco commerciale per l’Italia, i cui investimenti sono molto ridotti. Allora perché riconoscere il genocidio degli armeni e inimicarsi così la Turchia (20 miliardi di euro in scambi commerciali nel 2018 secondo i dati della SACE) e l’Azerbaigian, da cui Roma dipende in buona parte per le forniture di petrolio e rischiare così delle ritorsioni economiche?

 Dinamismo internazionale

L’Italia del trittico Salvini-di Maio-Conte mostra un dinamismo sulla scena internazionale a cui più nessuno era abituato. Il ventennio berlusconiano aveva assuefatto gli italiani alla sudditanza americana e a rispondere, secondo un riflesso pavloviano ben collaudato dal secondo dopoguerra, al suo braccio armato, la NATO. Ciò ha portato il Bel Paese a impantanarsi nelle avventure brancaleonesche di Iraq, Libia e Afghanistan, contribuendo cosi a quel disastro geopolitico e umanitario che sono il Medio-oriente e il Nord Africa dal 2001. La parentesi di sinistra del governo di Massimo d’Alema (1998-2000), che non esitò a partecipare ai bombardamenti della Serbia socialista e sovranista di Slobodan Milosevic al fine di creare quell’oasi di democrazia e benessere che è il Kosovo, aveva mostrato i germogli di una nuova sinistra oggi nel pieno della sua maturità. Ieri no-global, localista e anti-militarista, oggi riconvertita alla globalizzazione, al neo-liberalismo e agli interventi militari per “ragioni umanitarie”, cosi care ai neocon statunitensi e francesi, da Bernard-Henri Lévy al cineasta sessantottino Romain Goupil, dal fondatore di Medici senza frontiere Bernard Kouchner al filosofo ex-maoista André Glucksman. Da ultimo il grigio inverno del PD e dei governi cosiddetti «tecnici» la cui azione internazionale si riduceva a chiedere consiglio a Bruxelles, Berlino e Parigi, tacendo spudoratamente sul dramma greco e sulle cause della guerra nel Donbass.

Una nuova politica internazionale per Roma, dunque? L’attuale governo di Giuseppe Conte sembra tentare di far intendere la propria voce non solamente quando si tratta di battibeccare su budget nazionale e architettura europea, ma ugualmente sui dossier libici, cinesi e del Medio Oriente, con i soliti alti e bassi che caratterizzano l’ondivaga politica nostrana. Il riconoscimento del genocidio armeno pare rientrare in questa linea. Esso non può essere esclusivamente inteso come un atto simbolico né come un disinteressato gesto di simpatia nei confronti del piccolo paese caucasico. L’atto deve essere sostenuto da una logica. Dispiacerà a due paesi fondamentali per l’economia europea e italiana: la Turchia che, irritata, l’otto aprile ha convocato l’ambasciatore italiano Massimo Gaiani per protestare, ma ugualmente il suo alleato principale, l’Azerbaigian, a cui le truppe armene hanno strappato la regione del Nagorno-Karabakh al termine di una sanguinosa guerra svoltasi tra il 1988 e il 1994.

Come precedentemente accennato, Ankara e Baku sono partner commerciali imprescindibili per Roma. Ma l’importanza nei confronti di questi due paesi va ben al di là del commercio. Dall’Azerbaigian arriva, tramite l’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan (BTC), alla cui costruzione ENI ha partecipato per il 5%, il 17,7% delle importazioni di petrolio in Italia. E il BTC passa dalla Georgia, bypassa l’Armenia, attraversa tutto il Kurdistan turco e sfocia sulle coste mediterranee dell’Anatolia. Ma la Turchia è allo stesso tempo membro della NATO, di cui possiede il secondo esercito dopo quello USA, possiede una numerosa diaspora in Germania e Francia, e accoglie un gran numero di rifugiati provenienti da tutti il Medio oriente, che spedisce in Europa quando necessita di far pressione politica e economica sull’UE, come fu il caso nel 2015. La crisi e le sue conseguenze hanno contribuito a indebolire Angela Merkel, a discreditare Bruxelles, a rafforzare il governo di Viktor Orban in Ungheria e a far eleggere Sebastian Kurz in Austria. E certamente a incrementare i consensi per la Lega e Fratelli d’Italia.

Pur essendo un paese piccolo e dal mercato interno poco interessante, l’Armenia rappresenta però un partner politico di primo piano grazie alla sua posizione geografica e alle sue alleanze politiche e militari. Si trova al cuore del Caucaso e alla frontiera dell’Iran, alleato della Russia, verso cui l’Italia sta tentando un riavvicinamento non solo economico, dal momento che le sanzioni volute dagli USA hanno pesantemente colpito le esportazioni italiane, ma anche culturale e politico. Dal 2014 l’Armenia fa parte dell’Unione Economica Eurasiatica (UEE) a guida russa e composta da Kazakistan, Bielorussia e Khirghizistan, e, dal 2002 dell’Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva (CSTO). L’Armenia si trova inoltre sul percorso delle Nuove Vie della Seta (BRI) che, nei progetti di Pechino, dovrebbero legare l’Europa alla Cina in funzione antistatunitense, passando da Asia centrale, mar Caspio e, appunto, Caucaso. L’Italia ha recentemente firmato degli accordi commerciali con la Cina per diventarne il terminal, aprendo potenzialmente così le porte dell’Europa centrale all’Impero Celeste, la cui attività diplomatica e economica in Armenia sta crescendo. Nel complesso mosaico militare, politico e economico del Caucaso e dell’Asia centrale, l’Armenia è dunque un tassello importante, e delle buone relazioni con esse implicano il potenziale accesso, in quanto partner e investitore, a un ampio spazio economico e politico tutt’altro che fermo su se stesso.

Roma sembra voler tentare un’emancipazione dall’abbraccio soffocante di USA e UE orientando a sua politica economica all’Est e nell’Estremo Oriente. Il riconoscimento del genocidio degli armeni potrebbe dunque essere interpretato secondo diversi punti di vista. Un segnale di avvicinamento a quell’idea eurasiatica, cara a intellettuali come Alexander Dugin e Robert Steuckers, che sembra prendere forma con l’UEE a guida russa. Ma anche una dichiarazione implicita alla Turchia conservatrice e sunnita di Recep Erdogan, a cui una parte del governo italiano rifiuta l’adesione all’UE, ricordandole che l’Italia ha vocazione a ribadire la sua cristianità di fronte a un Paese i cui rapporti con lo Stato Islamico e altri gruppi fondamentalisti islamici sono stati (e rimangono) ben più che ambigui.

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NICHELINO – Un flash-mob dei ragazzi della scuola media: solidarietà ai compagni armeni Lyana e Jury (Torinosud.it 30.04.19)

lash mob degli allievi della scuola media Aldo Moro, questa mattina in piazza Di Vittorio. I ragazzi, accompagnati dalla dirigente scolastica, dagli insegnanti e dai genitori, hanno voluto, in modo creativo, testimoniare la loro solidarietà a due compagni di scuola armeni, Lyana di prima media, e Jury di terza media, repentinamente allontanati da Nichelino insieme ai genitori e alla sorellina.
Alle 8 del mattino, due mesi fa, è stato comunicato alla famiglia che doveva immediatamente lasciare Nichelino e andare a Riva di Chieri. «Non sono un pacco» è stato lo slogan che ha caratterizzato il flash mob dei ragazzi durante il quale è intervenuta anche l’assessora alle Politiche Sociali della Città di Nichelino.
«Nella nostra città, sono stati cinque i nuclei familiari costretti a un trasloco forzato», fanno sapere dall’amministrazione comunale che ha pubblicato la notizia dell’iniziativa sulla pagina Facebook ufficiale del Comune (dalla quale sono tratte le immagini dell’iniziativa dei ragazzi).

Genocidio degli armeni, la commemorazione a Brancaleone (ntcalabria.it 29.04.19)

GENOCIDIO DEGLI ARMENI, LA COMMEMORAZIONE

Il consueto appuntamento commemorativo si è svolto giovedì 25 Aprile a Brancaleone vetus. Una manifestazione patrocinata dall’ambasciata della repubblica Armena di Roma e dal comune di Brancaleone che ogni anno attira un gran numero di pubblico nel borgo.
La giornata si è aperta nel segno dei saluti e dei ringraziamenti a cura del presidente della pro loco Carmine Verduci. Lo stesso ha sottolineato il grande impegno dei soci dell’associazione e del Consorzio di bonifica basso ionio reggino per il progetto “Renaissance Brancaleone vetus”. Un progetto che ha riqualificato e messo in sicurezza il borgo antico consentendo così una fruizione idonea alle visite e a questa manifestazione in particolare. Presenti anche il viceprefetto Salvatore Mottola di Amato che ha posto i saluti a nome della triade commissariale di Brancaleone che dal secondo anno partecipa all’evento con grande entusiasmo.

LA BENEDIZIONE DEL PANE

Sebastiano Stranges, anima di questo importante evento, ha proseguito con un racconto sulle origini dei primi insediamenti Armeni tra l’ VIII e IX secolo d.C. in questo territorio, oggi conosciuto come “Valle degli armeni”. La prima parte si è conclusa con la benedizione del pane Armeno (lavash) benedetto da Don Vladimiro Calvari delegato dal Parroco Don Ivan Iacopino, assente per impegni parrocchiali.
Al termine del cerimoniale di benedizione del pane Armeno, la folla che si trovava chiesa Maria SS Annunziata del vecchio borgo si è diretta in corteo verso l’antica chiesa Protopapale del borgo con una solenne fiaccolata. Sul sito è stata accesa la “fiamma della Memoria” e osservato un minuto di silenzio in memoria dei martiri Armeni, trucidati dai turchi nel 1915 quando occuparono i loro territori.

VISITA ALL’ALBERO DELLA VITA

Il pomeriggio è proseguito con la visita alla chiesa grotta denominata Albero della vita con Sebastiano Stranges. Lo stesso ha illustrato le caratteristiche di questi primi insegnamenti Armeni a Brancaleone e nei dintorni, come BruzzanoStaiti e Ferruzzano. Presente all’evento anche una nota cooperativa che ha presentato i vini dell’azienda caratteristici per la somiglianza dei vini Armeni; e la presenza di uno dei massimi esperti della viticoltura e dell’archeologia del territorio, il prof. Orlando Sculli.
L’organizzazione ha sottolineato l’importanza dell’evento che ha unito il dramma del popolo Armeno, presente all’evento con una piccola delegazione di Calabria e Sicilia, e gli aspetti culturali e i costumi con la presenza di abiti tipici dell’Armenia indossati dal Presidente della Pro Loco Carmine Verduci e dalla giovane Themina Arshakyan d origine armena.

ANCORA UN SUCCESSO

Per l’ennesimo anno, si è registrato un successo di presenze con diverse associazioni del territorio presenti all’evento; moltissimi provenienti dalla Sicilia, dal reggino, dalla locride e dal Cosentino.

“Eventi come questo – ha sottolineato la pro loco di Brancaleone – servono a ricordare tragici eventi storici che ci toccano da vicino, e che alcune nazioni come la Turchia ancora negano. Un forte segnale del Governo italiano è arrivato quest’anno con il riconoscimento del Genocidio in Senato; motivo per cui siamo veramente orgogliosi di questo importante atto di riconoscimento”.

La manifestazione avrà appuntamento l’anno prossimo sempre il 25 aprile giorno della liberazione Italiana; data emblematica, che rappresenta l’unione di due momenti storici e tragici della storia mondiale.

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“Hotel Gagarin”: la commedia di Simone Spada per la 13esima edizione del Nonantola Film Festival (Modena2000.it 29.04.19)

Una commedia agrodolce su ciò che il cinema rappresenta e sull’Europa di oggi, seconda delle sei opere prime di giovani registi e registe presenti in rassegna quest’anno come da mission della manifestazione. Con la proiezione ad ingresso gratuito di “Hotel Gagarin” – il film d’esordio del regista torinese Simone Spada, classe 1973  – continuano domani lunedì 29 aprile alle ore 21.00 gli appuntamenti alla Sala Cinema Massimo Troisi di Nonantola nell’ambito della tredicesima edizione del Nonantola Film Festival, organizzato dall’omonima associazione affiliata Arci. Tra i protagonisti di questa commedia ironica, intelligente e commovente, Claudio Amendola, Luca Argentero, Giuseppe Battiston, Barbora Bobulova, Silvia D’Amico e un ritrovato Philippe Leroy.

Cinque italiani, spiantati e in cerca di un’occasione, vengono mandati a girare un film in Armenia. Appena arrivati scoppia una Guerra e il sedicente produttore sparisce con i soldi. Abbandonati all’Hotel Gagarin, isolato nei boschi e circondato dalla neve, trovano il modo di inventarsi un’originale e inaspettata occasione di felicità che non potranno mai dimenticare. Una commedia divertente, poetica e sgangherata come i suoi protagonisti, che parla di sogni, di cinema e di incontri.

 

Note di regia

“Sentivo l’esigenza di raccontare una storia di speranza, sogni, popoli ed esseri umani marginali di varia natura e di raccontarla col sorriso della commedia, attraverso il mezzo che amo e conosco meglio: il cinema. Ho pensato a un film che non parla di cinema ma che lo usa come pretesto, come possibilità di esplorazione, di emozione, di incontri. Sono sempre stato affascinato dai più deboli, perché nella loro salvezza c’è una possibilità di un mondo migliore. I miei protagonisti rappresentano, per sesso ed età, un po’ tutti noi, con i nostri desideri, i nostri problemi, i nostri sogni. Affascinato da un territorio montagnoso e innevato, da un paese che per tantissimi anni è stato parte dell’Unione Sovietica, ma che non ha mai perso le sue peculiarità e radici ho pensato all’Armenia come luogo nuovo, sconosciuto e pieno di fascino, possibilità di condivisione umana e culturale tra diversi popoli. L’Armenia ricorda per certi versi l’Italia del dopoguerra, ricca di tradizioni culturali, territoriali, storiche e religiose, ma al tempo stesso protesa verso un futuro politico ed economico moderno e aperto. Hotel Gagarin vuole essere una commedia romantica, brillante, malinconica e un po’ visionaria. È la possibilità di fare un viaggio divertendosi, un film in movimento nonostante si svolga principalmente in un unico grande ambiente. È un tentativo di farci sognare, ridere, emozionarci o intristirci, come faceva, una volta, la commedia all’italiana che ci faceva uscire dal cinema più consapevoli e felici. Per concludere, vorrei sottolineare la frase di Lev Tolstoj che il professor Nicola Speranza (Giuseppe Battiston), in una scena del film, cita ai suoi compagni di viaggio: “Se vuoi essere felice, comincia”. Questa frase racchiude il senso profondo che ho voluto dare a questa avventura, il mio modo di intendere questo film e più in generale la vita.” (Simone Spada)

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Storico incontro. Festival delle Religioni, segretario vaticano e patriarca Armeni uniti nella diversità della fede (Agenziaimpress.it 29.04.19)

Storico incontro alla Basilica di San Miniato di Firenze tra il segretario di Stato vaticano, cardinale Pietro Parolin, e Karekin II, patriarca supremo degli Armeni. L’appuntamento ecumenico è avvenuto durante il Festival delle Religioni, diretto da Francesca Campana Comparini. La scelta del luogo di San Miniato non è affatto casuale: la splendida basilica fiorentina prende infatti nome dal protomartire Miniato, un re proveniente dall’Armenia che fu ucciso a Firenze dall’imperatore Decio in epoca di persecuzione cristiana, nella metà del III secolo. La Chiesa Apostolica Armena deriva da una delle prime comunità cristiane ed è tra le più antiche Chiese del mondo: le prime testimonianze dell’avvento del cristianesimo in Armenia risalgono infatti al I secolo, ad opera degli apostoli Taddeo e Bartolomeo.

L’intervento di Karekin II, Catholicos di tutti gli Armeni, è partito proprio da quelle origini per soffermarsi poi sul tema della fede e sul ruolo delle chiese cristiane nella società e nella storia. Nel suo discorso, il patriarca degli Armeni ha sostenuto che oggi «la Chiesa cristiana nella sua missione dovrebbe necessariamente statuire l’unico esempio della relazione tra fede e verità nella società, relazione che è confermata dal credere nel proprio cuore, conferita dalle opere della vita virtuosa e dando frutto con il miglioramento della vita quotidiana e del risveglio spirituale di milioni di persone». Karekin II sfiorando l’attualità ha affermato: «Oggi, le manifestazioni estreme della percezione di fede sono diventate normali. Da una parte, alcuni gruppi e individui desiderosi di vivere secondo l’esempio della fede percepiscono la loro verità come esclusiva, spesso un fenomeno di espulsione, e non di rado a spese di una società che per lo più non condivide questa opinione. Dall’altra parte, il sentimento della fiducia individuale e pubblica nei valori inalienabili nati dall’unione di verità e di fede è considerato con qualche riserva. Questo sentimento della fiducia individuale e pubblica nei valori inalienabili è visto come qualcosa di strettamente privato, ed è lasciato alla coscienza individuale.Certamente la scelta della verità di fede è una realtà molto personale e privata – ha sostenuto il patriarca armeno – eppure la sua manifestazione, nella prospettiva della Chiesa cristiana, crea la Chiesa del Dio vivente, il pilastro e il fondamento della verità. È così che la fede, come verità basata su valori eterni, viene trasformata da livello personale e individuale di verità in una diritta via che guida nella vita».

Il segretario di Stato Parolin: «Cristaini siano fattori di unità» Il segretario di Stato vaticano, il cardinale Parolin, nel suo lungo intervento ha avuto modo di affrontare varie tematiche – dal dialogo tra chiese, alle difficoltà della Chiesa di oggi, oltre ad una profonda riflessione sul valore della preghiera. Al termine dell’incontro ha voluto soffermarsi sull’importanza dell’incontro ecumenico: «Credo che nel mondo di oggi, lacerato da tanti conflitti e da tante tensioni, i cristiani – ancor prima di parlare del dialogo interreligioso – prima di tutto devono essere fattore di unità, e per diventare elemento di unità all’interno della società devono cercare primariamente l’unione tra di loro. Che è poi la preghiera più ardente di Gesù nel Cenacolo, ‘che tutti siano uno’, pur nelle loro differenze, come spesso ricorda il Papa. L’unità non è uniformità ma mettere insieme le proprie differenze e farle convergere in un mettere insieme le proprie differenze e farle convergere in un arricchimento comune».

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24 Aprile 1915, si consuma IL GRANDE MALE, il genocidio Armeno (Caserta24ore 27.04.19)

(di Arcangelo SANTORO) Il genocidio armeno — oltre un milione e mezzo di donne, uomini, anziani, bimbi — ha motivazioni profonde e terribili. L’origine del “grande male”, come gli armeni chiamano il disastro del 1915 ha radici e motivi storicamente chiari ma, per tanti motivi, misconosciuti. Dimenticati. Rimossi.
Per cercare di capire le ragioni di questa terribile “pulizia etnica” dobbiamo tornare alla fine dell’Ottocento. Sul Bosforo. Negli ultimi caotici anni dell’impero ottomano, il “grande malato”.
Nell’ultimo decennio del secolo del XIX secolo gran parte dei quadri dell’esercito del sultano — per lo più affiliati alla massoneria d’osservanza filo francese, ma anche a logge britanniche e italiane – si organizzarono clandestinamente in opposizione al regime di Abdulhamid II. Centro particolarmente attivo dell’opposizione fu la piazzaforte di Salonicco. Qui nel 1906 i cospiratori costituirono la Othmânli Hürriyet Cemiyyeti (Associazione ottomana della libertà?cui aderirono ben presto vari ufficiali superiori, come Mehmet Tal’at, Cemal Bey e Enver Bey. Da quest’iniziativa risale la nascita del movimento dei “Giovani turchi”.

Nel 1907 il gruppo di Salonicco prese contatto con gli oppositori in esilio in Europa per dar luogo a una fusione formale nel Comitato di unione e progresso, il fatidico CUP.
Obiettivo dei “Giovani turchi” era apparentemente il ripristino della costituzione del 1876, da tempo sospesa. Quando Abdulhamid — uomo diffidente, arcigno ma non stupido — decise di fermare gli ufficiali coinvolti, le truppe di Salonicco minacciarono (luglio 1908) una marcia su Istanbul.
Molto malvolentieri il sultano fu costretto a ripristinare la costituzione. Le elezioni del 1908 portarono in parlamento una maggioranza appoggiata dal Comitato. Ma in concomitanza con le votazioni, l’impero fu scosso dalla dichiarazione d’indipendenza della Bulgaria (che si annetté la Rumelia orientale), dalla rivolta di Creta, che fu annessa alla Grecia, e dall’annessione di Bosnia ed Erzegovina nell’impero austroungarico. I Giovani turchi vennero accusati di aver perduto in men di un anno più territori di quanti Abdulhamid ne aveva perso in tutto il suo regno. Non minori erano le difficoltà interne: la maggioranza si sgretolò quando il parlamento e il governo dovettero affrontare i problemi finanziari e amministrativi. Il sultano tentò una controrivoluzione (13 marzo 1909), subito stroncata dal comando militare di Salonicco.
Deposto l’iroso monarca, subito sostituito dal più docile Mehmet V, i “Giovani turchi” assunsero dirette responsabilità di governo e con un ulteriore colpo di stato insediarono un triumvirato dittatoriale che, sotto l’impulso di Enver, strinse ulteriormente i legami con la Germania di Guglielmo II.
L’armata ottomana fu riorganizzata con l’aiuto di missioni militari tedesche, supervisionate dal generale Otto Liman von Sanders. Ambiguamente, la Marina ottomana rimase, invece, sino alla vigilia della guerra sotto il controllo dei britannici. Al comando delle navi del sultano si susseguirono gli inglesi Gamble (1909-1910), Williams (1910-1911), Limpus (1911-1914). La nascente aeronautica ottomana rimase un affare francese (industriale e militare) sino al novembre del 1914.
In ogni caso, l’alleanza — seppur opaca e contraddittoria — con una grande potenza “infedele” poneva a Costantinopoli gravi problemi ideologici e, soprattutto, religiosi che si cercarono di superare mediante un’ulteriore esaltazione del nazionalismo turco. Nel 1912 fu fondata l’associazione dei Türk Ocaklarï (Focolari turchi), destinata a ridestare l’orgoglio patriottico, e cominciarono a diffondersi più vasti ideali panturanici, miranti ad unificare culturalmente e politicamente tutti i popoli d’origine turca in un impero esteso dall’Albania e dall’Ungheria sino alla Cina.
I “Giovani turchi” lanciarono una visione politica forte, ma inevitabilmente escludente. Le consistenti minoranze etnico-linguistiche e/o religiose — armeni, curdi, arabi, maroniti, greci, israeliti, circassi, etc. — che componevano il grande impero si sentirono emarginate e discriminate. Un dato inevitabile.
Forte sui Giovani turchi fu l’influenza della massoneria: Tal’at Pasha era stato dal 1909 al 1912 Gran Maestro del Grande Oriente Ottomano della massoneria, un’obbedienza legata al laicissimo Grande Oriente di Francia, e in tutti i gradi della catena di comando del regime giovane-turco durante la Prima guerra mondiale dominava una corrente massonica di impronta positivista e anti-religiosa.
Su queste coordinate fu promossa una politica di laicizzazione radicale dello Stato, ripresa poi pienamente e con maggior determinazione attuata dalla repubblica di Ataturk; fu fondata una Banca nazionale destinata a finanziare lo sviluppo interno e si incoraggiarono le iniziative imprenditoriali dei turchi disposti a sostituirsi ai membri delle minoranze armene, greche, curde, ed israelitiche, alle quali venivano drasticamente ridotte le tradizionali autonomie.
Lo scoppio della Grande Guerra nel 1914 fornì il pretesto per il massacro della folta comunità armena, considerata una “quinta colonna” — in quanto cristiana e benestante — della Russia ortodossa e zarista (sull’argomento vedi Taner Akcam Nazionalismo turco e genocidio armeno. Dall’impero ottomano alla Repubblica, Guerini e Associati, 2006), e la repressione delle altre minoranze non islamiche (e/o non turcofone). I germanici e gli austriaci, va dato loro atto, tentarono di opporsi alla ventata xenofoba del CUP e cercarono di tutelare le popolazioni cristiane e israelitiche. Purtroppo, con pochi risultati. In ogni caso i due kaiser furono gli unici ad agire e a frenare, dove possibile, la deriva di Costantinopoli. Parigi e Londra rimasero indifferenti.
Alla fine della prima guerra mondiale le potenze vincitrici costrinsero il governo turco a processare, per crimini di guerra, i leader del CUP, responsabili dello sterminio dei cristiani armeni e siriaci (un capitolo questo ancora non indagato&hellip? Retorica. Un tribunale militare turco condannò i capi del CUP alla pena capitale quando già avevano lasciato il Paese.
Sulla via dell’esilio, gli antichi padroni della Turchia trovarono tutti la morte per mano di giustizieri armeni. Il 15 marzo del 1921 lo studente Soghomon Tehlirian assassinò a Berlino Tal’at Pascià. Processato da un tribunale tedesco, fu poi assolto. Analoga sorte toccò a Cemal Bej, il secondo dei “triumviri” autori del genocidio, raggiunto e giustiziato a Tbilisi, in Georgia, da un altro giovane armeno. E armeno era pure il comandante del reparto bolscevico che il 4 luglio 1922 uccise Enver Pascià, che capeggiava un’impossibile rivolta turco-islamico-cosacca contro i bolscevichi nella regione di Buhara.
24 aprile 2019, San Fedele da Sigmaringa

Ils sont tombés
Ils sont tombés, sans trop savoir pourquoi
Hommes, femmes, et enfants qui ne voulaient que vivre
Avec des gestes lourds comme des hommes ivres
Mutilés, massacrés, les yeux ouverts d’effroi.

Ils sont tombés en invoquant leur Dieu
Au seuil de leur église ou au pas de leur porte
En troupeau de désert, titubant, en cohorte
Terrassés par la soif, la faim, le fer, le feu.

Nul n’éleva la voix dans un monde euphorique
Tandis que croupissait un peuple dans son sang
L’Europe découvrait le jazz et sa musique
Les plaintes des trompettes couvraient les cris d’enfants.

Ils sont tombés pudiquement, sans bruit,
Par milliers, par millions, sans que le monde bouge,
Devenant un instant, minuscules fleurs rouges
Recouverts par un vent de sable et puis d’oubli.

Ils sont tombés, les yeux pleins de soleil,
Comme un oiseau qu’en vol une balle fracasse
Pour mourir n’importe où et sans laisser de traces,
Ignorés, oubliés dans leur dernier sommeil.

Ils sont tombés en croyant, ingénus,
Que leurs enfants pourraient continuer leur enfance,
Qu’un jour ils fouleraient des terres d’espérance
Dans des pays ouverts d’hommes aux mains tendues.

Moi je suis de ce peuple qui dort sans sépulture
Qui choisit de mourir sans abdiquer sa foi,
Qui n’a jamais baisser la tête sous l’injure,
Qui survit malgré tout et qui ne se plaint pas.

Ils sont tombés pour entrer dans la nuit
Eternelle des temps, au bout de leur courage
La mort les a frappés sans demander leur âge
Puisqu’ils étaient fautifs d’être enfants d’Arménie.

Sono caduti
Sono caduti, senza sapere veramente il perché
Uomini, donne e bambini che volevano solo vivere
con gesti pesanti come gli uomini ubriachi
mutilati, massacrati, con gli occhi spalancati dallo spavento.

Sono caduti invocando Iddio
sulla soglia della Chiesa o della loro porta
a greggi da deserto, titubando, a coorti
stremati dalla sete, la fame, il ferro, il fuoco.

Nessuno alzo’ la voce in un mondo euforico
mentre un popolo ristagnava nel proprio sangue
L’Europa scopriva il jazz con la sua musica
i lamenti delle trombe coprivano le grida dei fanciulli.

Sono caduti pudichi, senza rumore,
a migliaia, a milioni, senza che nessuno si muovesse,
diventando per un istante, minuscoli fiori rossi
ricoperti da un vento di sabbia e di oblio.

Sono caduti, con gli occhi pieni di sole,
come un uccello che una pallottola trafigge in volo
per morire in un qualunque posto e senza lasciare nessuna traccia
ignorati, dimenticati nel loro ultimo sonno.

Sono caduti credendo con ingenuità
che l’infanzia dei propri figli sarebbe potuta continuare,
che un giorno avrebbero calcato terre di speranza
in paesi aperti di uomini dalle mani tese.

Io sono di questo popolo che dorme senza sepoltura
che sceglie di morire senza abdicare la propria fede,
che non ha mai abbassato la testa sotto l’ingiuria,
che sopravvive nonostante tutto e non si lamenta.

Sono caduti per entrare nella notte
eterna dei tempi, agli estremi del loro coraggio
la morte li ha colpiti senza chiedere loro l’età
poiché erano colpevoli di essere figli di Armenia.
C. AZNAVOUR

Ils sont tombésIls sont tombés, sans trop savoir pourquoi
Hommes, femmes, et enfants qui ne voulaient que vivre
Avec des gestes lourds comme des hommes ivres
Mutilés, massacrés, les yeux ouverts d’effroi.

Ils sont tombés en invoquant leur Dieu
Au seuil de leur église ou au pas de leur porte
En troupeau de désert, titubant, en cohorte
Terrassés par la soif, la faim, le fer, le feu.

Nul n’éleva la voix dans un monde euphorique
Tandis que croupissait un peuple dans son sang
L’Europe découvrait le jazz et sa musique
Les plaintes des trompettes couvraient les cris d’enfants.

Ils sont tombés pudiquement, sans bruit,
Par milliers, par millions, sans que le monde bouge,
Devenant un instant, minuscules fleurs rouges
Recouverts par un vent de sable et puis d’oubli.

Ils sont tombés, les yeux pleins de soleil,
Comme un oiseau qu’en vol une balle fracasse
Pour mourir n’importe où et sans laisser de traces,
Ignorés, oubliés dans leur dernier sommeil.

Ils sont tombés en croyant, ingénus,
Que leurs enfants pourraient continuer leur enfance,
Qu’un jour ils fouleraient des terres d’espérance
Dans des pays ouverts d’hommes aux mains tendues.

Moi je suis de ce peuple qui dort sans sépulture
Qui choisit de mourir sans abdiquer sa foi,
Qui n’a jamais baisser la tête sous l’injure,
Qui survit malgré tout et qui ne se plaint pas.

Ils sont tombés pour entrer dans la nuit
Eternelle des temps, au bout de leur courage
La mort les a frappés sans demander leur âge
Puisqu’ils étaient fautifs d’être enfants d’Arménie.

Sono caduti
Sono caduti, senza sapere veramente il perché
Uomini, donne e bambini che volevano solo vivere
con gesti pesanti come gli uomini ubriachi
mutilati, massacrati, con gli occhi spalancati dallo spavento.

Sono caduti invocando Iddio
sulla soglia della Chiesa o della loro porta
a greggi da deserto, titubando, a coorti
stremati dalla sete, la fame, il ferro, il fuoco.

Nessuno alzo’ la voce in un mondo euforico
mentre un popolo ristagnava nel proprio sangue
L’Europa scopriva il jazz con la sua musica
i lamenti delle trombe coprivano le grida dei fanciulli.

Sono caduti pudichi, senza rumore,
a migliaia, a milioni, senza che nessuno si muovesse,
diventando per un istante, minuscoli fiori rossi
ricoperti da un vento di sabbia e di oblio.

Sono caduti, con gli occhi pieni di sole,
come un uccello che una pallottola trafigge in volo
per morire in un qualunque posto e senza lasciare nessuna traccia
ignorati, dimenticati nel loro ultimo sonno.

Sono caduti credendo con ingenuità
che l’infanzia dei propri figli sarebbe potuta continuare,
che un giorno avrebbero calcato terre di speranza
in paesi aperti di uomini dalle mani tese.

Io sono di questo popolo che dorme senza sepoltura
che sceglie di morire senza abdicare la propria fede,
che non ha mai abbassato la testa sotto l’ingiuria,
che sopravvive nonostante tutto e non si lamenta.

Sono caduti per entrare nella notte
eterna dei tempi, agli estremi del loro coraggio
la morte li ha colpiti senza chiedere loro l’età
poiché erano colpevoli di essere figli di Armenia.
C. AZNAVOUR

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Genocidio degli Armeni, la Turchia continua a negare: ora Erdogan se la prende pure con Macron (Secoloditalia 27.04.19)

La decisione della Francia di istituire quest’anno per la prima volta una giornata di commemorazione del “genocidio armeno” il 24 aprile ha scatenato l’ira del presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, che si è scagliato contro il suo omologo francese, Emmanuel Macron, criticandolo aspramente. “Lanciare un messaggio ai 700mila armeni che vivono in Francia non ti salverà signor Macron”, ha affermato Erdogan in un discorso davanti ai funzionari dell’Akp, il suo partito, a Kizilcahamam, a nord di Ankara. “Prima impara ad essere onesto in politica. Se non lo sei, non puoi vincere”, ha aggiunto Erdogan riferendo di essersi rivolto direttamente al presidente francese “molte volte”. Secondo le stime, tra 1,2 e 1,5 milioni di armeni furono uccisi durante la prima guerra mondiale dalle truppe dell’Impero Ottomano dei cosiddetti Giovani Turchi. La Turchia tuttavia rifiuta l’uso del termine “genocidio”. Secondo Erdogan, se la Turchia avesse fatto ciò di cui è accusata, “non potremmo parlare di milioni di armeni che vivono in una vasta area, dall’Europa all’America, dal Nord Africa al Caucaso”.

Sarà il Papa il prossimo bersaglio di Erdogan?

Chissà se il prossimo bersaglio del dittatore Erdogan sarà il Papa? Storico incontro oggi infatti alla Basilica di San Miniato di Firenze tra il segretario di Stato vaticano, cardinale Pietro Parolin, e Karekin II, patriarca supremo degli Armeni. L’appuntamento ecumenico è avvenuto oggi durante il Festival delle Religioni, diretto da Francesca Campana Comparini. La scelta del luogo di San Miniato non è affatto casuale: la splendida basilica fiorentina prende infatti nome dal protomartire Miniato, un re proveniente dall’Armenia che fu ucciso a Firenze dall’imperatore Decio in epoca di persecuzione cristiana, nella metà del III secolo. La Chiesa Apostolica Armena deriva da una delle prime comunità cristiane ed è tra le più antiche Chiese del mondo: le prime testimonianze dell’avvento del cristianesimo in Armenia risalgono infatti al I secolo, ad opera degli apostoli Taddeo e Bartolomeo. L’intervento di Karekin II, Catholicos di tutti gli Armeni,è partito proprio da quelle origini per soffermarsi poi sul tema della fede e sul ruolo delle chiese cristiane nella società e nella storia. Nel suo discorso, il patriarca degli Armeni ha sostenuto che oggi “la Chiesa cristiana nella sua missione dovrebbe necessariamente statuire l’unico esempio della relazione tra fede e verità nella società, relazione che è confermata dal credere nel proprio cuore, conferita dalle opere della vita virtuosa e dando frutto con il miglioramento della vita quotidiana e del risveglio spirituale di milioni di persone”.

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