«Cent’anni dopo il genocidio armeno, noi cristiani d’Oriente ne subiamo un altro» (Tempi 14.12.18)

«Noi non abbiamo bisogno di parole vane. Noi rischiamo di vedere sparire la nostra civiltà». È l’appello lanciato a Parigi da monsignor Nicodemus Daoud Sharaf, arcivescovo siriaco ortodosso di Mosul. Insieme a una trentina di responsabili religiosi e politici provenienti da Siria, Libano, Iraq, Egitto e Giordania, ha partecipato l’11 dicembre nella capitale francese a un convegno per dire “Basta alle discriminazioni verso i cristiani e le minoranze in Oriente, Yazidi compresi”.

Tra gli interventi più drammatici, come riportato da Aed, c’è quello di monsignor Sharaf:

«È difficile riassumere quello che il nostro popolo subisce da oltre 15 anni. I cristiani d’Oriente sono marginalizzati. Le persecuzioni contro i cristiani esistono. L’Oriente si dissolverà se i cristiani spariranno da questa terra. Subiamo sofferenze senza nome: siamo vittime di un genocidio. Di un nuovo genocidio, cento anni dopo quello degli armeni. Noi subiamo un genocidio e il mondo resta a guardare. Questa è una vergogna per l’umanità! Dobbiamo parlare con un’unica voce. Dobbiamo invocare pace e fraternità. Abbiamo bisogno di leggi che ci proteggano e che affermino che siamo cittadini come gli altri, che non c’è differenza tra gli uomini».

Al convegno ha partecipato anche Abdel Meneem Fouad, decano della facoltà di Scienze islamiche dell’università di Al-Azhar, la massima autorità del mondo islamico sunnita. Fouad ha denunciato «gli abomini dei gruppi fondamentalisti, che Al-Azhar vuole condannare». Importante anche l’intervento di monsignor George Kourieh, rappresentante del patriarca Ignatius Ephrem II Karim, patriarca siriaco di Antiochia:

«Noi assistiamo a una tragedia umana. Noi dobbiamo rinnovare il nostro impegno e ripartire. Noi dobbiamo costruire ponti di pace e d’amore. La dichiarazione di Parigi deve costituire un nuovo punto di partenza, manifestando una volontà ferma di stabilire la pace».

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Il dilemma del femminismo nella “Nuova Armenia” (Osservatorio Balcani e Caucaso 13.12.18)

Mentre sempre più donne scelgono di entrare in politica nella “Nuova Armenia” rivoluzionaria, il movimento femminista è di fronte a un dilemma: trasformare il sistema patriarcale dall’interno o dall’esterno?

13/12/2018 –  Knar Khudoyan

(Pubblicato originariamente da OC Media il 29 novembre 2018)

“Sono stati i metodi della Rivoluzione di velluto, cioè la de-centralizzazione, l’orizzontalità, che hanno permesso alle donne di partecipare. Nessuno ha dovuto spingere le donne a fare politica: è successo naturalmente. Perché la strada, se non era anarchica, non era nemmeno gerarchica”. Così l’attivista femminista Maria Karapetyan, fra gli organizzatori del movimento “Reject Serzh”, che ha rovesciato decenni di dominio del Partito Repubblicano nel paese, riassume il ruolo delle donne nella rivoluzione.

Mentre molte donne e ragazze hanno ancora la pelle d’oca quando sentono il famoso discorso “Viva le sorelle”, pronunciato da Karapetyan in piazza della Repubblica a Yerevan il 18 aprile scorso, l’attivista ha preso la decisione – che definisce dura – di unirsi al Partito del “Contratto civile” e candidarsi per il parlamento.

Karapetyan non è l’unica donna che pensa che la Rivoluzione di velluto debba continuare nelle istituzioni statali e nei governi locali. Le prime elezioni post-rivoluzionarie nel paese, le elezioni per il sindaco e il consiglio comunale del 23 settembre a Yerevan, hanno visto la partecipazione di alcune attiviste che hanno aderito all’alleanza “Il mio passo”, sostenuta dal primo ministro Nikol Pashinyan.

Con uno schiacciante 81%, “Il mio passo” ha ottenuto 57 dei 65 seggi in ballo, fra cui 15 donne

Il 10 ottobre, Diana Gasparyan ha vinto le elezioni a Vagharshapat (Ejmiatsin), una città appena ad ovest di Yerevan, diventando la prima donna sindaco dell’Armenia. Le elezioni parlamentari previste per dicembre [tenutesi lo scorso 9 dicembre, ndr] vedranno ancora più donne candidate.

Ciò porterà ad una maggiore presenza femminile negli organi decisionali del paese, ma alcuni si chiedono se ciò porterà automaticamente ad una maggiore protezione dei diritti delle donne.

Una fascia del femminismo armeno considera infatti in contraddizione con l’obiettivo della liberazione delle donne lavorare con lo stato, protettore della proprietà privata e della famiglia (la proprietà appartiene agli uomini e la famiglia è il principale luogo di sfruttamento delle donne).

Sostengono invece che la lotta per le donne come “classe” deve passare attraverso l’empowerment delle comunità femminili, creando modelli cooperativi per le relazioni sociali, e non attraverso individuali storie di successo di ragazze che sono riuscite a rompere il soffitto di vetro.

Il patriarcato gentile

Il nuovo primo ministro Nikol Pashinyan ha espresso le sue opinioni sull’uguaglianza di genere. Sottolineando il ruolo delle donne nel suo discorso dell’8 maggio, il giorno del suo insediamento, Pashinyan ha affermato che “la partecipazione massiccia delle donne è un fattore che ci ha permesso di chiamare ciò che è accaduto una rivoluzione di ‘Amore e solidarietà'”.

Tuttavia, ha poi aggiunto qualcosa che ha fatto trasalire le femministe in tutto il paese. “La rivoluzione ha dimostrato che la partecipazione attiva delle donne [in politica] è compatibile con la nostra identità nazionale, la nostra percezione nazionale della famiglia”.

La maggior parte delle femministe è conscia che il nuovo governo non è molto informato sui movimenti delle donne. Molte sono state comprensive, almeno per ora, nella convinzione che sia prioritario combattere il rischio di controrivoluzione.

“In epoca pre-rivoluzionaria, abbiamo dovuto infrangere la legge per partecipare, ad esempio, ad una discussione sulla legge sulla violenza domestica al ministero della Giustizia”, ​​ricorda Lara Aharonyan, co-fondatrice del Women’s Resource Center di Erevan. “Sì, i membri del nuovo governo sono prodotti della stessa società patriarcale. Sono anche persone dalla mentalità patriarcale. La differenza è che sono pronti ad ascoltare, a educare se stessi, a collaborare con la società civile, a differenza dei loro predecessori”.

Aharonyan pensa che, per ottenere la partecipazione delle donne, lo stato deve prima fare alcuni passi avanti. Uno di questi, afferma, sarebbe aumentare le quote per alleviare lo squilibrio di genere in parlamento. Nel parlamento sciolto il primo novembre solo il 18% dei deputati erano donne.

“Le donne devono essere presenti per parlare dei propri bisogni. E se più della metà della popolazione è composta da donne, per giustizia e per una pari rappresentanza, le donne dovrebbero costituire il 50% del parlamento”, sostiene Aharonyan.

Dall’attivismo alla politica di partito

Membro di lunga data del partito della Federazione Rivoluzionaria Armena, Sevan Petrosyan concorda sul fatto che il sistema dei partiti è un compromesso per le femministe convinte.

“Come raccontava Simone de Beauvoir in quanto donna nel Partito comunista francese, doveva combattere su due fronti; all’interno del partito e al di fuori di esso. Questa è l’unica soluzione. Non mi illudevo che questa rivoluzione avrebbe portato le donne in politica a tutta forza. Non era la priorità. A differenza di molte altre femministe, non sono rimasta delusa dal fatto che Pashinyan abbia nominato solo due ministri donne, perché non nutrivo grandi aspettative”.

“Il mio problema era che questo non era un movimento dei poveri. Era un movimento per liberarsi del Partito Repubblicano, della corruzione, della mancanza di trasparenza, e basta. Sì, lo stato si è fatto più vicino a me, posso scrivere una breve domanda al mio amico, che ora è vice ministro. Ma non si può dire lo stesso per un abitante di un villaggio della provincia”, dice Sevan Petrosyan.

Molto prima della Rivoluzione di velluto, un’alleata chiave di Pashinyan, Lena Nazaryan, fu una delle prime donne a lasciare l’attivismo per la politica di partito. Attivista ambientalista e giornalista critica per molti anni, Nazaryan è fra i fondatori del Partito del “Contratto civile” di Pashinyan nel 2015.

Nazaryan è ora alla guida della fazione Way Out in parlamento. Modello per molte giovani donne, è spesso tormentata da adolescenti in cerca di selfie.

“Non mi piace quando le donne vengono presentate come deboli, come se dovessero essere spinte ad essere attive. No, le donne dovrebbero essere presenti perché sono necessarie. E quando lo sono, dovrebbero provarlo nel loro lavoro”, dice Nazaryan.

“Personalmente preferisco collaborare con le donne, se ne ho la possibilità, perché giocano meglio in squadra, sono interessate al risultato, non a gareggiare”.

Trasformare le relazioni sociali, non le singole donne

Le attiviste che si rifiutano di scendere a compromessi con lo stato lo fanno senza condannare le donne che lo fanno.

“Non dico che le donne non dovrebbero impegnarsi in politica, ma la loro partecipazione non dovrebbe essere fine a se stessa”, dice Anna Shahnazaryan.

“Se una donna entra in parlamento, dovrebbe mettere in discussione il modo in cui le decisioni vengono prese lì. Se una donna entra in un’istituzione per smantellarla dall’interno, per renderla più democratica e centrata sulla persona, è una cosa che incoraggio”.

“Personalmente non mi interessa se il sindaco di Ejmiatsin è una donna se non rappresenta il suo genere […] Il ministro del Lavoro e degli Affari Sociali è una donna, Mane Tandilyan, ma per me è un problema che lei non parli del lavoro domestico non retribuito delle donne”.

Shahnazaryan e la sua collega Arpine Galfayan sono coinvolte nell’attivismo su molti fronti, tra cui la creazione di movimenti di resistenza collettiva nelle comunità per combattere progetti minerari come quello di Teghut, Amulsar.

Galfayan mette in guardia dalla “trappola” di essere usate come pedine in politica.

“Le donne vengono utilizzate per riempire le quote, per dare la falsa speranza che stia andando meglio”, dice.

“Credo che le istituzioni della democrazia rappresentativa abbiano la logica di mantenere il pieno controllo e non condividere il potere con gli altri”, sostiene Galfayan.

Dice che, a livello globale, il sistema “promuove gli interessi delle élite aziendali più ricche e più inumane. In definitiva è gerarchico; gli uomini (specialmente gli uomini eterosessuali benestanti) hanno da sempre posizioni privilegiate in queste gerarchie, e quindi le donne faticano a diventare parte del ‘club’. Infine, anche quelle poche donne che raggiungono il vertice devono comunque fare gli interessi di questo sistema gerarchico e ingiusto”.

“Preferisco lavorare per smantellare questo sistema piuttosto che renderlo più accattivante. Preferisco sostenere e rafforzare sistemi che ritengo equi e liberatori”, dice Galfayan.

Shahnazaryan sostiene che il punto sia se una donna è consapevole della subordinazione che affronta a causa del suo genere.

“Una donna non deve essere in parlamento per fare politica. Se una casalinga protegge la sua vicina, ostacolando e prevenendo la violenza domestica, sta facendo un’azione politica”.

Smantellare il patriarcato a tutti i livelli

Tuttavia, la maggior parte delle femministe in Armenia concorda sul fatto che non vi è una dicotomia fra “riformismo e femminismo radicale” e che il cambiamento è sempre arrivato da una combinazione delle due forze. Ad esempio, nel movimento delle suffragette nell’Inghilterra del primo Ottocento secolo, i movimenti militanti delle donne hanno lavorato in parallelo con i gruppi femministi conservatori.

Poche donne politicamente attive in Armenia negherebbero che la rivoluzione debba continuare, e che il famoso slogan femminista “il personale è politico” sia ancora valido. Alcune si concentrano sul “personale” della frase; lavorare sodo su di sé per vincere in una battaglia impari con uomini privilegiati, mentre altre lottano per trasformare le relazioni sociali esistenti.

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Elezioni parlamentari

Il premier uscente armeno Nikol Pashinyan, ha ottenuto una schiacciante vittoria alle elezioni parlamentari tenutesi domenica 9 dicembre in Armenia.

L’alleanza da lui guidata, ‘Il mio passo’, che include il suo partito ‘Contratto civile’, ha ottenuto il 70,4% dei voti.

Addirittura fuori dal parlamento l’ex partito di governo, il Partito repubblicano dell’Armenia, che non è riuscito a superare il 5%, quota di sbarramento, fermandosi al 4,7% dei voti. Uniche forze all’opposizione parlamentare saranno ‘Armenia prospera’ e ‘Rinascimento armeno’, che hanno raccolto rispettivamente l’8,27% e il 6,37% delle preferenze.

A seguito del voto Nikol Pashinyan ha scritto sulla propria pagina Facebook: “Cittadini forti, forti, forti. Vi amo e sono fiero di voi e mi inchino a tutti voi!”.

Dal canto suo, Eduard Sharmazanov, portavoce del Partito Repubblicano, all’uscita dei risultati preliminari che dichiarato che il 9 dicembre è un “Giorno di resurrezione per il partito che non è affatto ‘finito’ come dicono alcuni ma che ha 60.000 sostenitori fedeli”.

A Palazzo Merulana un convegno e un concerto per ricordare il genocidio armeno (Il Messaggero 13.12.18)

Gli armeni usano l’espressione Medz Yeghern  per ricordare la tragedia che dovettero subire: un genocidio con un milione di morti. E “La memoria del genocidio armeno del 1915 e la prevenzione dei genocidi” è il titolo del convegno che si è tenuto a Roma, in occasione del 70° anniversario della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e della Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio. Nei saloni di Palazzo Merulana al numero 121 della via omonima, dopo il saluto introduttivo dell’ambasciatrice della Repubblica d’Armenia in Italia, Victoria Bagdassarian, sono seguiti gli interventi di Barbara Randazzo, professoressa di Istituzioni di diritto pubblico all’Università degli Studi di Milano, di Marcello Flores, già professore di Storia comparata e Storia dei diritti umani all’Università di Siena, del gesuita Padre Georges-Henri Ruyssen, professore straordinario presso la Facoltà di Diritto Canonico al Pontificio Istituto Orientale a Roma, di Baykar Sivazliyan, professore di lingua armena all’Università degli Studi di Milano e di Antonia Arslan scrittrice e saggista italiana di origine armena. A fare da moderatore, Maurizio Caprara. Al termine del convegno è eseguito un concerto di musica armena con il magico suono del duduk (la musica per duduk è patrimonio Unesco) il flauto armeno suonato da Aram Ipekdjian, con Maurizio Redegoso Kharitian alla viola e con la soprano Marine Grigoryan.

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L’Università 50 & Più e il genocidio del popolo armeno: una proiezione per riflettere (Lagazzettadilucca 12.12.18)

L’associazione 50 & Più Università continua il ciclo incentrato sul genocidio del popolo armeno. Dopo alcune conferenze dedicate al tema, con presentazione di libri della giornalista Letizia Leonardi e dopo la visione dei film “Mayrig”, “Quella strada chiamata Paradiso” e “La masseria delle allodole”, è la volta di “Ararat – Il monte dell’Arca” di Atom Egoyan, con Charles Aznavour e Christopher Plummer. L’appuntamento è per venerdì 14 dicembre alle 16 nella sala convegni della Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca. Un giovane uomo di nome Raffi fa ritorno in Canada, dopo un viaggio in Armenia, con materiale filmico ed un segreto. Durante una normale ispezione doganale, il funzionario, incuriosito, decide di scoprire cosa nasconde Raffi e l’interrogatorio si trasforma in un vero e proprio esame psicologico che rivela frammenti delle loro storie personali. Il film sarà preceduto dall’intervento del noto critico cinematografico Marco Vanelli. Appuntamento venerdì 14 dicembre alle 16 nella sala convegni della Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca.

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Armenia: il nuovo parlamento (Osservatorio Balcani e Caucaso 12.12.2018)

Con il voto per le parlamentari avvenuto domenica 9 dicembre si conclude con successo la scalata di Nikol Pashinyan al potere in Armenia. Il protagonista assoluto della Rivoluzione di Velluto della primavera scorsa ha conquistato con la coalizione da lui guidata, “Il mio passo”, una ampia maggioranza. Ha infatti ottenuto il 70% delle preferenze, trasformatesi in 88 seggi su 132 nel neoeletto parlamento armeno.

Una legittimazione popolare che ci si aspettava ma che sorprendentemente è un po’ claudicante: mancano più della metà dei votanti all’appello. Queste elezioni registrano il minino storico di affluenza alle politiche, con solo il 49% degli aventi diritto che si sono recati alle urne. Erano stati il 61% lo scorso anno, 62% per il quinquennio elettorale precedente. Può avere inciso la frequenza del calendario elettorale, visto che quest’anno si era votato anche per il presidente, il risultato dato per scontato da molti e la rassegnazione di molti elettori legati al partito di maggioranza uscente, il partito Repubblicano. Erano stati proprio i Repubblicani a lanciare appelli agli elettori perché andassero a votare. Un appello che evidentemente non ha convinto un armeno su due, che – indipendentemente dalle preferenze politiche e nonostante la grande mobilitazione dei mesi scorsi – ha preferito astenersi dall’andare a votare.

1.260.840 voti (su 2.573.579 aventi diritto) hanno dato forma al nuovo parlamento: appunto 88 seggi a “Il mio passo”, alleanza di due partiti e vari esponenti della società civile capeggiata da Nikol Pashinyan, coalizione centrista di ispirazione liberal, tendenzialmente europeista ma non disposta a compromettere i rapporti con la Russia; “Armenia prospera”, la creazione dell’oligarca Gagik Tsarukyan, partito di centro-destra, pro-russo, con l’8% delle preferenze cioè 26 seggi; e “Armenia luminosa”, partito liberale di centro-destra, europeista e in passato in alleanza con Pashinyan, con il 6% delle preferenze, quindi 18 seggi. La maggioranza di governo decisamente c’è, ed ha i numeri per portare avanti il proprio programma.

Diventa invece forza extra-parlamentare dopo una permanenza ventennale alla guida del paese il Partito repubblicano. Avevamo scritto prima delle elezioni che i repubblicani avevano forse messo a segno una vittoria di Pirro impedendo l’approvazione della riforma della legge elettorale. Si può constatare ora che oltre a essere stata una vittoria di Pirro, si è rivelato un clamoroso autogol: il partito si è fermato al 4,7%. La soglia elettorale della legge non emendata è del 5%, se fosse passata la proposta Pashinyan sarebbe stata il 3%, e oggi il parlamento armeno ospiterebbe cinque forze politiche invece di tre.

Altro partito storico armeno restato senza rappresentanza in parlamento è stato la Federazione rivoluzionaria armena, che ha ottenuto il 3,9% di preferenze e che seppur fra varie vicissitudini è sempre stata presente nei banchi dell’Armenia indipendente.

Politica interna

La sfide più grandi per il governo, dopo una tornata elettorale giudicata dagli osservatori internazionali molto positivamente perché libera e competitiva, sono invertire l’esodo migratorio rilanciando l’economia e consolidare i successi democratici dell’ultima elezione.

La legge finanziaria in corso è quella approvata nel settembre del 2018, e riguarda tutto l’anno solare del 2019. Il tema portante della Finanziaria 2019 era quello di investire in infrastrutture di pubblica utilità che potessero fare da volano alle economie locali e portare servizi primari in aree che ancora versano in grandi criticità riguardo l’accesso alle reti stradale, idrica, elettrica.

L’opinione pubblica attende poi il concretizzarsi di una grande operazione di riqualificazione etica dei funzionari del pubblico impiego. Sia la Rivoluzione di Velluto che le promesse della campagna elettorale hanno mantenuto accesa l’attenzione sulla dilagante corruzione, e sugli abusi che hanno gravato tanto sui portafogli quanto sulla qualità del vivere civile e sulla tutela dei diritti dei cittadini armeni. La capacità di generare un ripristino di una società più giusta, meno dominata dall’arbitrio e meno povera rimane il banco di prova più importante della nuova maggioranza.

Politica estera

Per perseguire questi obiettivi ambiziosi Yerevan ha bisogno di pace e un contesto internazionale favorevole agli scambi e agli investimenti. E sul governo Pashinyan si può puntare con un cauto ottimismo. L’intenzione espressa finora come governo di minoranza è stata quella di mantenere buoni i rapporti con la Russia, di tenere la porta aperta verso l’Unione Europea e ben attive le sinergie con l’Iran. I primi complimenti al primo ministro in pectore sono arrivati dalla vicina Georgia, altro tassello importante nella stabilità dell’Armenia.

Per quanto riguarda la difficile questione del Karabakh, Pashinyan è il primo leader dall’indipendenza armena la cui ascesa politica non è legata al conflitto dei primi anni ’90. Questo non vuol dire che il suo mandato non risentirà dell’eredità di quegli anni, ma il suo bacino di voti e il suo entourage è meno legato a posizioni oltranziste. E questo già si può apprezzare nelle mosse distensive da settembre ad oggi e un conseguente decrescere di violazioni del cessate il fuoco. Già sono intensi gli incontri fra i ministri degli Esteri dell’Armenia e dell’Azerbaijan. Due giorni prima del voto c’è stato anche un incontro a San Pietroburgo tra Pashinyan e il presidente azerbaijano Ilham Aliyev.

Pashinyan vi si trovava per un duplice appuntamento: il summit dell’Organizzazione per il Trattato di Sicurezza Collettivo e per l’incontro informale dei Capi di Governo della Comunità degli Stati Indipendenti. A latere di quest’ultimo incontro c’è stato lo scambio con Aliyev.

Criticato per queste aperture dai repubblicani durante la campagna elettorale, Panishyan gode ancora di sufficente fiducia popolare per avventurarsi in tentativi di approccio con Baku, anche se i margini di accettazione di possibili compromessi sono molto limitati per l’opinione pubblica armena, e pure per quella azerbaijana.

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Ambasciata USA in Armenia esorta cittadini americani in visita ad essere vigili (Sputniknews 12.12.18)

Mercoledì l’ambasciata degli Stati Uniti a Yerevan ha invitato gli americani ad essere vigili nel visitare l’Armenia durante le festività natalizie.

“All’avvicinarsi delle festività natalizie, l’ambasciata americana a Yerevan ricorda ai cittadini americani la necessità di essere vigili… Durante questo periodo, il numero di rapine, borseggi e scassinamenti potrebbe aumentare”, ha detto una dichiarazione pubblicata sul sito web.

La missione diplomatica ha affermato che vi sono continue minacce da organizzazioni terroristiche transnazionali e individui ispirati all’ideologia estremista.

“Gli estremisti continuano a concentrarsi su luoghi turistici, come centri commerciali, aeroporti, club, ristoranti, luoghi di culto, hub di trasporto”, afferma la dichiarazione.

A sua volta, il capo del dipartimento per le relazioni pubbliche e l’informazione della polizia, Ashot Aharonyan, ha assicurato che la situazione criminale in Armenia è sotto controllo e che il paese è sicuro per i turisti.

“La situazione criminale in Armenia è completamente sotto controllo: numerose organizzazioni internazionali hanno riconosciuto l’Armenia e la sua capitale come assolutamente sicure: la polizia e le altre forze dell’ordine del paese hanno tutte le capacità e i mezzi per garantire la sicurezza dei nostri concittadini e ospiti”, ha detto a Sputnik.

Armenia: Nikol Pashinyan prende ufficialmente le redini del governo (You-ng.it 11.12.18)

Per la prima volta della sua giovane storia, l’Armenia è andata alle elezioni anticipate, causate dalla caduta del governo di Serž Sargsyan in seguito alla cosiddetta rivoluzione di velluto armena, avvenuta nella primavera di quest’anno. A guidare la rivolta è stato il principale leader dell’opposizione, Nikol Pashinyan, che ha assunto la carica di primo ministro ad interim l’8 maggio, venendo poi consacrato dal voto popolare nella giornata di domenica 9 dicembre. L’affluenza alle urne, in netto calo, è stata pari al 48.63%.

Per capire le ragioni della rivoluzione di velluto (o Velvet Revolution, secondo la dizione inglese) bisogna considerare che, dal 2008, Serž Sargsyan aveva ricoperto il ruolo di presidente della Repubblica, ma, con le elezioni dell’aprile di quest’anno, l’Armenia era passata dall’essere una repubblica presidenziale alla forma di governo della repubblica parlamentare, secondo i risultati del referendum del 2015. Secondo le opposizioni, però, Sargsyan avrebbe spinto per la modifica della forma di governo sapendo che la costituzione non gli avrebbe consentito di candidarsi per un terzo mandato presidenziale nel 2018. Il sessantaduenne capo di stato avrebbe allora puntato a spostare il centro del potere per poi proporsi come nuovo primo ministro, nel tentativo dunque di mantenere la carica di fatto più importante nelle sue mani.

A conferma di questi sospetti, dopo la lettura dei verdetti delle elezioni di aprile, Sargsyan ha assunto la carica di primo ministro, approfittando della vittoria della sua forza politica, il Partito Repubblicano Armeno (Hayastani Hanrapetakan Kusaktsutyun, HHK), generalmente abbreviato nella stampa internazionale in RPA, utilizzando la denominazione inglese. Il risultato ottenuto, pari al 49.17%, è però stato accolto dalle proteste delle opposizioni, che hanno parlato di brogli. La presidenza della repubblica, invece, è stata affidata ad un indipendente come Armen Sarkissian, che pure aveva ricoperto brevemente il ruolo di premier tra il 1996 ed il 1997, ma che soprattutto è stato ambasciatore armeno a Londra per dieci anni (1998-2018).

La personalizzazione del potere da parte di Serž Sargsyan hanno portato alla nascita delle proteste popolari, ed all’emergere del leader dell’opposizione Nikol Pashinyan, che ha costretto Sargsyan a lasciare l’incarico, assumendo, come detto, il ruolo di premier ad interim. Con le elezioni anticipate, però, Pashinyan ha potuto dimostrare di godere dell’appoggio popolare, ottenendo il 70.43% dei consensi con il suo partito, Contratto Civile (K՛aghak՛aciakan paymanagir), inserito nella coalizione denominata My Step Alliance. Gli uomini di Pashinyan hanno così ottenuto 88 seggi sui 132 che compongono l’Assemblea Nazionale del Paese (Hayastani Hanrapetyut’yan Azgayin zhoghov), contro i cinque che aveva conquistato alle elezioni primaverili.

Questo evento, invece, ha probabilmente segnato la fine definitiva della carriera politica di Sargsyan, il cui partito ha perso tutti i cinquantotto scranni conquistati ad aprile, raccogliendo solo il 4.70% dei consensi. Gli unici altri due partiti entrati in parlamento sono dunque il Partito Armenia Prosperosa (Bargavatch Hayastan kusaktsut’yun) di Naira Zohrabyan, che ha conquistato ventisei seggi con l’8.27% dei consensi, ed Armenia Luminosa di Edmon Marukyan, che ha raggiunto il 6.37%, collezionando diciotto seggi.

Per leggere la vita politica armena passata e presente, bisogna sempre tenere conto del fatto che nessuno dei principali partiti è in realtà legato ad ideologie o posizioni ben precise. Pur proponendo politiche vagamente di destra ed avendo qualche slancio nazionalista, l’RPA / HHK era sempre stato un grande partito piglia-tutto, che riusciva a raccogliere ogni tipo di consenso proprio grazie a quel suo modo di rimanere vago su molte questioni. La vita politica armena è invece sempre stata molto legata al carisma dei singoli uomini politici, come Sargsyan, e può essere vista come uno degli esempi più spiccati di personalizzazione della politica, dove a farla da padrone sono soprattutto gli interessi personali. Il pericolo, dunque, è che Pashinyan ed il suo Contratto Civile mettano in piedi un sistema molto simile a quello visto nell’ultimo decennio: non è un caso, infatti, che anche per il nuovo partito di governo gli analisti politici non siano in grado di definire una collocazione precisa nello spettro politico.

Intanto, tra le sue prime mosse, Nikol Pashinyan ha affermato di voler ristabilire relazioni diplomatiche normali con la vicina Turchia, con la quale esistono diverse dispute in sospeso, in particolare quella del riconoscimento del genocidio degli armeni da parte dei turchi. Inoltre, la Turchia è strattamente alleata con l’Azerbaigian, Paese con al quale l’Armenia contende il possesso del Nagorno-Karabakh. Questa è un’area che si trova all’interno del territorio azero, ma popolata quasi unicamente da armeni, e che si è autoproclamata indipendente con il nome di Repubblica del Nagorno-Karabakh o dell’Artsakh, pur restando fortemente legata all’Armenia. Tale situazione ha portato Erevan a stringere rapporti più stretti con la Russia, in contrasto con il governo di Baku, piuttosto in buoni rapporti con gli Stati Uniti e con la suddetta turchia. Il conflitto si è oltretutto riacutizzato proprio nell’ultimo anno, e non ha certamente lasciato indifferenti le grandi potenze occidentali, visto che la regione caucasica è di fondamentale importante per l’approvvigionamento di petrolio e gas da parte dell’Europa. Secondo gli osservatori, il governo azero vorrebbe approfittare di questi momenti di destabilizzazione della vita politica armena per sfruttare la situazione a proprio vantaggio.

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Ancona, dopo 46 anni riapre la chiesa di San Gregorio Armeno già San Bartolomeo (Tmnotizie 10.12.18)

ANCONA – La chiesa di San Gregorio Armeno riapre dopo 46 anni, grazie agli interventi di restauro e ripristino curati dalla Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e paesaggio con il Segretariato Regionale dei Beni e delle attività culturali delle Marche. L’amministrazione comunale di Ancona ha seguito il percorso che porta, venerdì 14 dicembre, alla riapertura, adoperandosi per la sua riuscita e accoglie con grande entusiasmo la restituzione alla città di uno dei luoghi più attesi dalla comunità.

La chiesa di San Bartolomeo, eretta attorno al 1520 con l’annesso convento, subì importanti modifiche nel Settecento ad opera dell’architetto Ciaraffoni e dello scultore Gioacchino Varlè. Nel 1847, a seguito dell’acquisto della chiesa da parte delle monache benedettine armene, assunse la denominazione di San Gregorio Illuminatore. Era chiusa dal terremoto del 1972. Due grandi eventi nel segnano le tappe della riapertura.

“La Soprintendenza- spiega l’assessore alla Cultura e al Turismo, Paolo  Marasca-  ha deciso di inaugurare la nuova vita della Chiesa con una importante mostra dal titolo Terre in movimento. Tre dei maggiori fotografi in attività si sono dedicati ai territori marchigiani colpiti dal sisma e le loro opere vengono esposte nel cuore del capoluogo marchigiano. Mi pare si tratti di una scelta significativa, perché la Soprintendenza, il Segretariato, il Nucleo tutela dei Carabinieri e tantissimi altri sono in prima linea ancora oggi per occuparsi delle persone e del paesaggio (artistico e ambientale) drammaticamente segnato dal sisma.   Il contributo degli artisti è quindi, da un lato, un riconoscimento, dall’altro un punto di vista differente per riflettere sul futuro della regione intera.

Al termine della mostra, la Chiesa vedrà un altro grande evento: il ritorno della Pala di Siciolante da Sermoneta nella sua collocazione originaria. La Pala fu portata a Milano nel 1811. Il lavoro che abbiamo fatto e stiamo concludendo, assieme alla Soprintendenza e con uno straordinario supporto da parte della Pinacoteca di Brera, è destinato ad essere una pietra miliare a livello nazionale, perché accade di rado che opere mosse nel periodo napoleonico ritornino nelle loro sedi di origine.

Anche questo, è un atto di riflessione sul paesaggio artistico delle Marche, ed è un’opera di rigenerazione. Stiamo lavorando affinché la Pala arrivi in primavera, e la Soprintendenza ha proposto di realizzare il restauro e la pulitura già all’interno della Chiesa, aprendo al pubblico le operazioni, cosa che ci sembra bella ed opportuna.”

Con i lavori previsti per l’anfiteatro, e il riordino e l’organizzazione dell’Ancona archeologica cui Comune e Soprintendenza stanno lavorando attraverso due progetti finanziati, la riapertura di San Gregorio è uno dei principali tasselli della nuova vitalità dell’Ancona antica.

La mostra Terre in movimento ospita i lavori di Olivo Barbieri, Paola De Pietri e Petra Noordkamp ed è curata da Associazione Demanio Marittimo km276 e Maxxi di Roma. L’inaugurazione è prevista venerdì 14 dicembre alle ore 17.

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Il COAF Smart Center in Armenia, progetto di Paul Kaloustian (Inexhibit.com 10.12.18)

Il COAF Smart Center in Armenia, progetto di Paul Kaloustian

Realizzato da COAF (Fondazione per i bambini armeni) e progettato dall’architetto Paul Kaloustian, SMART è un campus per la promozione dell’educazione e l’innovazione situato a Debet, nella regione di Lori in Armenia, un’area montuosa nella parte nord del paese, gravemente segnata da un terremoto nel 1988.
Inaugurato nel 2018, il campus, che si estende su circa 1850 metri quadrati, è destinato ad essere il primo di una serie di hub volti al miglioramento delle condizioni di vita delle comunità rurali in Armenia, attraverso l’educazione creativa e critica e l’offerta di programmi orientati all’innovazione.

COAF smat center Lori Armenia Paul Paul Kaloustian aerial

Il campus SMART; vista aerea, courtesy of COAF.

I campus sono concepiti seguendo i criteri di un design sostenibile e all’avanguardia, implementando l’autosufficienza energetica, materiali da costruzione sostenibili, illuminazione naturale e tecnologie di energia rinnovabile nel rispetto dell’ambiente naturale e dell’estetica rurale. Ognuno dei centri comprende aule, postazioni sanitarie, laboratori, sale computer, spazi per riunioni, un auditorium multifunzionale, una biblioteca, ristoranti, alloggi per ospiti e spazi per le attività interne ed esterne – dallo sport all’intrattenimento, dalle arti all’agricoltura.

Il campus di Lori, progettato dall’architetto basato a Beirut Paul Kaloustian, è concepito come un nastro continuo ad un unico piano che serpeggia dolcemente sul terreno adattandosi al paesaggio ondulato della valle. Afferma il progettista: “questa presenza doveva avere una propria identità per differenziarla dal resto e renderla un vero e proprio punto di riferimento a sé stante all’interno del paesaggio alberato. Tuttavia, anziché enfatizzare l’architettura abbiamo deciso che il paesaggio doveva essere il punto di riferimento (…) l’architettura del campus stabilisce una nuova lettura del rapporto fra la natura e il costruito creando una sorta di ambiguità …. Genera un ambiente invece di generare un edificio, dove il paesaggio abbracciato diventa una celebrazione dell’ambiente rurale “.(trad. di Inexhibit)

La forma trilobata dell’edificio principale abbraccia la piazza d’ingresso e l’ampio cortile concepito come un’estensione dell’interno. Come nel Grace Farms River Building di SANAA a New Canaan – basato su un concetto simile sebbene sviluppato con una forma diversa – questo layout ha contribuito a creare un complesso architettonico al contempo iconico ed estremamente rispettoso del paesaggio naturale con il quale è in continuo scambio grazie alle grandi superfici vetrate.


Paul Kaloustian

Lo Studio di architettura Paul Kaloustian, basato a Beirut, lavora su progetti  a varie scale, dagli edifici al design d’ interni.
Paul Kaloustian ha conseguito il Master alla Harvard Graduate School of Design (1999) e ha lavorato presso Herzog e de Meuron a Basilea (2000). Ha insegnato al Boston Architecture Center (2000) e all’università americana di Beirut (2009-10); ha ricevuto il Mokbel Award e il premio Order of Engineers and Architects. Il progetto “House in a Forest” è stato esposto alla 13° Biennale di Architettura di Venezia, all’Istituto del mondo arabo di Parigi e alla mostra “Atlante del mondo non ricostruito” a Londra. Il suo progetto SMART Center è stato esposto alla 15° Biennale di Architettura di Venezia.

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Testimoni dei pogrom di Sumgait (Gariwo 10.12.18)

Durante i pogrom violenti verso etnie considerate “nemiche”, c’è sempre qualcuno che si oppone allo scatenarsi dell’odio, della violenza, della rapina, della sopraffazione. A Sumgait, in Azerbaigian, quando negli ultimi giorni del febbraio del 1988, in tempo di pace, una violenza brutale si è scatenata contro la minoranza armena, si verificarono anche episodi di solidarietà, di soccorso, di difesa delle vittime da parte di azeri che non hanno seguito gli ordini emanati dalle autorità al potere, ma piuttosto un moto profondo dettato dal principio di umanità e da un sentimento di ribellione di fronte all’ingiustizia che si traduce in azioni concrete. Oggi quei “Giusti azeri” sono considerati dai governanti dell’Azerbaigian dei “traditori”. La loro storia è raccontata dai salvati, sopravvissuti che hanno visto infrangersi il fronte dei carnefici e la compattezza della “zona grigia”, grazie all’aiuto di chi ha vinto l’indifferenza e ha agito. Ma a restituire loro la forza di raccontare hanno contribuito anche i testimoni di verità, che hanno infranto la barriera del negazionismo sempre elevata dalla “storia ufficiale” scritta da chi vuole occultare la verità.

Riporto alcune testimonianze raccolte a caldo in Armenia dove i profughi si sono rifugiati con la speranza di poter un giorno rientrare nelle loro case a Sumgait. Oggi sappiamo che nessuno degli intervistati è ritornato a casa [1].

I racconti dei sopravvissuti sono raccapriccianti. Hanno visto la potenza del male abbattersi improvvisamente su di loro e niente più è stato come prima nella loro vita. Ho volutamente tralasciato le pagine più terribili di ciò che è avvenuto in quei tre giorni di indicibile violenza, anche se sappiamo che il male, come ci ricordava Salvatore Natoli recentemente, bisogna “prenderlo sul serio”. In molte testimonianze gli armeni che sono riusciti a fuggire da Sumgait chiedono che non si riportino i loro cognomi, per vergogna, per paura o per possibili ritorsioni. Allo stesso modo alcuni tra gli armeni salvati chiedono che non vengano riportati i nomi dei loro salvatori, azeri, georgiani, russi, affinché questi ultimi non vengano indagati in quanto “traditori”, poiché salvato e aiutato invece di partecipare ai pogrom. C’è sempre l’accusa “ufficiale” di tradimento da parte del potere costituito, come ci ricorda Marcello Flores [2]; nello specifico da parte di un governo che non solo non ha voluto proteggere la minoranza armena vittima dei massacri di Sumgait e Baku, ma che in molti casi ha anche facilitato, con ordini precisi di “non intervento” o di divieto dell’uso delle armi impartiti ai militari, l’esplosione delle atrocità.

Sicuramente l’orrore del giovane militare russo svenuto di fronte all’adolescente armena sfigurata, violentata, ridotta in fin di vita segnala l’entità del male e insieme il fatto che se non distogli lo sguardo puoi non reggere alla vista delle conseguenze provocate dall’indicazione di un nemico “minaccioso” da abbattere, anche se costituito per lo più, da donne, vecchi e bambine che padri, mariti e fratelli armeni non sono riusciti a difendere perché abbattuti per primi.

Anche i testimoni di verità, Giusti a pieno diritto, rientrano nella schiera dei traditori e rischiano la vita, come è accaduto a Constantin Pkhakadze, un ex ufficiale dell’armata sovietica di stanza in Ungheria, nato a Sumgait e ritornato nella sua città dove lavorava come elettricista. Recatosi in piazza Lenin per vedere con i suoi occhi cosa stava accadendo, aveva constatato che sulla tribuna centrale si alternavano oratori che incitavano a uccidere tutti gli armeni. Vedeva arrivare i militari inviati da Gorbaciov per por fine al “genocidio”, così Constantin definisce il massacro degli armeni in terra azera, armati solo di manganelli contro gli insorti in possesso di Mauser di nuovo tipo e di coltelli. Quando un soldato russo arrestava qualcuno tra la folla scatenata consegnandolo alla polizia, subito veniva rilasciato. Constantin Pkhakazde, nel corso della testimonianza, si indigna nel ricordare che una divisione sovietica di élite di 10.000 soldati non è riuscita a difendere 18.000 armeni, che venivano massacrati da una folla di azeri, drogati e ubriachi (stupefacenti e droga erano stati distribuiti in grande quantità), e la sua indignazione aumenta quando ricorda le menzogne della stampa ufficiale che all’indomani del massacro scrisse che tutti i responsabili erano stati individuati e arrestati. “Dove trovare la verità in questi giornali? Che ne è della verità, della glasnost, della trasparenza, della giustizia?” Gli accenti accorati di questo testimone di verità ci dicono che la ripresa della vita dopo le grandi esplosioni di violenza è possibile solo se si può fare riferimento a persone come Constantin Pkhakadze. Appartiene alla schiera dei Giusti. Il suo racconto della verità dei fatti ha trasmesso un filo di speranza agli esuli sopravvissuti armeni che hanno cercato di ricominciare a vivere e, forse, a dimenticare.

Per quanto mi riguarda, dopo avere letto i resoconti dei massacri e avere ascoltato la voce dei sopravvissuti, l’accavallarsi dei racconti orribili ha raggiunto un limite insopportabile. Come un serbatoio pieno ha una valvola di sfogo che evita la fuoriuscita del liquido dal bordo, così è avvenuto in me: dopo essermi riempito del male fino all’orlo, sono andato alla ricerca del bene.

Testimonianza di Rosa, famiglia M… : “Se non si fosse trovato qualche azero semplice e di cuore (ne esistono) per difenderci, nessuno di noi sarebbe sopravvissuto. Se, ad esempio, il capitano Sabir Kassumov non ci avesse aperto la sua porta, né io, né mio marito, né i miei bambini saremmo ancora vivi” [3].

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