Trieste, le grandi manovre per il salvataggio della chiesa armena (Ilpiccolo.it 05.12.17)

TRIESTE L’assessore regionale alla Cultura Gianni Torrenti e il sindaco Roberto Dipiazza avevano promesso che si sarebbero dati da fare. E infatti hanno mantenuto la parola data: cercheranno di intervenire in qualche modo per salvare il complesso della chiesa “Madonna delle Grazie” in via Giustinelli 7, di proprietà della comunità mechitarista, che sta cadendo a pezzi.

Levon Zekiyan, il delegato pontificio della Congregazione, anche arcieparca degli armeni cattolici di Istanbul, era venuto apposta nelle scorse settimane a Trieste da Venezia, dove c’è il centro più grande della confraternita, per sensibilizzare le istituzioni affinché contribuiscano al restauro della struttura posta sul colle di San Vito.

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Non solo la chiesa risente di notevoli problemi di umidità a causa della caduta del tetto dell’ala sinistra, ma all’interno è conservato ancora il prezioso organo del 1860 donato alla comunità dall’alpinista Julius Kugy, che con il passare del tempo potrebbe deteriorarsi notevolmente, mentre ai lati si ergono otto appartamenti, quasi tutti disabitati e anch’essi completamente da ristrutturare. Accompagnato dai rappresentanti del “Comitato Chiesa degli armeni” e del comitato Ararats (composto dagli ultimi discendenti armeni che ancora oggi risiedono a Trieste), Zekiyan ha incontrato Dipiazza e Torrenti.

L’arcieparca di Istanbul Levon Zekyan
L’arcieparca di Istanbul Levon Zekyan

Il primo cittadino, esattamente due giorni dopo l’incontro, ha effettuato un sopralluogo nella chiesa, ancora consacrata, che versa da quasi dieci anni nel degrado più assoluto. La Regione invece ha organizzato una visita in loco ieri mattina tra i funzionari e la Soprintendenza per determinare precisamente l’entità dell’intervento di cui necessità il tempio.

Il sindaco ha cercato di capire la gravità della situazione in cui si trovano attualmente gli edifici, ubicati in una delle zone che una volta erano in mano ai padri mechitaristi, che nella seconda metà del 1700 s’insediarono a Trieste.

La chiesa poi nel corso del ‘900 fu data in comodato d’uso alla comunità cattolica tedesca che nel 2009 abbandonò l’edificio. «Si tratta di un pezzo di storia di Trieste – ha commentato Dipiazza –, la situazione è molto complicata, drammatica direi, però io ci provo, vediamo che cosa riusciamo a fare. Il sito è di una bellezza disarmante, la vista sul golfo pure e il giardino a pastini è una meraviglia. Messo tutto a posto sarebbe davvero un gioiello».

E qualche giorno fa il sindaco ha cercato anche di stimolare l’interesse della Fondazione CRTrieste, invitando il presidente Massimo Paniccia a dare un’occhiata lui stesso all’area. Detto, fatto. La seconda verifica del sindaco, assieme al numero uno dell’ente, sarà oggi alle 10.30. E poi si tireranno le somme.

Il presidente di Fondazione CRTrieste...
Il presidente di Fondazione CRTrieste Massimo Paniccia

Intanto ieri due funzionari della Regione assieme all’architetto Francesco Krecic della Soprintendenza sono andati sul posto.

«Come era stato anticipato durante l’incontro con il comitato, il sopralluogo è stato fatto – ha affermato Torrenti – per valutare con precisione i lavori da fare e quali interventi eseguire. Per il momento bisogna provvedere alla copertura del tetto della chiesa per sanificare l’ambiente».

Si è evinto che i lavori da affrontare riguardano in particolare, oltre al tetto, il solaio, i pluviali e le grondaie con la relativa rimozione dei detriti. Pare che gli interni della chiesa siano in buone condizioni. Adesso però bisognerà attendere una richiesta formale da parte della proprietà alla Regione.

Il ruolo della Soprintendenza al momento non è stato rilevante, ma sarà importante nel momento in cui ci sarà un vero e proprio progetto di restauro.

Facendo una serie di conti, di primo acchito, secondo la perizia dell’architetto Walter Rutter, interpellato dal comitato stesso, l’entità dell’intervento sul tetto corrisponderebbe a una cifra che oscilla tra i 60mila e i 140mila euro.

«Dopo aver eseguito un sopralluogo rapido ma sufficiente a percepire lo stato drammaticamente fatiscente di strutture portanti delle falde del tetto, di solai e scale non più calpestabili – afferma il professionista – e l’urgenza degli interventi necessari per fermare il veloce declino, serve la stesura di un’analisi dettagliata dei danni e di un progetto di restauro. Le somme di danaro necessarie variano: 60mila euro sarebbero il minimo per fermare il disastro. 140mila euro consentirebbero il recupero della funzionalità, sempre spartana, ma totale».

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Armenia-Turchia: viceministro Esteri Kocharyan, Ankara impedisce normalizzazione relazioni bilaterali (Agenzianova 04.12.17)

Erevan, 04 dic 16:09 – (Agenzia Nova) – Rifiutando l’applicazione degli accordi siglati a Zurigo nel 2009 la Turchia impedisce la normalizzazione delle relazioni con l’Armenia. Lo ha detto il viceministro degli Esteri armeno Shavarsh Kocharyan, rispondendo così alle affermazioni del presidente turco Recep Tayyip Erdogan che ha incolpato Erevan per avere bloccato tutti i canali della cooperazione bilaterale. “I canali per la normalizzazione delle relazioni con la Turchia sono ben noti, e sono i protocolli armeno-turchi siglati a Zurigo nel 2009, così come la loro ratifica. Da quando la Turchia ha rifiutato di ratificare questi protocolli, la Turchia ha bloccato e continua a bloccare i canali di normalizzazione delle relazioni armeno-turche”, ha detto Kocharyan. La Turchia e l’Armenia firmarono il 10 ottobre 2009 a Zurigo uno storico accordo di normalizzazione dei rapporti tra i due paesi, dopo anni di gelo. L’intesa, che rischiò di saltare per contrasti sulle dichiarazioni finali delle due delegazioni, prevedeva tra l’altro la ripresa delle relazioni diplomatiche e prelude all’apertura del confine. (segue) (Res)

La Strada dei Vini Etrusco Romana alla “Settimana della Cucina Italiana nel Mondo” (Orvietonews.it 04.12.17)

Si è appena conclusa la Settimana della Cucina Italiana nel Mondo, l’evento annuale organizzato dal Ministero Italiano degli Affari Esteri e Cooperazione Internazionale, attraverso le rappresentanze diplomatiche italiane all’estero, che celebra la diversificata cucina regionale e le tradizioni alimentari italiane, con una gamma di eventi che promuovono la cultura culinaria italiana a milioni di consumatori in tutto il mondo. L’Associazione Strada dei Vini Etrusco Romana, unitamente al Coordinamento Strade del Vino e dell’Olio dell’Umbria e alla condotta Slow Food – Terre dell’Umbria Meridionale, è stata invitata dall’Ambasciata d’Italia a Jerevan, in Armenia a partecipare all’evento internazionale.

L’Ambasciata, nella seconda edizione di “The extraordinary Italian Taste”, ha individuato un focus incentrato particolarmente sul settore vitivinicolo nella realizzazione del binomio “cucina e vino di qualità”, la tutela e la valorizzazione dei prodotti a denominazione protetta e controllata. L’iniziativa si è svolta nello storico Grand Hotel Jerevan, nel centro della capitale Armena; un programma articolato che si è aperto con una conferenza di presentazione delle tradizioni gastronomiche Umbre, in particolare quelle dell’area meridionale tenuta da Mara Quadraccia in rappresentanza della Condotta e da Danca Caccavello in rappresentaza della Strada dei vini Etrusco Romana e del Coordinamento regionale delle Strade dei vini e olio regionale.

Un momento di approfondimento dove si è parlato di cucina, di prodotti locali e di presidio, dei vini e vitigni dell’Umbria, delle DOC e DOCG nonché delle tradizioni identitarie della nostra terra. E’ seguita una degustazione di piatti della tradizione umbra, preparati da Carla Chiuppi – fiduciaria della condotta – insieme allo staff di cucina dell’hotel, realizzati con i prodotti presentati, vino , olio, tartufi, pasta, legumi, salumi, pane e dolci. Complessivamente, 17 le aziende umbre che hanno condiviso l’obiettivo di far conoscere le nostre peculiarità mettendo a disposizione i loro prodotti.

Per tutta la settimana 10 ristoranti di Jerevan hanno proposto  menù tematici di cucina italiana di qualità accompagnati da vini dell’Umbria, con una prevalenza della nostra area, un’attività voluta con determinazione dall’Ambasciata, con il supporto dell’ Associazione e dei produttori di vino. Un successo al di sopra delle aspettative; tra gli ospiti erano presenti numerosi Ambasciatori delle rappresentanze in Jerevan, oltre ad alcune istituzioni armene, imprenditori italiani e armeni del settore agroalimentare.

Nutrita anche la presenza dei media, con la televisione nazionale, giornalisti e i blogger di settore. L’obiettivo era quello di promuovere il territorio, stimolare ed informare un numero sempre maggiore di potenziali consumatori verso i prodotti italiani e far conoscere le tradizioni e le bellezze che il nostro territorio offre, in un paese dove è iniziata la storia del vino documentata da 5.000 anni.

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Strasburgo condanna ancora Svizzera per questione armena (Swissinfo 28.11.17)

La Svizzera ha violato la libertà di espressione nella sentenza del 2010 del Tribunale federale (TF) nei confronti di tre cittadini turchi condannati per aver infranto la norma penale contro la discriminazione razziale, in quanto avevano negato il genocidio armeno.

È quanto ritiene la Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU) di Strasburgo.

Il caso ha gli stessi presupposti di quello del nazionalista turco Dogu Perinçek. Anche lui venne condannato nella Confederazione per discriminazione razziale a causa delle sue affermazioni relative alla deportazione e all’uccisione di armeni da parte di turchi nel 1915. La CEDU diede ragione al politico ritenendo che la Svizzera aveva violato la sua libertà d’espressione. Nel 2015, la Grande Camera sentenziò che “non era necessario, in una società democratica, condannare penalmente Perinçek per proteggere i diritti della comunità armena”. Le sue asserzioni “non erano assimilabili a un appello all’odio o all’intolleranza”.

Nell’attuale caso dei tre turchi, uno di loro si era espresso in occasione della manifestazione pubblica “Società per il pensiero kemalista” per la deportazione degli armeni tenutasi nel giugno 2007 a Winterthur. Inizialmente avrebbe dovuto parteciparvi anche Perinçek, ma gli fu vietata l’entrata in Svizzera. Gli altri due uomini avevano organizzato la conferenza.

Per evitare una ulteriore condanna della CEDU, la Confederazione aveva chiesto la cancellazione del caso ritenendo che alla luce della sentenza Perinçek i fatti erano stati chiariti. La Corte europea dei diritti dell’uomo ha comunque trattato la vicenda perchè per la revisione delle relative sentenze del TF è necessaria una decisione di Strasburgo. (sentenza 18411/11 del 28.11.2017)

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Negano il genocidio armeno, ma la Corte dei diritti dell’uomo li assolve (Corriere del Ticino 28.11.17)

STRASBURGO – La Svizzera ha violato la libertà di espressione nella sentenza del 2010 del Tribunale federale (TF) nei confronti di tre cittadini turchi condannati per aver infranto la norma penale contro la discriminazione razziale, in quanto avevano negato il genocidio armeno. È quanto ritiene la Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU) di Strasburgo.

Il caso ha gli stessi presupposti di quello del nazionalista turco Dogu Perinçek. Anche lui venne condannato nella Confederazione per discriminazione razziale a causa delle sue affermazioni relative alla deportazione e all’uccisione di armeni da parte di turchi nel 1915. La CEDU diede ragione al politico ritenendo che la Svizzera aveva violato la sua libertà d’espressione. Nel 2015, la Grande Camera sentenziò che “non era necessario, in una società democratica, condannare penalmente Perinçek per proteggere i diritti della comunità armena”. Le sue asserzioni “non erano assimilabili a un appello all’odio o all’intolleranza”.

Nell’attuale caso dei tre turchi, uno di loro si era espresso in occasione della manifestazione pubblica “Società per il pensiero kemalista” per la deportazione degli armeni tenutasi nel giugno 2007 a Winterthur. Inizialmente avrebbe dovuto parteciparvi anche Perinçek, ma gli fu vietata l’entrata in Svizzera. Gli altri due uomini avevano organizzato la conferenza.

Per evitare una ulteriore condanna della CEDU, la Confederazione aveva chiesto la cancellazione del caso ritenendo che alla luce della sentenza Perinçek i fatti erano stati chiariti. La Corte europea dei diritti dell’uomo ha comunque trattato la vicenda perché per la revisione delle relative sentenze del TF è necessaria una decisione di Strasburgo.

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Armenia-Iran: presidente Sargsyan riceve ministro Esteri Zarif, soddisfazione per andamento rapporti bilaterali (Agenzianova 28.11.17)

Erevan, 28 nov 16:55 – (Agenzia Nova) – Il presidente armeno Serzh Sargsyan ha ricevuto il ministro degli Esteri iraniano, Mohammad Javad Zarif, oggi in visita a Erevan. Secondo quanto riferito dall’ufficio presidenziale armeno, Sargsyan ha espresso al ministro iraniano la soddisfazione per l’opportunità di sviluppare le relazioni bilaterali che si basano su secolari rapporti di amicizia fra i due popoli. Sargsyan ha espresso la propria solidarietà al popolo iraniano per il recente terremoto che ha colpito il paese e manifestato la convinzione che l’Iran sarà superarne le conseguenze in tempi brevi. Il capo dello stato armeno ha inoltre ricordato che in 25 anni di relazioni diplomatiche ufficiali i due paesi hanno costruito rapporti di amicizia, mutua comprensione e rispetto. Zarif dal canto suo ha sottolineato che lo sviluppo delle relazioni bilaterali con i paesi vicini è una priorità della politica estera dell’Iran e l’Armenia è sempre stato un vicino molto importante per Teheran. (Res)

I segreti del Duomo, il gioiello che cade a pezzi (Molfettaviva.it 28.11.17)

In Armenia a seguito della caduta del regno bagratide avvenuta nel 1045, si ebbero massicce invasioni di popolazioni nomadi tra cui i selgiuchidi e i mongoli, e gli armeni, onde evitare la pulizia etnica che si stava perpetuando nei loro confronti, furono costretti ad emigrare verso l’Occidente cristiano.

La storia della Chiesa Vecchia, esemplare unico del romanico in Puglia

La nostra storia ha inizio moltissimi secoli fa, in una piccola grotta che stando alle fonti, si sarebbe un tempo trovata nei pressi della spiaggia dove ora sorge il Duomo.

In essa infatti lo studioso don Graziano Bellifemmine avrebbe individuato tramite le sue ricerche, una casa preghiera, e cioè un luogo in cui si radunavano le prime comunità cristiane per pregare e celebrare la liturgia. Le prime case di preghiera di solito si costituivano nelle grotte, nei pressi della tomba di un santo, o in luoghi che in precedenza erano stati pagani “per fare entrare la luce dove precedentemente regnavano le tenebre”. Una prova del fatto che anticamente il Duomo sarebbe stato luogo di una casa preghiera, sarebbe rivenibile in alcune lapidi dedicative, due lastre di marmo presenti nella zona alla destra dell’altare del Duomo (note come l’epigrafe di Risando, primo vescovo del Duomo) che per forma e per grandezza ricordano le lapidi che si mettevano in questi luoghi di culto e che risultano troppo povere e prive di valore per poter costituire l’epigrafe del primo vescovo. Se così fosse, l’origine della nostra chiesa, risalirebbe addirittura al IV-V sec d.C.

Ma come si arrivò alla costruzione di una chiesa vera e propria?
Per capirlo, dobbiamo fare riferimento agli armeni, antico popolo indoeuropeo che si era stabilito in una regione dell’Asia sud-occidentale e che sarebbe strettamente legato alla nascita del nostro Duomo. Cosa accadde dunque?
In Armenia a seguito della caduta del regno bagratide avvenuta nel 1045, si ebbero massicce invasioni di popolazioni nomadi tra cui i selgiuchidi e i mongoli, e gli armeni, onde evitare la pulizia etnica che si stava perpetuando nei loro confronti, furono costretti ad emigrare verso l’Occidente cristiano. Arrivarono anche in Puglia e contribuirono molto allo sviluppo e alla crescita delle città in cui vissero. Tuttavia alcuni di loro erano già presenti nella zona di Bari sin dal IX secolo d.C.
Una traccia armena la si può trovare ancora oggi in alcuni diffusi cognomi pugliesi come ad esempio Armenio, Armenise, Amoruso, Caccuri, Susca, Marzapane, Zaccaria, Trevisani, Pascali e Oliviero.
Famose furono le opere architettoniche armene in tutta la Puglia, le loro maestranze erano difatti erano particolarmente esperte nell’ingegneria edilizia. Si stabilirono anche a Molfetta e poiché in quel periodo la popolazione stava aumentando, si ebbe l’esigenza di costuire una chiesa più grande e che fosse rappresentativa della città.
La chiesa di Sant’Andrea, sita ancora oggi nel centro storico, era diventata troppo piccola, e pertanto si decise di edificarne una nuova sulla grotta-chiesa.

Stando ai recenti studi così sarebbe nato il Duomo: una chiesa dall’architettura tipicamente orientale, costruita da immigrati benestanti per servire le colonie armene stanziate lungo le coste. Infatti, osservando attentamente il Duomo, possiamo notare che sono molti i richiami all’Oriente.
Nelle chiese orientali infatti, l’altare solitamente era sormontato da una cupola alla forma sferica perfetta che rappresentava la perfezione della volta stellata: la Gerusalemme del cielo rivolta verso la Gerusalemme della terra. Nell’abside centrale c’era il bema (una piattaforma rialzata) e un piccolo altare, poi lateralmente all’abside c’erano dei piccoli ambienti denominati “sagrestie”. Essi comparivano anche nella prima liturgia bizantina e si chiamavano pastophoria (che in greco vuol dire “appartamento del sacerdote” o “camera per il tesoro”): in quello sinistra si conservavano le offerte le i fedeli, in quello di destra, si custodivano i vasi e i paramenti sacri. Con l’avvento della liturgia bizantina tarda, I pastophoria caddero in disuso e vennero sostituti da altre due absidi aggiunte alla preesistente centrale: le absidi diventarono così tre a simboleggiare la Santissima Trinità. Nel nostro Duomo queste diverse stratificazioni storiche e costruittive ci sono tutte. Per capire ancora meglio l’origine orientale della nostra chiesa, bisogna dirigersi verso l’ingresso laterale del Duomo. Noterete sicuramente l’atrio che si trova subito prima del portone secondario della chiesa. In realtà quello spazio un tempo veniva chiuso e infatti all’entrata dell’atrio c’era una imponente porta di legno massiccio; se ci fate caso vedrete che ci sono ancora dei cardini in pietra in cui giravano i perni del portone. Quell’atrio rappresentava la soglia che dalla città profana immetteva nella città sacra, era il luogo in cui si offriva ospitalità ai pellegrini, la sosta che si concedevano prima di entrare in chiesa. Lungo le pareti della facciata sud sono infatti ancora visibili i segni di pellegrini che sono passati da qui, e se siete attenti, potrete notare incisioni di croci nella roccia.

Ma c’é qualcosa in più.
Rivogete il vostro sguardo verso l’alto, al di sopra dell’arco che sormonta l’ingresso dell’atrio: noterete che c’é una piccola nicchia vuota. Sui portoni degli atri e delle chiese di Oriente è comune infatti che si veda una nicchia al cui interno si trova o un affresco o una scultura raffigurante il Cristo Pantokrator (colui che tutto è, figura di Cristo benedicente). Ebbene la stessa cosa venne fatta a Molfetta: quello spazio vuoto un tempo era riempito da un affresco di un Cristo Pantokrator che è ora scomparso in quanto dipinto con colori naturali via via sbiaditi. Un altro esempio di riferimento all’Oriente é visibile sempre stando con lo sguardo rivolto all’ingresso laterale del Duomo e osservando in alto sulla parete: si scorge una scultura raffigurante il Cristosbadgher del Pantocrator, rappresentazione iconografica armena diffusa dal VI d.C. Rappresenta Cristo in trono, colui che tutto può e che tutto sa, che sembra quasi fissare il vuoto. Nel medioevo fino a quasi al 1100 le rappresentazioni scultoree e pittoriche non rappresentavano stati d’animo ma tutto si esprimeva tramite la gestualità, e ciò era volutamente in netto contrasto con le raffigurazioni pagane che invece sottolineavano tramite smorfie quasi grottesche, i sentimenti umani volubili, quindi caduchi. Il nostro Pantocrator, con la sua apparente inepressività era invece il simbolo immutabilità e di eternità e la fissità dell’immagine deriva da una immagine sacra tipica dell’Oriente: l’icona, chiamata badgher in armeno.

Dopo l’arrivo dei bizantini, anche il Duomo di Molfetta divenne per un breve periodo bizantino. Essi modificarono le porte esterne ed interne inserendo due “squadri a mensola” negli angoli dell’architrave come loro elemento di decoro tipico e poi iniziano a costruire un mosaico che si sarebbe dovuto trovare lungo la navata centrale. Ma non fecero in tempo.

Arrivarono i crociati che chiamarono il Duomo “Santa Maria Assunta” e vi crearono un vero tempio romanico gerosolimitano su modello di una chiesa presente a Gerusalemme, la chiesa di Sant’Anna. Dei simboli e dei significati nascosti presenti nel nostro Duomo, parlerò prossimamente.

Potete approfondire l’argomento leggendo un interessantissimo e accurato lavoro di ricerca che è stato fatto sul Duomo, e dal quale ho attinto gran parte delle informazioni per poter realizzare il mio articolo.

Questo lavoro si trova in un libro molto bello e che consiglio fortemente che si chiama “Il Duomo di Molfetta. Una chiesa fra Oriente ed Occidente” di Girolamo A.G. Panunzio.

Armenia con mezzo piede nell’UE (Lindro.it 27.11.17)

Se non è stata una coincidenza, Romano Prodi ha scelto bene il momento per recarsi a Mosca e intrattenersi, un paio di giorni fa, con Vladimir Putin, che lo annovera tra i suoi non pochi amici italiani (ciascuno a suo modo, peraltro). L’ex premier ulivista non è stato infatti, nella veste di presidente della Commissione di Bruxelles, soltanto uno dei protagonisti dell’allargamento a est dell’Unione europea che in Russia era visto comprensibilmente di malocchio anche perché dietro o a fianco della UE si stagliava l’ombra della NATO. Si è altresì distinto, in seguito e sia pure in veste pressocchè privata, come auspice e precursore di uno sviluppo di segno positivo o comunque distensivo che si sta profilando adesso promettendo di rovesciare una tendenza opposta innescata dalla crisi ucraina, cioè dallo sbocco più contrastato del suddetto allargamento. Secondo Prodi, l’associazione dell’Ucraina alla UE duramente avversata da Mosca, non era di per sé incompatibile con i suoi multiformi legami con la Russia, ed è probabile che già qualche anno fa abbia cercato di convincerne Putin.

Ora la visita dello statista italiano al Cremlino ha coinciso con un ulteriore passo avanti dell’allargamento che aggancia alla UE un’altra repubblica ex sovietica dopo la Moldavia, la Georgia e la stessa Ucraina. Si tratta della piccola Armenia, anch’essa avviata quattro anni fa a stipulare un accordo di associazione con Bruxelles che tuttavia sfumò per due o tre buoni motivi. Vi si oppose infatti un veto russo, analogo a quello che provocò indirettamente la rivoluzione di Maidan a Kiev e al quale il governo di Erevan, a differenza di quello ucraino filorusso, non poteva resistere, o non poteva essere rovesciato se si arrendeva.

Ancora stretta fra il plurisecolare nemico turco a ovest e il più recente antagonista azero a est, già vinto in guerra ma smanioso di rivincita, l’Armenia era costretta a restare affidata in modo praticamente esclusivo alla protezione russa per non finire strangolata, malgrado la forte attrazione per l’Occidente in un Paese parecchio diviso sulla sua collocazione internazionale e scarsamente incline a gestire civilmente le proprie divergenze interne. E la costrizione si è attenuata per un verso ma accentuata per un altro allorchè la Turchia, in concomitanza con il conflitto in Siria ma soprattutto a causa di altri contrasti con i suoi alleati atlantici, si è sensibilmente avvicinata alla Russia.

Non solo, quindi, Erevan dovette rinunciare a mettere almeno un piede nella UE, ma fu indotta a compiere una scelta opposta: aderire alla neonata Unione eurasiatica patrocinata dalla Russia, per ora soltanto economica e dimostratasi peraltro ancora poco attraente nello spazio ex-sovietico. Diciamo indotta, o sospinta, e non proprio forzata, perché non manca neppure in questo caso un oggettivo interesse armeno alla partecipazione. La presenza russa nel Paese non si limita infatti all’unica base militare disponibile per Mosca in Transcaucasia ma è resa anche economicamente cospicua da investimenti in vari settori e scambi commerciali predominanti.

Di qui dunque tutto il rilievo che merita la novità rappresentata da un primo caso di aggancio all’Unione europea di un Paese membro di un raggruppamento in qualche modo concorrente o addirittura contrapposto ad essa, come lo era al tempo della guerra fredda tra Est e Ovest, per la CEE divenuta poi UE, l’organizzazione economica del campo socialista capeggiata dall’URSS e per lo più nota come Comecon. Una primizia, insomma, verosimilmente destinata a creare un precedente, importante soprattutto, benchè non solo, ai fini di un’eventuale soluzione analoga del problema ucraino, ammesso che essa sia ancora concepibile mediante un ragionevole compromesso pacifico tra tutti gli interessati. Le cose, finora, sembrano andare piuttosto in direzione opposta, ma le sorprese, fortunatamente, sono sempre possibili se non proprio dietro l’angolo.

Naturalmente l’inversione di rotta, se confermata, sarebbe in primo luogo russa, e per la Russia (non solo per Putin e compagni) Armenia e Ucraina costituiscono entità e valori anche simbolici ben diversi. Ciò che Mosca può concedere per l’una non si applica automaticamente all’altra. Innanzitutto, comunque, si deve appurare se Mosca abbia accordato il suo beneplacito preventivo a Erevan, del quale per il momento non c’è traccia anche se appare logico presumere che esista.

In eventuale assenza di dichiarazioni esplicite, potrebbe diventare eloquente la firma o meno da parte russa dell’accordo per la promessa concessione all’Armenia di un prestito di 100 milioni di dollari per spese militari. Erevan l’ha sollecitata augurandosi che avvenga entro la fine dell’anno, pressata come si sente dall’incessante corsa agli armamenti dell’Azerbaigian. Che però accusa a sua volta la vicina di insistere in una serie interminabile di violazioni di un ormai vecchio cessate il fuoco col quale, in mancanza di accordi di pace, si cercava di tamponare un conflitto risalente a quasi trent’anni fa e che perciò minaccia ripetutamente di riesplodere a tutto campo.

Mentre la mediazione da parte dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione europea non sembra dare frutti apprezzabili, permane dovunque la convinzione che solo Mosca sia in grado di spegnere, con le buone o con le cattive, un focolaio di guerra perennemente accesso presso le porte di casa. E tuttavia, mentre a Erevan c’è parecchio risentimento per la copiosa fornitura di armi russe all’Azerbaigian, che tra tutti gli Stati eredi dell’URSS si è mostrato fino a ieri uno dei più insofferenti dell’egemonia russa nell’area ex sovietica, non mancano neppure i sospetti che Mosca non si impegni davvero per porre fine ad un conflitto grazie al quale trova più agevole mantenere legati a sé i due contendenti.  Entrambi, certo, fanno del loro meglio per barcamenarsi tra la Russia e l’Occidente, al punto da coltivare la cooperazione non solo con la UE ma anche con la NATO, sia pure, finora, nel quadro meno compromettente dei programmi di partnership per pace.

A questi ultimi si ricollega peraltro, figurando comunque in primo piano, la partecipazione dell’Azerbaigian ad una missione di innegabile sapore politico come quella atlantica in Afghanistan (Resolute support), cui un Paese più povero e più pesantemente condizionato quale l’Armenia difficilmente potrebbe permettersi di aderire. Ma proprio per questo, è da presumere, Mosca si può invece permettere di mostrarsi più esigente con essa e più compiacente col suo avversario, già sfavorito da parte russa al tempo del conflitto aperto ma da riportare adesso sotto la propria ala sottraendolo alle sirene occidentali, senza ricorrere se possibile alle maniere forti.

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Una bestia sulla luna. Teatro Santa Chiara, BS (Vivicentro.it 26.11.17)

Antefatto – I Turchi nel 1915 hanno sterminato letteralmente 2 milioni di Armeni. Sterminio perpetrato dal fanatismo politico del movimento politico “Giovani Turchi”, che si propone l’obiettivo di creare una grande nazione turca, che dal Mar Nero si estenda fino all’India, e che sia abitata da una popolazione solamente turca, omogenea per etnia, lingua e religione. Gli Armeni sono una popolo antichissimo stanziato nell’Anatolia da millenni. Essi nel 301 adottano il cristianesimo come loro religione ufficiale. E la mantengono con dignità e coraggio anche dopo la diffusione dell’Islam nella loro regione. Resistono fino a quando non si scontrano con il fanatismo dell’Impero Ottomano che non tollera al suo interno la presenza di una consistente popolazione cristiana.

Nella notte del 24 aprile 1915 tutti gli Armeni colti di Istambul-Costantinopoli (giornalisti, scrittori, medici, avvocati, parlamentari…) vengono arrestati simultaneamente e trucidati barbaramente. Per il resto della popolazione, con la scusa di proteggerli dalle operazioni belliche del conflitto mondiale in corso (1914-18), vengono organizzati dei trasferimenti forzati di interi villaggi, verso una zona deserta verso la Siria. Ma inevitabilmente si trasformeranno in “marce della morte”, durante le quali milioni di esseri umani moriranno di stenti, di sfinimento, di fame, di malattia, quando non saranno direttamente massacrati lungo la strada dai soldati di scorta. Gli Armeni sopravvissuti, con la loro sofferenza, ricordano al mondo questa ferita della storia del ‘900. Ferita ancora non rimarginata, per la maggior parte ancora poco conosciuta se non addirittura negata. Creando doppio dolore in chi ha patito direttamente o per memoria famigliare.

La vicenda – Richard Kalinoski ci fa rivivere il dolore di un intero popolo rappresentando il dramma di due sopravvissuti, un lui ed una lei, e del loro figlio adottivo, che sulla scena si sdoppia in Io narrante (Alberto Mancioppi) oltre che adolescente socialmente disadattato.

Lui in scena è Aram Tomasian (Fulvio Pepe), giovane fotografo immigrato in America, dove vuole ricomporre affettivamente la sua nuova famiglia in sostituzione di quella che i turchi gli hanno sterminato, decapitando i suoi famigliari ed appendendo le teste in cortile sul filo da stendere per la biancheria.

Lei è Seta (Elisabetta Pozzi), giovane profuga sposata per procura. Anche lei sfuggita all’eccidio dopo aver visto sua madre letteralmente crocifissa perché cristiana e sua sorella maggiore stuprata davanti ai suoi occhi di bambina che ne resterà perennemente ferita e condizionata anche nella sua vita di donna e di moglie.

La coppia si porta dentro il dramma del dolore represso, che ogni tanto riaffiora in atteggiamenti di interiore tormento ed in rituali compulsivi: lui con la foto della sua famiglia, lei con la bambolina di pezza regalatale dalla madre. Negli anni scopriranno lo loro sterilità di coppia, che aggiunge delusione a disperazione. La famiglia e la memoria non possono essere conciliate e ricomposte. La catarsi rigeneratrice verrà raggiunta solo quando nella loro vita compare Vincent (Luigi Bignone), uno sventurato ragazzino abbandonato, che essi finiranno con l’adottare. Nel nuovo affetto tutti e tre riusciranno a sublimare il loro dolore, ad acquietare il tormento del passato e guardare al futuro con speranza rinnovata.

Convincente l’interpretazione dei quattro attori. Brava la Pozzi nell’esprimere il disorientamento dell’emigrata e lo sgomento della vittima. Ottimo Fulvio Pepe nel passare dall’autocompiacimento quasi tronfio dell’emigrante affermato, al disappunto della sterilità, per sprofondare negli abissi del suo dolore mai sopito della tragedia vissuta. Comunicativo Luigi Bignone, nell’impersonare Vincent-scugnizzo espansivo e, tutto sommato, socievole anche se afflitto dal disagio sociale. Compassato ed affabile Alberto Mancioppi nei panni di Vincent-narratore, che rammenta e raccorda tempi e situazioni tra loro distanti ma intrecciati, che lui contribuisce a dipanare di volta in volta e che la regia sottolinea con accorto gioco di luci ed una scenografia sobria, al limite dello spoglio ma arricchita da un’efficace proiezione di diapositive in dissolvenza.

Convincente la regia (Andrea Chiodi) che rilegge l’opera di Kalinoski con rinnovata sensibilità umana sia verso la vicenda della famiglia Tomasian che verso le sventure di un intero popolo, che non cessa di fare da costante, doloroso fondale scenico per tutta la durata della icastica rappresentazione.

In tempi come i nostri di emigrazioni di massa ed immigrati disadattati, la storia di questa famiglia armena, sopravvissuta alla tragedia del dolore e della disperazione, dovrebbe far riflettere e stemperare qualche facile populismo, oggi tanto di moda.

Il pubblico attento e caloroso alla fine dello spettacolo, fa ben sperare che l’opera qualche seme lo ha lasciato e che qualche frutto di umana assennatezza germoglierà.

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A Livorno il convegno ‘Il filo rosso che lega il genocidio armeno alla shoah’ (Gonews.it 25.11.17)

Lunedì 27 novembre alle ore 15,30 (e poi in replica alle ore 17,30) nell’Auditorium Pamela Ognissanti del Centro Servizi al cittadino Area Nord (ex Circoscrizione 1) in via Gobetti, 11 si terrà il primo appuntamento del progetto “Il filo rosso che lega il genocidio armeno alla shoah”. L’incontro sarà tenuto da Vittorio Robiati Bandaud (ricercatore, saggista storico, vicepresidente del Tribunale Rabbinico di Milano ed esponente dell’Amicizia Ebraico-Cristiana di Milano) che approfondirà la storia del genocidio armeno.

L’incontro rivolto a docenti di ogni ordine e grado, studenti delle classi terze degli Istituti Secondari di primo grado e agli studenti degli Istituti Superiori, genitori, studiosi e cittadini, si colloca come primo evento del progetto “Il filo rosso che lega il genocidio armeno alla shoah” inserito nel programma Scuola-Città 2017-2018 del CRED Centro Risorse Educative e Didattiche del Comune di Livorno e svolto in collaborazione con l’Associazione Cassiodoro.

Il genocidio armeno avvenne nel periodo del primo conflitto mondiale (1914 -1918) nell’area dell’ex impero ottomano, in Turchia, e fu il primo del XX secolo (1915 – 1923). Il governo “dei Giovani Turchi”, preso il potere nel 1908, attuò l’eliminazione dell’etnia armena presente nell’area anatolica fin dal VII secolo a.C.. Nella memoria degli Armeni, ma anche nella stima degli storici, perirono i due terzi del loro popolo dell’Impero Ottomano, all’incirca 1.500.000 assieme a centinaia di migliaia di vite di cristiani assiri, di greci del Ponto e di altre confessioni cristiane orientali minoritarie.

I prossimi appuntamenti:

17 gennaio 2018 (ore 9.30) Cinema Teatro 4 Mori, piazza Tacca
Proiezione del film “La masseria delle allodole” dei fratelli Taviani, tratto dal romanzo storico di Antonia Arslan, che sarà presente in sala insieme al Vittorio Robiati Bendaud e Siobhan Nash Marshall (docente di filosofia e teologia). Destinatari: classi terze Istituti Secondari di primo grado Istituti Superiori.

17 gennaio 2018 (ore 17) Sala Ablondi, via delle Galere, 29/33 Giornata del Dialogo Ebraico Cristiano.

17 gennaio – 19 febbraio 2018 Chiesa degli Armeni, via della Madonna
Mostra fotografica-documentaristica sulle tragiche vicende del Metz Yeghern, il “Grande Male”, cioè il Genocidio Armeno.

Fonte: Comune di Livorno-Ufficio Stampa

 

Ara Malikian: “Quando ero un rifugiato l’arte mi salvò la vita” (Askanews 25.11.17)

Roma, (askanews) – Ormai è una star del violino, un artista che con il suo talento unico e le molteplici influenze stilistiche che vanno dall’Armenia all’America Latina, ha conquistato le platee di mezzo mondo. Ma 30 anni fa, Ara Malikian era un giovane rifugiato che fuggiva da un paese del Medio oriente in guerra, il Libano.

Una storia che si ripete oggi in Siria, Yemen, Iraq oltre a molti paesi africani, coinvolgendo fra l’altro ancora una volta lo stesso Libano che ha accolto oltre un milione di profughi, su una superficie pari a poco più della metà del Lazio e contando appena 6 milioni di abitanti.

Il prodigio del violino armeno-libanese, che domenica 26 novembre sarà a Roma all Auditorium Parco della Musica, ha commentato così la sua esperienza rispetto alla situazione attuale.

“L’arte mi ha salvato la vita. Vivendo in Libano fu molto difficile uscire dal paese quando c’era la guerra. Io avevo 15 anni e grazie al fatto che suonavo il violino sono potuto uscire dal paese in un periodo in cui era molto difficile. Poi quando sono arrivato in Germania, a 15 anni, senza i miei genitori, senza conoscere nessuno, senza conoscere la cultura in Europa e la lingua, ancora una volta grazie all’arte e grazie alla musica sono potuto sopravvivere e studiare, lavorare e avere una vita dignitosa.

“È una fortuna che oggigiorno la maggioranza dei rifugiati e sfollati non hanno. Se faccio il paragone con la mia epoca, fui fortunato perché mi aiutarono e quindi sono passato dall’essere un rifugiato a essere un essere umano, con il permesso di soggiorno, legale. Ma oggi abbiamo 65 milioni di rifugiati nel mondo e non hanno questo aiuto che io ebbi 30 anni fa”.

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