Giornata della Memoria: Giardino dei Giusti, incontro a Milano (SIR 22.01.18)

“Responsabilità contro indifferenza. Oggi come ieri, scegliamo di accogliere” è il tema dell’appuntamento annuale organizzato dall’Associazione del Giardino dei Giusti di Milano (composta da Comune di Milano, Gariwo e Ucei, l’Unione delle Comunità ebraiche italiane) con insegnanti e studenti delle scuole di ogni ordine e grado per celebrare la Giornata della Memoria. L’evento si terrà al Teatro “Elfo Puccini” di Milano mercoledì 24 gennaio (dalle ore 9.30). Il programma prende avvio, dopo i saluti istituzionali del presidente del Consiglio comunale di Milano, Lamberto Bertolé, dal tema dell’accoglienza, proponendo la testimonianza di Roberto Jarach, vicepresidente della Fondazione Memoriale della Shoah di Milano, e del giornalista Stefano Pasta, della Comunità di Sant’Egidio, accompagnato da un giovane profugo proveniente dalla Guinea Conakry accolto nella struttura, che racconteranno l’esperienza di ospitalità ai profughi fornita dal “Binario 21” e dialogheranno con il presidente di Gariwo, Gabriele Nissim, sul tema della responsabilità. A seguire, Elisa Giunipero, docente di Storia contemporanea presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, racconterà la storia degli ebrei di Shanghai e in particolare di Ho Feng Shan, console cinese a Vienna che fornì passaporti falsi agli ebrei per salvarli dalle deportazioni. Dal ricordo della Shoah alla contemporaneità, con la testimonianza di Emilio Barbarani, che operò nell’Ambasciata italiana a Santiago del Cile negli anni ’70, salvando la vita a centinaia di oppositori di Augusto Pinochet. Tra le testimonianze quelle del console armeno e co-fondatore di Gariwo, Pietro Kuciukian, e del giornalista Simone Zoppellaro, che porteranno l’attenzione sul genocidio contro la comunità yazida, oltre alla video-intervista di Gariwo a Nadia Murad, rapita dall’Isis e sfuggita ai suoi carcerieri dopo due anni di violenze. Nelle stesse terre del genocidio armeno del 1915, oggi si verifica un atto di accoglienza da parte della stessa Armenia, che dal 2014 ha aperto le sue porte ai profughi yazidi. Hammo Shero, il capo yazida del Monte Sindjar che nel 1915 salvò migliaia di armeni ospitandoli sulla montagna, sarà onorato insieme a Ho Feng Shan al Giardino al Monte Stella di Milano in occasione della prossima Giornata dei Giusti dell’umanità (6 marzo).

L’Armenia è al centro dei cyber attacchi degli hacker di stato anti-Occidente (Difesaesicurezza.com 21.01.18)

EVN Report: In Armenia, solo nel 2017, sono stati hackerata diverse migliaia di profili Facebook e Instagram locali. Inoltre, il paese subisce aggressioni informatiche da 10-15 anni

L’Armenia è al centro dei cyber attacchi degli hacker di stato. Lo rileva EVN Report, settimanale indipendente di base a Yerevan. Le prime vittime sono i cittadini del paese, che subiscono aggressioni nel cyberspazio da parte di attori malevoli dell’Azerbaigian e della Turchia. Solo nel 2017 sono stati diverse migliaia i profili armeni compromessi su Facebook e Instagram. Negli ultimi 10-15 anni, inoltre, ci sono state ondate di attacchi contro le istituzioni, diminuite solo dopo la nascita del Servizio di Sicurezza Nazionale (NSS) che ha assunto anche la funzione di sovrintendere alla sicurezza informatica della nazione. Non solo. I leaks di Edward Snowden confermano che da parte della NSA USA c’è un interesse non comune per lo stato euroasiatico. In particolare sul fronte cyber. Peraltro, come la Cina, è segnalato in giallo per le attività dell’Agenzia, in una scala da verde a rossa.

Presente in Armenia un network di cyber spionaggio su vasta scala, chiamato “Ottobre Rosso”. Gli esperti di cybersecurity: Dietro probabilmente c’era la Cina

In Armenia era presente anche un network di cyber spionaggio su vasta scala, chiamato “Ottobre Rosso”, come ha scoperto nel 2013 il Global Research & Analysis Team di In 2013, Kaspersky Lab. Questo era in grado di infiltrarsi in sotto-strutture importanti a livello statale e non per rubare dati ritenuti di interesse. I bersagli si trovavano soprattutto in Europa Orientale e nell’area dell’ex Unione Sovietica. La campagna di spionaggio cibernetico era attiva almeno dal 2007 e Yerevan era nella lista dei 10 paesi più infettati dal virus. Non è chiaro chi gestisse la rete, ma gli esperti di sicurezza informatica ritengono che dietro all’operazione possa esserci stata la Cina. Anche gli hacker russi di APT 28 (Fancy Bear) hanno preso di mira le autorità armene. E in particolare i vertici militari, come ha ricordato FireEye in un suo rapporto del 2014 sulle cyber operazioni della Federazione.

Gli hacker russi di Fancy Bear (APT 28) bersagliano periodicamente i vertici militari e di governo armeni, nonché diplomatici e giornalisti filo occidentali

Nel 2017, l’Armenia è stata nuovamente vittima di Fancy Bear. Lo hanno scoperto i ricercatori di sicurezza informatica di the Citizen Lab. Questa volta i bersagli degli hacker russi non sono stati solo i militari; ma anche i diplomatici, giornalisti e i funzionari di governo. Si parla di 41 persone che  avevano un orientamento filo-occidentale. Non è detto, comunque, che non ce ne siano stati anche altri. Tanto che il paese euroasiatico è di interesse in tutte le indagini sui cyber attacchi più importanti, effettuati soprattutto da attori a livello nazionale.

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Quanto commuove la deportazione armena (Il Gionale 21.01.18)

Milwaukee, Wisconsin 1921. Aram Tomasian è fuggito al genocidio armeno in cui sono stati assassinati tutti i membri della sua famiglia. Rimasto orfano vuole continuare la sua discendenza in America. Sposa per procura una giovane armena che ha soltanto quattordici anni, che si chiama Seta. La storia di Aran e Seta è narrata come un ricordo dal loro figlio adottivo che, ormai settantenne, racconta la sua vicenda e quella dei genitori, inevitabilmen te legata alla tragica storia di quel genocidio. Aran si aggrappa al passato, e da fotografo affermato, conserva in una specie di santuario la foto della famiglia massacrata ma priva delle teste generando con la moglie uno scontro inevitabile. Mentre Seta persevera nella direzio- ne che volge verso il domani. È la grande forza di volontà che li porta infine a superare queste esperienze dolorose e a scoprire quel sentimento d’amore che all’inizio sembrava impossibile e che, invece, malgrado le difficoltà vince su tutto. Perché rispetto e amore sono indissolubilmente legati fra loro. Il titolo della pièce di Holger Schober, Una bestia sulla luna prende spunto da un anedotto che racconta dell’idiozia di alcuni turchi che ritenevano di poter uccidere quella parte di luna oscurata da un’eclisse. La regia di Andrea Chiodi è sobria ed essenziale. Un capolavoro di sensibilità e pudore, in- terpretato con grazia e humor da due attori strepitosi come Elisabetta Pozzi e Fulvio Pepe, coadiuvati con acuta sensibilità dal narratore di Alberto Mancioppi.

UNA BESTIA SULLA LUNA – Parma, Fondazione teatro Due

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Austria: Vienna, i monaci armeni alla ricerca della ricetta perduta dell’antico liquore Mechitarine (SIR 20.01.18)

Si avvicinano tempi difficili nel futuro del monastero dell’ordine mechitarista armeno cattolico di Vienna: è andata perduta la segreta ricetta del famoso liquore speziato alle erbe Mechitarine, maggior fonte di sostentamento del monastero. La ricetta del liquore, di cui si ha notizia già dal 1680, prodotto in sei diverse gradazioni e soluzioni aromatiche sin dal 1811 a Vienna, è segretamente rivelata a soli due monaci e si tramanda oralmente. Gli ultimi due monaci divenuti recentemente depositari del segreto orale della produzione del liquore sono uno morto da poco all’improvviso e l’altro è stato colpito da demenza senile. “Non so come possa essere accaduto che la ricetta non sia stata rivelata in tempo”, ha affermato il padre Vahan, mechitarista del monastero di Vienna in una recente intervista al settimanale “Die Zeit”. Padre Vahan, armeno siriano, vive nel monastero viennese da quarantaquattro anni, e ogni anno accompagna oltre tremila visitatori, soprattutto pellegrini armeni, nella visita al monastero e alla cantina claustrale ove si produce il liquore. Per i padri, la cessazione della produzione della Mechitarine è fatale: il liquore è la loro principale fonte di reddito.
Nel 1811, all’arrivo a Vienna dei monaci da Trieste, l’imperatore Francesco I donò il monastero ai mechitaristi con l’ordine di non gravare sulle finanze statali. Così i monaci divennero produttori di liquori, in rispetto delle condizioni imperiali. Ora è iniziata la vendita degli ultimi lotti di Mechitarine prodotti dai monaci che però non conoscono più la ricetta: l’ultima goccia del liquore potrebbe esser venduta tra poco.

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Speciale infrastrutture: compagnia iraniana costruirà ponte Armenia–Georgia (Agenzainova 19.01.18)

Tbilisi, 19 gen 18:15 – (Agenzia Nova) – Il ponte sul fiume Debed, in Armenia settentrionale, verrà costruito dalla compagnia iraniana Ariana Tunnel Dam. Come riportato dalla testata “Caucasus Business Week”, l’accordo con la società è stato firmato oggi a Erevan tra il ministro armeno dei Trasporti, delle comunicazioni e delle tecnologie dell’informazione, Vahan Martirosyan, e il presidente della compagnia, Ali Mousavi. L’opera rientra tra le strutture del valico di controllo Sadakhlo–Bagratashen, sul confine tra Armenia e Georgia. Ariana Tunnel Dam ha vinto contro altre sei compagnie concorrenti la gara bandita dal ministero armeno dei Trasporti; l’infrastruttura sarà finanziata con un prestito che Erevan riceverà dalla Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo (Bers), con cui l’accordo è stato firmato già nel 2012. Dal budget statale armeno del 2018 verranno inoltre ricavati 1,4 miliardi di dram (2,4 milioni di euro) per la costruzione del ponte.

Il progetto fa parte del programma di modernizzazione del corridoio settentrionale, sostenuto economicamente da Bers e volto all’adeguamento delle infrastrutture agli standard internazionali nonché alla costruzione ex novo di opere nei pressi delle strutture di controllo lungo la frontiera tra i due paesi caucasici. I punti di valico, destinati a veicoli privati e commerciali nonché a pedoni, dovrebbero così funzionare in maniera più efficiente. Il valico di Bagratashen, circa 200 chilometri a nord di Erevan, risulta fondamentale per l’Armenia in quanto sono attualmente chiusi i confini con Turchia e Azerbaigian. (Res)

Il dramma armeno rivive in musica al Fracastoro (Larena.it 19.01.18)

«I giusti non cambiano il mondo, ma salvano la speranza dell’umanità».

Questa frase del giornalista, saggista e storico Gabriele Nissim è il filo conduttore dell’incontro culturale con concerto dedicato al popolo armeno a cura della prof.ssa Anna Maria Samuelli con l’intervento dell’Orchestra giovanile Fracastoro Maffei che si è tenuto nell’aula magna succursali del liceo Fracastoro in via Ca’ di Cozzi.

Evento organizzato nell’ambito dello scambio culturale tra Verona con Yerevan, capitale dell’Armenia, che ha accolto per la prima volta nella nostra città il console onorario armeno Pietro Kuciukian ospite della riflessione dal titolo “Armenia: dai Giusti una speranza per le sfide del presente”.

 

Il musicista armeno Aram Ipekdjian che già ha suonato di recente alla società letteraria il duduk, strumento tradizionale armeno, ripropone brani suggestivi con questa specie di piccolo flauto ad ancia doppia appartenente alla famiglia dei legni, detto anche tsiranapogh ovvero “flauto albicocca”, capace di tradurre la poesia della gente dell’antica Anatolia in voce umana.

Ex repubblica sovietica situata nella regione montuosa del Caucaso, l’Armenia è stata vittima di un genocidio perpetrato dall’impero ottomano tra 1915 e il 1916 con massacri e deportazioni che causarono la morte di 1,5 milioni di persone tra cui giornalisti, scrittori, poeti, parlamentari, gente comune immolata in quello che gli armeni chiamano “il grande crimine”: lo storico polacco Raphael Lemkin, è stato il primo a coniare per il drammatico fatto storico il termine di genocidio nonché “primo episodio In cui uno stato ha pianificato ed eseguito sistematicamente lo sterminio di un popolo”.

Michela Pezzani

Esercito turco in allerta: dopo gli armeni, vogliono sterminare i curdi? (Secoloditalia 19.01.18)

È stato portato al “massimo livello” l’allerta delle forze turche al confine con la Siria in vista del probabile avvio di un’operazione militare ad Afrin, regione settentrionale controllata dalle forze curde. Lo ha riferito l’agenzia di stampa Anadolu, precisando che l’esercito di Ankara continua ad ammassare mezzi e carri armati nella provincia di Hatay. La notizia dell’innalzamento dell’allerta dell’esercito turco arriva all’indomani della riunione ad Ankara del Consiglio di sicurezza nazionale, presieduto dal presidente turco Recep Tayyip Erdogan, incentrato sull’operazione nell’enclave curda di Afrin e sulla proroga dello stato d’emergenza in vigore in Turchia dal fallito golpe del luglio 2016. Sabato scorso le forze turche hanno colpito diversi obiettivi dei curdi siriani ad Afrin. Poi Ankara ha contestato con forza le notizie sull’addestramento da parte della coalizione a guida Usa di milizie siriane alleate, in gran parte curde, con l’obiettivo di formare una nuova forza da dispiegare ai confini settentrionali della Siria. Ankara considera “terroristi” i miliziani curdi delle Ypg appoggiati dagli Usa. La Turchia “distruggerà, uno dopo l’altro, i covi del terrore in Siria, iniziando dalle regioni di Afrin e Manbij”, ha minacciato nei giorni scorsi Erdogan, secondo il quale “chi ci ha pugnalato alle spalle e sembrava essere nostro alleato non potrà impedirlo”.

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Turchia, ombre e sospetti su gulenisti a 11 anni da omicidio Dink (Askanews 19.01.18)

Istanbul, 19 gen. (askanews) – A undici anni dall’assassinio del giornalista turco-armeno Hrant Dink il caso resta ancora irrisolto, mentre la lotta di Ankara contro il movimento di Gulen rischia di influire sul corso del processo occultando ancora una volta i reali responsabili del delitto.

Dink, aveva toccato la questione del genocidio armeno, da sempre argomento tabù in Turchia, ed è stato uno dei principali sostenitori del dialogo e della riconciliazione tra la comunità turca e quella armena. A questo scopo aveva orientato tutta la sua attività professionale, in particolare come direttore del settimanale bilingue Agos. Le sue posizioni avevano suscitato l’ira dei circoli ultra-nazionalisti del Paese anatolico, sfociata alla fine nell’assassinio del giornalista.

Ogun Samast, esecutore del delitto per conto di un gruppo ultra-nazionalista di Trabzon, fu arrestato alcuni giorni dopo aver commesso l’omicidio, processato e condannato all’ergastolo, seppur ancora minorenne al momento del delitto. Tuttavia, già nel 2007 durante le prime udienze del processo, erano emersi report dell’intelligence che affermavano come la polizia e la gendarmeria fossero al corrente dell’omicidio che si sarebbe compiuto.

Lo stesso Samast ha dichiarato che il giorno del crimine non era solo, identificando in seguito alcuni ufficiali della gendarmeria che erano presenti sul luogo del delitto. Altre testimonianze hanno inoltre ribadito che la gendarmeria era stata precedentemente informata del piano di uccidere il giornalista.

Il processo per l’omicidio di Dink rappresenta uno dei procedimenti politici chiave della storia turca recente. Il caso, che vede attualmente imputate 85 persone tra cui diversi membri delle forze dell’ordine e della gendarmeria, è stato inserito inizialmente nell’inchiesta Ergenekon, iniziata alcuni anni fa come un meccanismo di lotta contro la gladio turca, ma divenuto presto un meccanismo per silenziare l’opposizione secolarista del Paese.

Con la rottura definitiva avvenuta nel 2014 tra il Partito della giustizia e dello sviluppo (AKP) e il movimento di Gulen – ex alleato dell’attuale governo di Ankara, ora accusato di aver organizzato il tentato golpe dell’estate 2016 – il caso Ergenekon, condotto in buona parte da procuratori considerati vicini al movimento gulenista, è stato chiuso. Mentre l’omicidio Dink è considerato ora tra i crimini compiuti da membri dello stesso movimento.

“Il caso di Hrant Dink non può più essere trattato come un elemento di cause e di attriti politici”, afferma il giornalista di Hurriyet Ismail Saymaz, che da anni segue il caso del giornalista turco-armeno. “Io penso che in tutti questi anni i responsabili dell’accaduto avrebbero già dovuto essere processati per le proprie colpe. Ma siccome in passato i gulenisti erano potenti questo non è accaduto. Oggi invece, il processo ha cambiato corso perché i gulenisti hanno perso potere”.

Nel terzo testo d’accusa presentato dal procuratore Gokalp Kokcu lo scorso aprile, il caso è stato infatti collegato al movimento di Fethullah Gulen, che a sua volta si trova tra i principali imputati del delitto. Tra gli altri accusati si trovano i procuratori responsabili del caso Ergenekon, l’ex direttore del quotidiano Zaman Ekrem Dumanli, l’ex capo della polizia di Istanbul Celalettin Cerrah, Resat Altay e Ali Oz – rispettivamente capi della polizia di Trabzon e di Istanbul – e diversi ufficiali dell’intelligence della gendarmeria di Istanbul. Secondo il procuratore Kokcu, l’omicidio di Dink, rappresenterebbe il primo colpo inflitto da Gulen allo Stato turco.

“Osservando l’intera indagine pensiamo che tutti gli organismi dello Stato sono da tenersi responsabili dell’omicidio, inclusa la rete Ergenekon. Si è trattato di un atto collettivo. E vediamo che erano coinvolti anche alcuni ufficiali di polizia gulenisti, amministratori e ufficiali e tutti i dipartimenti dello Stato”, afferma Yetvart Danzikyan, attuale direttore di Agos.

Secondo l’analista Uygar Gultekin “il passato della Turchia è pieno di questi crimini politici e processi infiniti. I veri responsabili in questi casi non vengono mai trovati per la mancanza di un’indagine comprensiva e diligente”.

Nel 2010 la Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU) ha già condannato la Turchia per non aver protetto il giornalista pur sapendo che era in pericolo e per non aver condotto un’inchiesta completa ed efficiente contro i responsabili dell’omissione.

Tuttavia i legali della famiglia Dink continuano a lavorare per impedire che l’omicidio di Dink si trasformi in una partita politica, continuando a riportare l’attenzione sul crimine e suoi suoi responsabili.

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“Dagli Armeni all’Arca”, Ararat: la montagna del mistero: serata alla SAT di Primiero (Lavocedelnordest 19.01.18)

Interessante incontro a Primiero, presso la sede SAT di Primiero San Martino e Vanoi (Casetta Parco Clarofonte a Fiera) sabato sera 20 gennaio alle 20.30

Il monte Ararat visto da Yerevan, capitale della Repubblica d’Armenia

Primiero (Trento) – Prendono il via gli incontri culturali della sezione SAT di Primiero San Martino Vanoi. Un modo originale per parlare di montagna e confrontarsi sulle tematiche più attuali, ma non solo, con lo sguardo verso il mondo che ci circonda.

La sezione CAI – SAT locale, intende infatti promuovere la cultura dell’andar in montagna. Ciò significa conoscere il territorio ma anche la storia delle genti che la montagna la vivono sulle Alpi ma anche in ambiente extraeuropeo.

L’appuntamento di sabato 20 gennaio alle 20.30 è con lo scienziato e ricercatore Azad Vartanian, che da 20 anni segue l’Armenia. Una conferenza particolarmente interessante con la proiezione di un filmato sulla vita delle popolazioni che vivono alle pendici del monte Ararat (Turchia). Un tema di grande attualità per conoscere da vicino le popolazioni armene.

La leggenda vuole che l’Arca di Noè sia ancora sulla montagna, come riferito da alcuni viaggiatori, tra cui Marco Polo. A partire dal XIX secolo alcuni esploratori si sono avventurati sul monte alla ricerca dell’Arca, tra cui l’astronauta James Irwin e l’ingegnere Angelo Palego. Su alcune fotografie del monte è presente uno strano oggetto non identificato che qualche studioso biblico ipotizzò essere i resti dell’Arca di Noè, l’oggetto è conosciuto con il nome di Anomalia dell’Ararat, ma la posizione della montagna al confine tra due nazioni politicamente ostili rende l’accesso difficoltoso.

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“Con occhi spietatamente umani”: Antonia Arslan ci parla dei poeti armeni, martiri che sfidarono l’orrore (Pangeanews.it 19.01.18)

La scrittrice de “La masseria delle allodole” sul genocidio armeno. “Fu un abilissimo inganno. E la Germania guglielmina era complice dei Giovani Turchi. Nei romanzi e nei giornali dell’epoca gli armeni erano presentati come ebrei del Medioriente”

La poesia non soccombe mai. Non è una metafora, una meteora simbolica per rabbonire i buoni di cuore. “Una volta, in uno dei giorni più angosciosi, mi lesse alcuni sonetti, e io non potei che esprimergli la mia ammirazione e il mio stupore che, in momenti così terribili come quelli che stavamo vivendo, fosse in grado di mantenere la sua anima così distaccata e incorrotta da creare una poesia dedicata alla natura con una tale profondità”, ricorda Mikayel Shamdandjian parlando di Daniel Varujan, il grande poeta armeno, nato nella regione di Sebaste, colmo di cultura ‘europea’ (studia a Costantinopoli, poi è a Venezia e a Gand, prima del ritorno in Turchia). Arrestato nell’aprile del 1915, deportato a Çankiri, morì durante un trasferimento da un villaggio all’altro, insieme ad alcuni compagni, derubato, denudato, legato a un albero, “gli scavarono gli occhi con i coltelli, poi trafissero lui e i suoi compagni, gettando i loro corpi in un torrente vicino”. Naturalmente i quaderni delle sue poesie furono ostaggio dei servizi segreti turchi, riscattati dopo la Prima guerra, “fu l’unico fra noi che continuava a lavorare”, ricorda Aram Andonian. “Il giorno del suo martirio, gli assassini probabilmente si impadronirono dei miseri bagagli di Varujan… il vero tesoro del suo bagaglio, i sei quaderni che aveva scritto a Çankiri, furono buttati al vento. Ma si può pensare che Dishleg Hussein Agha, proprietario del khan davanti al quale vennero uccisi, che fu uno dei testimoni del crimine, li abbia raccolti con cura, e poi, dopo aver lisciato e messo in ordine le pagine, li abbia perforati con uno spago per incartare formaggio e olive per i suoi clienti”. Paradosso pazzesco – e perfino istruttivo: l’opera di un poeta raffinatissimo usata per incartare il formaggio. Storie simili, in cui la magia del poeta viene oltraggiata e uccisa, ne abbiamo lette ovunque: Osip Mandel’stam – il poeta russo finito nei Gulag – e Daniel Varujan, il martire della poesia armena, in fondo, raccontano la stessa micidiale vicenda. La rettitudine della poesia di fronte alle fauci della Storia. La remissiva audacia, la purissima ultrapotenza della poesia contro chi cerca di soffocarla. libro arslanCome ha scritto Siamantò, altro poeta armeno dalla cultura internazionale (ha vissuto, pur tra privazioni, in Egitto, in Romania, in Svizzera, a Parigi), trucidato in quel 1915 di sangue nei pressi di Ayas, bisogna avere “occhi spietatamente umani” per stare al cospetto dell’orrore, invitti. Le storie di questi poeti sterminati dal governo turco risuonano, con note tragiche ma inflessibili, in Benedici questa croce di spighe…, l’“Antologia di scrittori armeni vittime del Genocidio” edita da Ares (pp.240, euro 18,00), a cura della Congregazione Armena Mechitarista e con un Invito alla lettura di Antonia Arslan, che di quello sterminio è la narratrice per antonomasia, almeno dal pluripremiato e pluritradotto La masseria delle allodole (Rizzoli, 2004; da cui il film dei fratelli Taviani del 2007 con Paz Vega e Alessandro Preziosi) e di Daniel Varujan è la delicata esegeta (ha tradotto Il canto del pane e Mari di grano). Il libro, edito l’anno scorso, sfugge ai canoni dell’‘evento editoriale’ (sarà presentato a Milano, il primo febbraio, presso il Cmc in Largo Corsia dei Servi, 4, con Antonia Arslan e Alessandro Rivali): è il documento pressoché esclusivo in Italia sulla letteratura armena durante il massacro. Per questo, ne abbiamo discusso con la Arslan.

Partiamo da Varujan. L’immagine del poeta concentrato sulla poesia, sulla forma, sulla bellezza anche se è circondato dai suoi sicari mi sembra il simbolo terribile e perfetto della forza della lirica contro il muso della Storia…

“È proprio così. I testi che ho trovato dei compagni di Varujan, miracolosamente sopravvissuti, sono molto potenti. Questi uomini guardavano con un certo fascino al giovane poeta che continuava ostinatamente a pensare alla poesia. Come se fosse una sfida contro l’orrore. La poesia è davvero una sfida contro l’atrocità e la voce di Varujan, che sorge da un mondo di ombre, è una lezione magnifica”.

Che tipo di caratteristiche specifiche ha la poesia armena?

“Intanto, è definita da una forte passione patriottica. I nostri poeti scrivono odi di speranza per il futuro della nazione armena, pur in uno stato di precarietà e di pericolo. Certamente, sono forti gli influssi della poesia europea dell’epoca. Ne Il carro dei cadaveri di Varujan, ad esempio, si sente l’eco di Manzoni e di Leopardi. Allo stesso modo, il ‘naturalismo’ francese di Zola si imprime nelle opere dei romanzieri armeni. Dobbiamo capire che la cultura armena, che aveva centri vitali a Costantinopoli, Tbilisi e Venezia, è fortemente ‘europea’. E ‘italiana’. A Venezia si traduceva moltissimo: s’immagini che Cuore di De Amicis è pubblico in armeno appena quattro anni dopo l’edizione italiana. Per gli armeni l’Italia è un modello da imitare, è la nazione che è giunta all’indipendenza attraverso le guerre di popolo”.

Venendo all’argomento più atroce. Lei scrive che “l’annientamento dell’élite armena della capitale” fu la “conseguenza di un abilissimo inganno”. Cosa significa?

“Significa che nello sterminio degli armeni c’è stata una premeditazione. Studiando i documenti dei sopravvissuti scopriamo che in tre giorni, dalla notte del 24 aprile 1915, i turchi deportano 2350 intellettuali, scrittori, giornalisti, politici appartenenti alla comunità armena. Non operano in modo brutale. Anzi. Agiscono con cortesia e gentilezza. ‘Non occorre che portiate con voi abiti o valige, dovete venire solo per rispondere ad alcune domande’, dicono i militari. Gli armeni obbediscono. Poi, li mandano in esilio nelle cittadine dell’interno, tra Çankiri e Ayas, a gruppi di 30 o di 50. Nei mesi successivi, chiedono ai detenuti di far inviare dalle famiglie cibo, vestiti, vettovaglie, soldi. Il tutto, ancora, senza brutalità. Infine, la dissimulazione si svela. Sottratti i beni inviati ai familiari dalla città (che saranno spartiti e rivenduti), gli assassini uccidono gli armeni, di solito durante un transito da un villaggio all’altro. Eccolo, l’inganno. Il governo dei Giovani Turchi riesce così a realizzare un progetto criminale architettato da lungo tempo”.

La domanda fatale, ora, è questa: perché gli armeni davano così tanto fastidio?

libro 2“Ora a questa domanda è possibile rispondere con coerenza. Negli Stati Uniti, un paio di mesi fa, è uscito uno studio di Siobhan Nash-Marshall, The Sins of the Fathers, con una immane quantità di referenze bibliografiche, frutto del lavoro di anni. Sommariamente: i Giovani Turchi, che rivendicano la parola ‘turco’ perfino nel nome del proprio partito politico, intendono fondare la propria patria in una Anatolia abitata per tradizione da armeni, greci, curdi, siriani. Il progetto è assimilare con conversioni forzate queste popolazioni o eliminarle. Questa specie di ossessione per la ‘patria’ turca ha origine con la crisi dell’Impero ottomano, quando i Balcani e l’Egitto si svincolano dalle spire del sultano, e la Grecia è perduta. I Giovani Turchi si appoggiano al nazionalismo europeo ottocentesco, alle teorizzazioni della filosofia tedesca e soprattutto a una decisiva alleanza con la Germania guglielmina”.

Ci dettagli l’importanza di questo legame con la Germania.

“Questo aspetto è forse quello più agghiacciante del lavoro di studio. In tutta la pubblicistica della Germania guglielmina, e parliamo di giornali, riviste e romanzi di grande successo pubblico, l’armeno è presentato come ‘l’ebreo del Medioriente’, è descritto con le stesse fattezze dell’ebreo e con gli stessi istinti morali, quelli del mercante disonesto. L’armeno è ritenuto una specie di ‘sub ebreo’ e questo spiega perché i tedeschi non abbiamo mosso un dito quando venne a galla lo sterminio degli armeni, un vero e proprio genocidio….”.

…che per altro, in scala ancora maggiore, colpirà proprio gli ebrei, in suolo tedesco. Solo che la Shoah è un fatto dolorosamente assodato, mentre sul genocidio armeno non si parla mai a sufficienza. Tornando a lei, Antonia Arslan, ora a cosa sta lavorando?

“Sto cominciando a scrivere un altro libro, che documenta la storia della mia famiglia, in parte narrata in Lettere a una ragazza in Turchia (Rizzoli, 2016). Il successo de La masseria delle allodole ha stimolato un mio cugino statunitense a inviarmi dei documenti su vicende che ora, come riesco a fare, voglio portare alla luce”.

Così, la scrittura non è mera testimonianza. La scrittura salva. Con “spietati occhi umani” il poeta, indomato, scava nell’orda del male per estrarre la bellezza. E la scrittura salva i morti dall’oblio, le macerie dall’annientamento.

Davide Brullo

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