Il Giornale – La strage degli armeni. Un popolo cristiano prigioniero dell’islam.

Al Vittoriano di Roma è possibile ammirare la cultura del “popolo dell’Arca” che è un bastione dell’Occidente Ma viene abbandonato a se stesso

Renato Farina

 

Il genocidio degli armeni, è stata la prima immensa strage del 900. Ci appartiene. Forse gli armeni sono un indizio del nostro destino. Furono eliminati per odio religioso e razziale dai musulmani turchi. Quest’anno se ne celebra il centenario, nella data simbolica del 24 aprile.

La stupefacente mostra che si inaugura domani al Vittoriano, nella corpo stesso dell’Altare della Patria, è insieme di oro e di sangue. Ci sono tesori antichi e la voce di italiani che denunciarono la strage sin da pochi mesi dopo gli eccidi di Anatolia e Cilicia. Un milione e mezzo di morti. Paolo Kessisoglu (quello di Luca e Paolo: è figlio di sopravvissuti del genocidio scampati in Italia) leggerà le pagine di Filippo Meda, Antonio Gramsci, del console d’Italia a Trebisonda, Giacomo Guerrini.

Preme subito dirlo. Non è una mostra sul genocidio. Le testimonianze al proposito occupano solo una delle sette sezioni. Domina da ogni parte il monte biblico Ararat, dove si arenò – dicono oramai anche gli archeologi – l’Arca di Noè. Insomma: l’Armenia non è il luogo del Diluvio Universale, ma della rinascita dopo la tragedia. E prima ancora che diventassero cristiani, quando nacquero come popolo, tramandarono nel settimo secolo avanti Cristo di essere discendenti di Noè, da Iafet, che diede il primo vino al mondo attraverso gli armeni. E il distillato Ararat, che se ne ricava, ha un profumo uguale e diversissimo dal cognac. Sa di miele di roccia ma di albicocca. Fu da qui che i romani la portarono in Italia, ed in Veneto si chiama ancora «armellino». Venezia in particolare ha mescolato la sua laguna con le acque caucasiche e orientali di questi cristiani a cui fu donata un’isola, san Lazzaro, dove stamparono i loro libri meravigliosi con quell’alfabeto che a solo guardarlo induce a pensare il dolore del mondo.

Non è una mostra sul genocidio, ma lo spiega. Si capisce perché li odiano. Perché li vogliono distruggere. Gli armeni non si sottomettono, non possono farlo. C’è un fuoco dentro questo popolo. Da loro sgorga una bellezza nell’arte, nella lingua, nei libri, nelle loro liturgie insopportabile per chi sia convinto che fuori dal Corano non c’è salvezza.

Ma visto che è il centenario non possiamo prescindere da quell’abisso di male. Eppure la croce armena è fiorita. Non è mai scolpita, disegnata, colorata, senza contenere un germoglio (una parte della mostra è dedicata a questo susseguirsi di strane croci). Come si dice in un testo liturgico tradotto sin dal 1816 in italiano si spiega perché: «Fin dal principio dei tempi apparve la Croce fiorita nel Paradiso piantato da Dio: segno di consolazione a Set, e pegno di speranza al padre Adamo». Gli armeni non riescono a non vedere, a differenza degli ebrei di cui condividono il marchio della persecuzione, spuntare un fiore dal male assoluto. Si racconta che Komitas, il genio musicale armeno, sopravvissuto per miracolo al genocidio, dopo quella tragedia sia rimasto in silenzio: per vent’anni, fino alla morte. Bisogna romperlo quel silenzio. Parlare dell’Armenia.

Gli armeni! Che ne sappiamo? Poco. A Venezia c’è la loro meravigliosa biblioteca dove stanno monaci dalle grandi barbe. Nei film americani sono figure simpatiche di numerosa famiglia. È un popolo dalla schiena diritta. Sono stato in Armenia e ne ho studiato (poco) la storia. Il sole è accecante, la terra arida, che si dischiude su acque di laghi turchese. Nella capitale Erevan c’è il monumento dell’orrore, avvolto di pietà, perché gli armeni coltivano anche il perdono. Popolo grande, ma l’Armenia è ridotta a un fazzoletto di terra, meno di 30mila km quadrati, inferiore alla decima parte dell’Italia, in realtà meno del 90% del territorio che storicamente le apparterrebbe, ma è di dominio turco. Che bella gente quella armena. Chiedono che la Turchia chiami le cose con il loro nome, omicidio l’omicidio, genocidio il genocidio. Il Parlamento italiano, nel 2000, all’unanimità ha riconosciuto il genocidio armeno. Ma ora, per non turbare la Turchia, il governo italiano è molto timido sul tema. Sulla verità non lo si dovrebbe mai essere. Per ragioni strategiche dovremmo tollerare una Turchia che non riconosce l’orrore della propria storia? Tirarci in Europa una realtà di menzogna?

Bisogna ricordare. Ricordiamolo a noi stessi, mettiamolo nell’agenda del nostro governo. Nel cuore del Caucaso c’è un piccolo Stato cristiano. Noi non lo sapevamo – non sappiamo mai niente di importante – ma è l’ultima propaggine dell’Europa e dell’Occidente. Anche se le cartine della geografia dicono Asia, questa è Europa. Prima che noi diventassimo cristiani, loro lo erano già. È un cristianesimo che non è cattolico latino ma non si è mai separato aspramente da Roma: c’è dai tempi del Vangelo. Gli armeni hanno avuto la sfortuna di essere abitanti di un territorio troppo strategicamente decisivo: tra il Mar Nero e il Mar Caspio, difesi dalle montagne a Nord e Sud. Chi possiede questa terra ha in mano il perno dell’Asia e dell’Europa. I romani avevano già preso sotto di sé questa regione con Pompeo, nel 69 avanti Cristo. Data dal 301 la decisione di dichiarare il cristianesimo religione di Stato, primi al mondo. Arrivarono mongoli, turchi, arabi, persiani e poi ancora turchi, a divorarsela, quindi i comunisti sovietici: ma questo punto di cristianesimo e di occidente, di valore dato all’individuo e al popolo che lo difende, ha tenuto. Si rifugiavano sulle montagne o fuggivano all’estero, portando con sé i loro libri e trascrivendoli. La loro cultura è infinita. Non solo nel senso della quantità, ma in quello strabiliante della forza dell’identità. Questi sanno chi sono. Per questo sono un patrimonio imperdibile proprio per noi che non sappiamo più chi siamo ma guardando loro abbiamo nostalgia. Ora questo popolo, che ha ritrovati magri confini, è circondato dall’Islam. Ha preservato una roccaforte di straordinaria bellezza tra i monti azeri, il Nagorno Karabakh, ma muore praticamente di fame e di solitudine. Scrive lo storico armeno Leonzio nel medioevo: «Ormai secche le rose e le violette armene». Ma rifioriscono ogni volta.

– – – Al Vittoriano in Roma la mostra Armenia. Il popolo dell’Arca . Da venerdì 6 marzo al 3 maggio aperta al pubblico

Avvenire – Armeni, la lezione del genocidio. (4 mar 2015)

Un protagonista della diaspora Herman Vahramian  nasce a Teheran il 29 novembre 1939 da genitori armeni. Artista, architetto, intellettuale, editore, è stato una delle voci più interessanti della diaspora armena in Italia e in Europa. È stato anche, a lungo, nostro collaboratore sviluppando acute analisi di geopolitica culturale. È morto a Milano nel 2009 dopo lunga malattia. Si era trasferito in Italia definitivamente nel 1965, a Roma, laureandosi architetto nel 1972. Subito dopo si trasferisce a Milano e fonda l’I/Com (Istituto per la ricerca e la diffusione delle culture non-dominanti); nel 1981, a Monaco di Baviera, l’Istituto Musicam; nel 1985 fonda le edizioni Oemme che pubblicano studi sul patrimonio artistico e culturale armeno. Nel 1995 nasce Pietro, suo figlio, a cui Vahramian dedica la sua ultima fatica, un singolare testamento spirituale e una consegna delle memorie che ora trova forma nel volume Libro per Pietro. Memorie per un figlio edito da Medusa in questi giorni (pp. 224, euro 18), dal quale anticipiamo un brano sul genocidio armeno.

 

Apartire dall’VIII secolo il Medio Oriente divenne teatro di genocidi. Il genocidio e la “soluzione finale”, in quanto elementi risolutivi di una controversia politica e territoriale, divennero la regola. Persiani, georgiani, armeni, greci bizantini ecc. subirono numerosi massacri e/o genocidi – che ridussero di nove decimi il novero della popolazione vivente su quei territori. In epoca moderna, invece, i territori abitati dagli armeni divennero una sorta di “laboratorio sito in periferia”, assai proficuo per l’Occidente al fine di giungere, per mezzo del genocidio, alla soluzione finale di un problema, specialmente se le vittime si presentavano “ben pasciute” – come appunto accadde con gli ebrei europei. Nel 1932 Hitler a Vienna affermò: «Armenizzeremo i giudei». Il “lardo armeno” – compreso il petrolio di Baku e tutti i beni armeni sparsi nell’impero ottomano e lungo la Via della Seta – servì al governo turco-ottomano per finanziare la Prima grande guerra mondiale. La prima legge turca che cercava di “digerire” i beni depredati agli armeni risaliva al 13 settembre 1915. Più avanti nella storia, il “lardo ebraico” servì alla Germania per finanziare la Seconda guerra mondiale.

Le condizioni erano invero eccellenti. L’impero ottomano, ormai in declino, aveva varcato la soglia della trasformazione da vasto impero (comprendente segmenti di Caucaso, Anatolia, Grecia, Balcani, Mesopotamia, svariati litorali mediterranei ecc.) a Stato-nazione di dimensioni ben più ridotte. In questo sistema-nazione non vi era posto per elementi etnici che venivano considerati estranei. Inoltre le rivendicazioni indipendentiste armene, che si aggiungevano a quelle greche e poi curde, irachene, nestoriane, siriane, libiche, balcaniche e arabe in genere, rappresentavano una seria minaccia per la sopravvivenza territoriale della Turchia, ormai ridotta a una misera cosa. A quel punto, su ispirazione germanica e inglese, venne concepito, organizzato e messo in atto il primo tentativo dell’era contemporanea di genocidio su vasta scala – che fu, a dir poco, assai ben riuscito. Nel giugno 1915 Talaat Pascià, uno dei turchi che organizzarono il genocidio armeno, ebbe a dire: «Per volontà divina non ci sono più gli armeni». «Il massacro degli armeni è considerato come il primo genocidio del XX secolo» (sottocommissione Onu dei Diritti umani, 1973).

I massacri sistematici di armeni, perpetuati nell’arco dell’ultima decade del XIX secolo, sfociarono, a partire dal 1915 e fino a tutto il 1918, in un genocidio che sterminò tutti gli armeni che vivevano nel territorio della cosiddetta Armenia occidentale (vale a dire nell’odierna Turchia). La penisola anatolica (in greco anatolì, ossia “oriente”) venne svuotata dell’elemento armeno, ebreo, greco, mesopotamico, persiano ecc., “salvando” – sottoforma di “turchi di montagna” – i soli curdi, la cui sopravvivenza, come è noto, è oggi pure seriamente minacciata (35mila morti nell’ultima guerra civile).

Nel seno di uno Stato-nazione i cosiddetti “elementi estranei” da sempre contribuiscono allo sviluppo e alla creazione della ricchezza, così come alla sua multiculturalità. Vedi l’esempio degli ebrei d’Europa (quanta povertà ha causato agli europei lo sterminio degli ebrei? Qualcheduno, munito di carta e penna, forse un giorno dovrebbe pur iniziare a fare un calcolo di questo tipo). Sarebbe impossibile paragonare la Istanbul di oggi alla Costantinopoli multirazziale e tollerante di un tempo, oppure Izmir alla Smirne greco-turco-armena, o Tbilisi a Tiflis, e poi Gerusalemme e soprattutto Beirut (ma che bella guerra civile interconfessionale…), Baku, Baghdad, Erevan, Algeri, Sarajevo alle città che furono nel loro passato. In tutti questi luoghi è penetrato come un vento sinistro il nazionalismo più torvo, più cieco, più aberrante, e spesso e volentieri assassino. Vietnam, Ruanda, Bosnia, Cecenia, Kurdistan, Cambogia, Darfur, Ossezia del Sud… Massacri o genocidi? La definizione è labile, la demarcazione incerta. Nel primo caso sono esclusi donne e bambini, nel secondo invece sono compresi. Diecimila, centomila, un milione e mezzo, quattro milioni di vietnamiti, cinque milioni di zingari e ancora sei milioni di ebrei sono tanti o pochi? Dipende… Comunque sia, stranamente, le immagini dei morti che ci sono arrivate e quotidianamente ancora ci arrivano attraverso i mass media – sotto qualsiasi cielo – sono simili tra loro, e inoltre i morti risultano del tutto indifferenti alla diffusione delle immagini dei loro cadaveri.

Viceversa, la memoria storica che si crea nella mente dei sopravvissuti, strano a dirsi, non rimane affatto indifferente. Basti come esempio l’accapponarsi della pelle in cui incorre un qualsiasi persiano contemporaneo – dopo quasi tredici secoli – di fronte all’“arabo” (in Iran la parola “arabo” definisce solo gli arabi sauditi; gli altri per i persiani sono iracheni, libanesi, siriani, libici ecc.); gli “arabi” di oggi sono pur sempre i discendenti di quegli arabi-islamici che in Iran fra il VII e il IX secolo si macchiarono di un genocidio quasi totale.

Storicamente, dopo ogni soluzione finale resta un solo problema: il sopravvissuto. Da sempre politica, economia e potere sono anche questione di maggioranze e minoranze. Oggi che massacri e genocidi stanno diventando a poco a poco dei fatti comuni, quotidiani, da consumare comodamente seduti in poltrona con l’ausilio dei vari telegiornali serali, qual è il futuro che si prepara, quando ai sopravvissuti armeni, ebrei, bosniaci, ceceni, zingari, vietnamiti, ruandesi si aggiungeranno i tanti che nel mondo possono candidarsi come possibili oggetti di nuovi genocidi?

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La Regione Ticino – A Villa Heleneum le fotografie di Elio Ciol raccontano l’Armenia attraverso le sue croci. (4 mar 2015)

A Villa Heleneum le fotografie di Elio Ciol raccontano l’Armenia attraverso le sue croci.

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Sul Genocidio Armeno, L’Ambasciatore a FQ: “Rompiamo l’indifferenza” (3 mar 2015)

Di Giulia Di Stefano il 3 marzo 2015

Un piccolo Stato ai piedi del biblico monte Ararat, dove secondo l’Antico Testamento si arenò l’Arca di Noè, un fazzoletto di terra da 30 mila metri quadrati tra Turchia, Georgia, Azerbaigian e Iran. La Repubblica di Armenia, costituitasi all’indomani dello scioglimento dell’ex Unione Sovietica, conta oggi al suo interno circa tre milioni di abitanti. Ma gli armeni, in tutto il mondo, sono almeno il doppio. Perché il popolo di questa antichissima terra, da sempre crocevia culturale e commerciale tra oriente e occidente e culla del Cristianesimo, è un popolo che ha sempre teso a “trascendere i propri confini territoriali pur essendo fortemente legato al suo territorio”, come ci spiega col suo tono pacato e sorridente, Sargis Ghazaryan, il giovanissimo ambasciatore della Repubblica di Armenia in Italia.

Il 24 aprile di quest’anno ricorrerà il centenario del genocidio armeno, un fatto troppo spesso dimenticato dai mass media, che rappresentò tuttavia il primo sterminio su base etnica del ’900 ed aprì letteralmente la strada alla ben più conosciuta tragedia ebraica della shoah. Furono circa un milione e mezzo gli armeni massacrati dall’Impero ottomano che, all’ombra dello scoppio della prima Guerra mondiale, si propose l’intento di cancellare la presenza armena dal suolo turco. Oggi le Nazioni Unite, l’Europa e decine di paesi nel mondo, tra cui l’Italia, riconoscono ufficialmente lo sterminio del 1915 ma all’appello manca proprio la Turchia, il cui governo continua a negare l’esistenza di questo genocidio. In occasione di questa importante ricorrenza, l’Ambasciata armena in Italia e le numerose associazioni presenti nel nostro Paese, come l’Unione Armeni d’Italia e Assoarmeni  stanno organizzando svariate iniziative, per non dimenticare e per diffondere la conoscenza della storia del popolo armeno. Per saperne di più, abbiamo fatto una chiacchierata con l’Ambasciatore Sargis Ghazaryan, classe ’79, nato a Vanadzor, in Armenia, e residente in Italia dal ’91, quando iniziò i suoi studi prima a Venezia e poi a Trieste.

Ambasciatore cosa vuol dire essere armeni oggi fuori e dentro la Repubblica d’Armenia?

Significa testimoniare ogni giorno, con i nostri atti e pensieri, la resilienza del nostro popolo, quella resilienza che determinò la sopravvivenza per la prima generazione del genocidio, poi il racconto per la seconda generazione e infine la ricostruzione da parte della terza. Tutte le generazioni dei sopravvissuti al genocidio e dei loro discendenti hanno dimostrato questa resilienza con una grande voglia di riscatto. Credo che il riscatto sia stata la risposta più eclatante e in un certo senso anche più inaspettata all’intenzione genocidaria, che ha comportato la nascita e la rinascita della Repubblica di Armenia. Con il genocidio si volevano eliminare tutti gli armeni e invece oggi essere armeno è sinonimo di un’identità globale e a-geografica, siamo cittadini del mondo ma legati alla nostra terra di origine. Negli ultimi venti secoli la società armena è sempre stata una società di confine, che mediava tra oriente e occidente. La Repubblica di Armenia e la diaspora sono in qualche modo i due polmoni di uno stesso organismo, sono complementari.

C’è attualmente un fenomeno simile all’aliyah per gli ebrei, ovvero un’immigrazione di ritorno da parte degli armeni verso la Repubblica di Armenia?

Esiste, ed è un fenomeno relativamente recente, riferibile al ventesimo secolo. In particolare dagli anni ’90 in poi, con l’indipendenza della Repubblica d’Armenia dall’ex Unione Sovietica, c’è stato un fenomeno di rimpatrio soprattutto da parte dei giovani armeni nati nei vari angoli del mondo. Il Novecento si è aperto con un trauma per noi e si è sviluppato poi con la voglia di cancellare quel trauma: i giovani tornano oggi in Armenia per realizzare i propri sogni e progetti, le loro start up con strumenti di venture capital, fondanolì aziende globali che capitalizzano sulle reti globali armene. Missione degli organi dello stato armeno è proprio agevolare questo ritorno e contaminazione continua.

Il popolo armeno quindi ha una forte identità, anche se disperso per il mondo. Non si può dire però che la sua storia, e soprattutto il genocidio che subì nel 1915, abbia ricevuto sempre la giusta attenzione da parte dei governi e dell’opinione pubblica internazionale. Perché secondo lei?

Ogni genocidio cerca di nascondere se stesso. Il metodo genocidario, che prevede l’eliminazione parziale o totale di un certo gruppo etnico, viene celato spesso da altri importanti fatti storici. Così è stato per il genocidio armeno, messo a punto durante la Grande Guerra, e poi per la persecuzione nazista contro gli ebrei durante la seconda Guerra mondiale: le crisi globali sono servite da alibi e da filtro dietro il quale nascondere gli stermini di massa. Nel 1915 le potenze alleate accusarono il governo dei Giovani turchi di crimini contro l’umanità con una dichiarazione congiunta. Il termine “genocidio” ancora non esisteva perché fu coniato nel ’43, prima del processo di Norimberga ai nazisti, dal giurista ebreo polacco Raphael Lemkin. Lo stesso Lemkin, per determinare la fattispecie di reato del genocidio, prese ad esempio i criteri metodologici usati dai Giovani Turchi contro gli armeni.

Durante il genocidio armeno i crimini ottomani venivano quindi classificati come crimini di “lesa umanità” e io credo che in termini etici non ci sia espressione più grave: un crimine di lesa umanità è un atto dove viene lesa l’umanità della vittima, quella del carnefice e quella dell’umanità intera. Nel ventennio fra le due guerre scese però un oblio sul genocidio armeno, autoimposto dalle potenze europee perché intanto era nata una Repubblica sulle ceneri dell’Impero ottomano e ci fu un calcolo di cinica contingenza geopolitica. Questo però ci portò dritti dritti alla seconda grande tragedia del ‘900, in termini temporali, ovvero il genocidio degli ebrei. Poco prima di iniziare l’invasione della Polonia, il 22 agosto del 1939, a Obersalzberg Hitler fece un discorso allo Stato maggiore dell’Esercito tedesco, per incitare i suoi generali a non avere pietà nemmeno dei civili durante l’attacco. Concluse il suo discorso domandandosi cinicamente: “dopotutto, chi si ricorda ancora dell’annientamento degli armeni sotto l’Impero ottomano?”.

Quanto pesa, su questo oblio, il negazionismo che ancora oggi porta avanti la stessa Turchia?

Oggi ci sono quasi trenta paesi al mondo che riconoscono il genocidio armeno, anche l’Italia, dal 2000, è tra questi paesi virtuosi che hanno preferito non chiudere gli occhi. Poi ovviamente le Nazioni Unite, il Parlamento Europeo e tutte le maggiori organizzazioni internazionali delegate alla protezione dei diritti umani chiamano il genocidio armeno con il proprio nome. La Turchia è la grande negazionista ma per Turchia intendo il governo turco e non il popolo né la società civile turca o l’opinione pubblica. Anzi, nel contesto generale della richiesta di maggiore libertà d’espressione, per cui attualmente la società civile e molti intellettuali turchi si battono, la questione del riconoscimento del genocidio armeno viene messa al centro.

Fino a qualche anno fa, chi parlava del genocidio armeno in Turchia veniva arrestato e processato, in forza dell’articolo 301 del codice penale turco, ovvero di vilipendio alla Turchia. Vari esecutivi turchi negli ultimi 30 anni hanno tentato di riportare il dibattito del genocidio su un piano storico. Per noi però il genocidio non è solo quel fatto storico oramai riconosciuto quasi universalmente dalla comunità degli storici mondiali, ma è un fatto storico che produce effetti politici: finora ne sono testimonianza l’ostilità turca nei confronti della Repubblica d’Armenia, i tentativi armeni falliti di normalizzazione dei rapporti bilaterali e nell’apertura dei confini da parte turca. Credo che questa continua negazione da parte delle istituzioni turche sia ormai riferibile a un vero tabù, uno stereotipo che si è venuto a creare in questi cento anni durante i quali intere generazioni turche sono state cresciute con libri di storia in cui vigeva “l’armenofobia”, in cui l’armeno era il capro espiatorio di tutti i mali e veniva rappresentato come il traditore dell’Impero ottomano. Noi ci auguriamo che adesso i risultati cui è arrivata gran parte della società civile turca, in termini di riconoscimento del genocidio, influenzino anche l’opinione pubblica. Siamo convinti, come lo erano i tedeschi negli anni ’50, che la verità rende liberi. Rende liberi i discendenti dei carnefici ma allo stesso modo i discendenti delle vittime.

Questa verità di cui lei parla passa attraverso la memoria e la conoscenza della storia: cosa state organizzando per ricordare il centenario del genocidio qui in Italia?

Come diceva il premio Nobel per la Pace, Elie Wiesel, sopravvissuto ad Auschwitz, l’ultimo atto di un genocidio è la sua negazione, che rende il crimine perfetto e quindi replicabile. Noi, nell’anno del centenario del nostro genocidio, vorremmo veramente rompere questo circolo vizioso che culmina con la negazione, l’indifferenza, i silenzi. Il ‘900 è stato anche il secolo delle indifferenze, nonostante lo sviluppo senza precedenti dei mezzi di comunicazione di massa. Il negazionismo si combatte attraverso una giusta informazione e soprattutto attraverso gli strumenti dell’istruzione, per creare gli anticorpi nelle giovani generazioni contro questi crimini. Allo stesso tempo vorremmo raccontare la civiltà armena, vorremmo parlare di ciò che rischiava di scomparire e che non è scomparso, i nostri codici, la nostra cultura, i venti secoli delle comunità armene in Italia, contaminazioni, integrazioni del popolo armeno.

Dal 6 marzo al 3 maggio si svolgerà a Roma, nel complesso del Vittoriano, la mostra “Armenia, il popolo dell’Arca” : sarà un itinerario affascinante attraverso i 3 mila anni di storia della civiltà armena, le sue metamorfosi, le interazioni con le altre civiltà e poi il genocidio, raccontato attraverso gli scritti di italiani che riconobbero da subito questo crimine, come Luigi Luzzatti, Filippo Meda, Antonio Gramsci. Il 23-28 marzo, sempre a Roma, in collaborazione con l’ex discoteca di Stato, l’Icbsa (Istituto per la conservazione dei beni sonori e audiovisivi) e l’Ais (Associazione italiana sociologia) organizziamo una settimana di tavole rotonde, presentazioni di libri e una rassegna cinematografica sul Novecento armeno. Si tratta di un dibattito culturale, un’azione tesa a raccontare l’Armenia e gli armeni e sconfiggere l’indifferenza. Molto importante sarà anche il padiglione armeno presente alla Biennale di Venezia, che quest’anno porta il titolo “Armenità”. Il padiglione, curato da Adelina Cuberyan von Furstenberg, è il racconto dell’identità armena, attraverso le opere di 19 artisti di origine armena e provenienti da tutto il mondo.
Giulia Di Stefano

Notizieitalianews.com – Aleppo città dimenticata. (3 mar 2015)

Aleppo – La situazione in Siria ed in particolare ad Aleppo non sembra migliorare, al contrario si continua a sparare anche con armi pesanti. La settimana scorsa, per esempio, la sede del Patriarcato Armeno Cattolico è stata nuovamente presa di mira dai ribelli, che l’hanno colpita addirittura con due colpi di mortaio. Quest’ultimo attacco ha provocato così tanti danni da costringere gli armeni a chiudere la cattedrale per motivi di sicurezza.

 

Ma l’escalation di violenza ad Aleppo non si è arrestata qui: lo scorso 27 febbraio un nuovo bombardamento ha colpito il quartiere limitrofo al Patriarcato Armeno Cattolico, provocando ulteriori danni e soprattutto ulteriori vittime, soprattutto fra donne e bambini.

Non solo, oltre a questi attacchi “pesanti”, la popolazione di questi quartieri, spesso a maggioranza cristiana, è presa quasi quotidianamente di mira dai cecchini. Tre settimana fa per esempio, Nour Aslo, una ragazza di appena 25 anni, è stata uccisa proprio da un cecchino con un colpo in pieno petto. Nour Aslo era nota nella comunità armena per la sua generosità e per il suo impegno nel soccorrere i tanti bisognosi.

La popolazione di Aleppo, sia musulmana che cristiana, è ormai allo stremo in una città in rovina dove sono troppi i palazzi, le case, le chiese, ma anche le moschee, distrutti o inagibili. L’acqua corrente è un miraggio di pochi per non parlare dell’energia elettrica che è garantita solo per alcune ore al giorno. Una situazione al collasso e che non vede soluzioni possibili.

Eppure il mondo sembra impotente di fronte alla situazione ed è come si fosse dimenticato della Siria e di Aleppo, nonostante la sua storia millenaria che ha visto per lungo tempo convivere in pace tradizioni e religioni diverse. Come salvare Aleppo ? Con l’hashtag  #savealeppo, Andrea Riccardi e la Comunità di Sant’Egidio hanno da qualche tempo lanciato un appello sottoscritto da numerose personalità e gente comune per spingere la comunità internazionale a favorire la creazione di corridoi umanitari e provvedere al rifornimento dei civili, una sorta di “Aleppo città aperta”.  Quanto ancora potrà resistere questa città e ancora di più le minoranze religiose in uno scenario così precario e difficile senza l’intervento dei grandi del mondo?

Diego Romeo

Gonews.it – Vincincontri, al Teatro della Misericordia Antonia Arslan parla del genocidio degli Armeni. (3 ma 2015)

Venerdì 6 marzo, alle ore 21,15 presso il Teatro della Misericordia di Vinci, si svolgerà un incontro con Antonia Arslan, Docente di Letteratura Italiana Moderna e Contemporanea all’Università di Padova e autrice de “La masseria delle allodole” (2004; tradotto in quattordici lingue), sul tema.: “Un popolo dimenticato: cent’anni fa il genocidio degli Armeni”. Dopo la proiezione del film “La masseria delle allodole” di Paolo e Vittorio Taviani (2007), avvenuta sempre al Teatro della Misericordia venerdì 27 febbraio, la prossima conferenza di Vincincontri intende approfondire una delle più terribili tragedie del secolo scorso, il primo genocidio del ‘900, quello degli Armeni compiuto ad opera del Governo dei Giovani Turchi. Antonia Arslan, nata a Padova e discendente da una famiglia di origine armena, si è adoperata incessantemente per proporre la conoscenza di questa vicenda storica non ancora ammessa dai Turchi e oscurata per tanto tempo. Arslan ha tradotto, tra l’altro le poesie di una delle voci più significative dell’Armenia, quella del poeta Daniel Varujan (Il canto del pane, Guerini, Milano 1992; Mari di grano, Paoline, Milano 1995), che fu ucciso a colpi di pugnale il 28 agosto 1915 a soli 31 anni. Tra poco più di un mese, il 24 aprile 2015, sarà commemorato il 100º Anniversario del Genocidio Armeno, che vide l’uccisione pianificata del popolo armeno, già iniziata tra il 1894 ed il 1896 ma proseguita in particolare tra l’aprile 1915 ed il 1916 e poi anche successivamente fino al 1923, con l’uccisione di un milione e mezzo di Armeni.

Linchiestaquotidiano.it – L’albero simbolo dell’Armenia al Severi per non dimenticare. (3 mar 2015)

FROSINONE – Un albero per non dimenticare la follia di un genocidio e, nello stesso tempo, il contributo dei “giusti” che si battono contro i soprusi e l’abominio. Con questo spirito al Liceo Scientifico Francesco Severi verrà piantato un albero di albicocca, donato dal negozio Area Verde di via Saragat, in un’area interna della scuola. Si tratta di una pianta originaria e simbolo dell’Armenia e l’iniziativa mira a sensibilizzare soprattutto le giovani generazioni sugli orrori dello scorso secolo, sul modello del Giardino dei Giusti che si trova a Milano, dove appunto ogni arbusto rappresenta la ferita lasciata aperta dai diversi genocidi del Novecento.
La piantumazione dell’albero di albicocca che simboleggia l’Armenia arriva dopo l’incontro del 14 febbraio scorso all’Auditorium Colapietro, promosso dal professore del liceo David Toro, con l’ambasciatore della Repubblica di Armenia in Italia Sargis Ghazaryan e con Michele Wegner (figlio di Armin Wegner, autore di un archivio fotografico fondamentale per la conoscenza del genocidio armeno). Un incontro condito da uno scambio intellettualmente vivace con i ragazzi del Severi, che ha lasciato un profondo segno negli studenti e non solo. Lo stesso Wegner dopo l’iniziativa ha commentato: «È stata per me un’esperienza molto positiva poter incontrare una nuova generazione attenta alle realtà politiche e internazionali e che lascia promettere bene per il futuro».

 

http://www.linchiestaquotidiano.it/news/2015/03/03/lalbero-simbolo-dellarmenia-al-severi-per-non-dimenticare/10967

Osservatorio Balcani & Caucaso – Il centenario del genocidio armeno. (2 mar 2015)

Simone Zoppellaro | Yerevan

Il prossimo 24 aprile, in Armenia e nel mondo, verranno ricordati i 100 anni dall’inizio del genocidio degli armeni nell’Impero Ottomano. L’attesa, il programma delle commemorazioni a Yerevan

Gli armeni si apprestano a ricordare i cento anni trascorsi dal primo grande genocidio del XX secolo, il Metz Yeghern, che in lingua armena significa “il Grande Male”.

Il culmine delle celebrazioni sarà il 24 aprile, data tradizionalmente scelta per commemorare i tragici eventi che, nel 1915 e 1916 in particolare, portarono alla morte di circa un milione e mezzo di persone e alla quasi completa cancellazione della presenza armena nei territori dell’allora Impero Ottomano.

Una scelta, quella di questa data, dal valore fortemente simbolico: nella notte fra il 23 e il 24 aprile del 1915 alcune centinaia di intellettuali armeni vennero arrestati a Istanbul e in altre località dell’Impero per essere in seguito deportati e uccisi. L’intento di chi diede quell’ordine, il ministro degli Interni Taalat Pasha, era di privare gli armeni delle loro guide spirituali e politiche prima di mettere in atto la soluzione finale. Fra loro, è giusto ricordare almeno il poeta Daniel Varoujan, uno dei massimi della letteratura armena moderna, ucciso insieme a medici, giornalisti, sacerdoti, avvocati, politici, insegnanti, architetti e mercanti.

Ogni anno – e non solo in occasione di questo centenario – si celebra a Yerevan una commemorazione molto sentita dalla gente, che accorre in gran numero anche dai paesi e dalle città dell’interno (e persino dall’estero, dalla diaspora) per prendervi parte.

Il Forte delle Rondini

La prima manifestazione ebbe luogo nel 1965, nell’allora Unione Sovietica, quando centomila persone sfilarono per ricordare il cinquantenario di un evento che, in Oriente e in Occidente, nessuno sembrava allora disposto a ricordare. Oggi come ieri, luogo simbolo è Tsitsernakaberd, il “Forte delle Rondini”, un collina non lontana dal centro di Yerevan dove l’anno seguente al cinquantenario ebbe inizio la costruzione del memoriale delle vittime del Genocidio, ultimato nel 1967. Dopo l’indipendenza, nel 1995, qui è sorto anche il Museo-Istituto del Genocidio armeno, che anche quest’anno sarà protagonista della commemorazione.

Questa giunge in un momento da molti punti di vista non semplice per la Repubblica d’Armenia. Innanzitutto a causa del conflitto del Nagorno Karabakh, dove la tensione è alta. In un mese solitamente calmo – anche a causa delle temperature rigide – come gennaio, si sono registrati diversi scontri e un bilancio di 12 morti e 18 feriti da entrambe le parti. Un’altra ragione è la politica: il 2015 si è aperto con una serie di scontri e scandali che, coinvolgendo anche una figura di primo piano dell’opposizione come Gagik Tsarukyan, rischiano di rendere ancor più incontrastata l’egemonia del Partito Repubblicano nel paese. Infine l’economia, che continua a soffrire dell’isolamento geopolitico del paese, e vede pesare in aggiunta gli effetti negativi dell’eccessiva dipendenza da Mosca, a sua volta in difficoltà economica. A tal proposito, il centenario dovrebbe rappresentare un momento di sollievo, almeno per quanto riguarda il settore turistico. Si stima per il 2015 un incremento del 10% in questo settore, secondo i dati presentati dal ministro dell’Economia Karen Chshmarityan. E ciò, come ha ricordato lo stesso ministro, anche a causa del centenario.

Non ti scordar di me

Come simbolo per la commemorazione del centenario è stato scelto un fiore, il non-ti-scordar-di-me, che molti armeni hanno già iniziato a usare come immagine di profilo sui social network. Il tema della memoria è centrale, in questo caso, non solo per il tributo da prestare alle vittime, ma anche da un punto di vista politico.

Un secolo di silenzi e omissioni, complicità e negazionismi, non è purtroppo bastato, e così ancora oggi la questione del riconoscimento del Genocidio armeno è al centro del dibattito politico internazionale. In primo luogo per la Turchia, erede dell’Impero Ottomano che pianificò ed eseguì lo sterminio, che si ostina a negare che quanto avvenne in quegli anni possa essere definito un genocidio. E questo nonostante molte voci della società civile turca – a cominciare dal premio Nobel Orhan Pamuk – si levino sempre più numerose. Ma anche per gli Stati Uniti che, nonostante le promesse di Obama in campagna elettorale, non hanno ancora riconosciuto il Genodicio, nel timore di compromettere i rapporti con la Turchia. O ancora Israele, che ha preferito sacrificare il riconoscimento del Genocidio armeno in nome del suo legame strategico con la Turchia prima, e in seguito con l’Azerbaijan, un altro stato negazionista.

System of a Down

Per quanto riguarda la commemorazione a Yerevan, oltre alla tradizionale fiaccolata serale del 23 aprile che dalla piazza del Teatro dell’Opera conduce fino a Tsitsernakaberd, proseguendo poi anche il giorno seguente, ci saranno una serie di eventi inediti. Fra questi, desta particolare attesa – soprattutto fra i giovani – il concerto dei System of a Down. La band statunitense, composta da quattro discendenti di sopravvissuti al Genocidio, si esibirà nella centralissima Piazza della Repubblica il 23 aprile. Nonostante il legame profondo del gruppo con la loro identità armena, evocata in diverse canzoni dedicate al tema del Genocidio, si tratta della loro prima esibizione in Armenia.

Il 22 e il 23 di aprile si terrà invece una conferenza internazionale intitolata “Contro i crimini di genocidio”, dove si attende la presenza di importanti personalità politiche e religiose internazionali. Sempre il 23, a Etchmiadizn, antico centro spirituale degli armeni che sorge a una ventina di chilometri da Yerevan, la Chiesa Apostolica celebrerà la canonizzazione di tutte le vittime del Genocidio. A chiudere gli eventi, la sera del 24, ci sarà invece un concerto di musica classica dove si esibiranno, simbolicamente, musicisti provenienti da paesi che hanno riconosciuto in via ufficiale il Genocidio armeno.

Un’iniziativa legata a Eurovision Song Contest 2015, infine, viene utilizzata in questi mesi dall’Armenia per sensibilizzare l’opinione pubblica internazionale sul tema del Genocidio. Anziché da un solo cantante, l’Armenia sarà rappresentata quest’anno al festival della canzone che si terrà a maggio a Vienna da un gruppo di sei membri, i Genealogy, ognuno dei quali proveniente da un diverso continente, più uno dall’Armenia. Il titolo della canzone che presenteranno, quanto mai significativo, è Don’t deny (“Non negare!”). Un imperativo che, a discapito dei cento anni trascorsi da quei tragici eventi, non ha ancora perso d’attualità e d’urgenza.

Genocidio armeno, la provocazione (e poi le scuse) di Starbucks. Corriere della Sera

Un poster con ragazza in costumi tradizionali che ballano tra simboli turchi fa infuriare la comunità armena statunitense: ritirato

di Antonio Ferrari

L’immagine sul poster di Starbucks

Quest’anno si ricorda il centesimo anniversario del genocidio armeno, e il giorno dedicato alle celebrazioni ufficiali sarà il 24 aprile. Anche le ricorrenze, a volte, diventano occasione di business: ora squallido, ora provocato dall’ignoranza o dall’assenza di sensibilità. quasi sempre di dubbio gusto. Nell’emirato di Dubai il fantasioso e cinico gestore di una palestra, tempo fa attirava clienti con l’orrendo slogan «diventerete magri come ad Auschwitz». Ancor più cinica, se possibile, la trovata di un israeliano, che poco dopo promosse a Tel Aviv il concorso di «Miss Olocausto», aperto alle sopravvissute nei campi di sterminio nazisti. Purtroppo non ci sono limiti, come dimostra l’ultima provocazione, si presume ideata negli Stati Uniti dal marketing di Starbucks, impero delle caffetterie. Hanno preparato e diffuso un poster pubblicitario per ricordare lo storico anniversario, forse puntando sull’impatto-choc del messaggio, che comunque fa notizia. L’immagine: belle ragazze, che indossano i tipici costumi dell’Armenia, in un tripudio di colori, di bandiere e di palloncini rossi con gli inequivocabili simboli (mezzaluna e stella) della Repubblica turca.

Ankara e il rifiuto del genocidio

Ankara ha sempre rifiutato di riconoscere come genocidio il massacro sistematico di almeno un milione (ma c’è chi sostiene un milione e mezzo) di armeni. Sostiene infatti che tutto è accaduto, all’inizio della Grande Guerra del secolo scorso, con la decomposizione dell’impero ottomano, in coda a un feroce conflitto che vedeva alcuni combattenti armeni inseriti militarmente nell’esercito russo contro la Turchia. In realtà, negli ultimi tempi, lo storico contenzioso si è affievolito, dopo le imputazioni contro scrittori, tra cui Orhan Pamuk ed Elif Shafak, contro giornalisti e intellettuali, che direttamente o indirettamente hanno riconosciuto (comunque non hanno negato) che vi era stato il genocidio. Il clima si è stemperato fino all’avvio di relazioni diplomatiche – seppur molto fredde – tra Erevan e Ankara, grazie anche ad un atteggiamento meno duro da parte del partito di governo islamico moderato Akp del presidente Recep Tayyip Erdogan.

Le scuse di Starbucks

Ma il problema è ancora irrisolto, e la provocazione di Starbucks con le donne in costume armeno, all’interno e all’esterno di un locale di Los Angeles mentre bevono il caffè in una cornice di simboli turchi, ha irritato e offeso l’Armenian American Committee. Che ha chiesto le scuse, le ha ricevute, ma ha anche ottenuto il ritiro del poster, con il gigante delle consumazioni pronto a riconoscere il presunto «errore». La comunità armena è numerosa e assai influente, ed è quindi riuscita a bloccare la diffusione dell’immagine. Però, a ben vedere, c’è anche un risvolto positivo. Prima di tutto per Starbucks, che ha fatto parlare di se i mass media di tutto il mondo, e soprattutto l’arcipelago planetario dei social network, garantendosi una gratuita pubblicità. A ben vedere, o meglio a ben ascoltare, anche molti armeni non sono particolarmente turbati dalla vicenda. Perché del popolo armeno e del suo piccolo Stato, che ha ottenuto l’indipendenza dopo il crollo dell’impero sovietico, si parla sempre poco, o meglio poco più di una volta all’anno, e quasi sempre in occasione della ricorrenza del genocidio.

«Per il bene dell’Armenia è necessario parlarne»

Nel libro «Caucasus Chronicles», l’ambasciatore greco Leonida Crysanthopoulos, per dimostrare che l’Armenia viene spesso dimenticata, sostiene che ai tempi dell’elezione del presidente russo, all’inizio degli anni ‘90, vi fu uno sconcertante retroscena. L’avversario di Boris Eltsin, il ceceno Ruslan Khasbulatov, presidente della Duma, avrebbe infatti promesso segretamente alla Turchia, in caso di vittoria, che non si sarebbe opposto ad una guerra lampo contro l’Armenia. Che sia vero o meno è tutto da provare, anche perché alle elezioni si impose Eltsin. Tuttavia, questo dimostra che «per il bene dell’Armenia è necessario parlarne, a prescindere da ciò che si sostiene. Bisogna far sapere a tutti che esistiamo e che non vogliamo più essere dimenticati». È opinione del console generale dell’Armenia a Milano Pietro Kuciukian. Ed è saggio riflettere su queste parole, in un momento confuso e punteggiato da una dilagante percezione di insicurezza.

Buongiornoalghero.it – Un libro della Nemapress per la giornata della cultura Armena. (25 feb 2015)

L’Agenzia per il Patrimonio Culturale Euromediterraneo di Lecce, presieduta dalla Sen. Adriana Poli Bortone si fa promotrice, in collaborazione con l’Ambasciata della Repubblica Armena in Italia, della seconda “GIORNATA dell’AMICIZIA & CULTURA ARMENA”.

L’incontro, organizzato nell’ambito delle iniziative celebrative del Centenario del Genocidio degli Armeni, si terrà a Lecce il prossimo 28 febbraio, a partire dalle ore 18, nei suggestivi spazi dell’ex Conservatorio S.Anna, in Via Libertini, 1, sede dell’Agenzia per il Patrimonio Culturale Euromediterraneo. Momento clou dell’evento, la presentazione del volume “Le parole per raccontare. Gli Armeni, storia, cultura, letteratura” (Ed. Nemapress), di Pierfranco Bruni e Neria De Giovanni, con la prefazione di S.E. Sargis Ghazaryan, Ambasciatore della Repubblica d’Armenia in Italia, che presenzierà all’incontro insieme agli Autori del volume e ad osservatori del mondo Istituzionale, Culturale, Economico, Associativo e dei Media.

Modera il dibattito il Dott. Gianluca Borgia, componente Consiglio di Amministrazione Agenzia per il Patrimonio Culturale Euromediterraneo. Padrona di casa la Sen. Adriana Poli Portone, Presidente dell’Agenzia per il Patrimonio Culturale Euromediterraneo, che ha fortemente voluto questo momento di confronto, e riflessione per promuovere la conoscenza di una della pagine più cupe della storia del XX secolo: il Genocidio Armeno. Conosciuto anche con il nome di Medz Yeghern, il “Grande Male”, il genocidio armeno è stato il primo del ’900, nonché uno dei più dimenticati: Hitler lo prendeva a canone del massacro che serbava in mente: “chi parla ancora oggi del genocidio degli armeni?”.

I responsabili sono rimasti pressoché impuniti, i manuali di storia hanno esitato a raccontare ed il governo turco lo nega esplicitamente ancor’oggi. Questo processo sistematico di sterminio della componente etnica minoritaria armena fu avviato dall’Impero Ottomano all’interno del territorio attualmente facente parte della Turchia. Il Genocidio, la cui data di inizio viene convenzionalmente indicata con il 24 aprile 1915, ha causato la morte di un numero di vittime pari ad 1-1,5 milioni di persone, tra cui circa 250 intellettuali e leader della comunità armena di Costantinopoli. Le pagine dell’opera di Neria De Giovanni e Pierfranco Bruni sono un viaggio a ritroso nella travagliata storia del popolo armeno di cui raccontano non solo la tragica odissea umana, ma anche la gloria e la ricchezza di una grande cultura millenaria, che è l’essenza più intima di un popolo.

“La peculiarità di questo volume – sottolinea nella prefazione al libro S.E. Sargis Ghazaryan, Ambasciatore della Repubblica d’Armenia in Italia – è di guardare all’Armenia da due prospettive. Una più profonda, che fruga incessantemente nella storia millenaria del popolo armeno, nelle sue radici, nelle sue tradizioni. Un’altra più vicina, che guarda agli Armeni – lontani dalla terra dell’Ararat – che hanno stretto, nei secoli, un forte nesso di partecipazione e contaminazione nelle terre e con le genti di approdo (…) Pierfranco Bruni e Neria De Giovanni hanno compiuto questo viaggio senza temere le difficoltà del non conosciuto e senza accusare segni di stanchezza, riuscendo nell’intento di approfondire la conoscenza di cosa si celasse dietro i termini “armeno” e “Armenia”.

Il risultato è un volume denso e ricco di spunti. Ancora più significativo perché esce a pochi giorni dal 24 aprile, quando si commemorerà il Centenario del Genocidio degli Armeni”. “… Da quel giorno del 1915, – conclude l’Ambasciatore – i miei antenati, la mia gente, sono diventati vittime o profughi, nel migliore dei casi. Sono stati costretti cioè a fuggire in avanti e a non guardarsi indietro. Oggi, invece, si vuole e si deve guardare indietro. Per non dimenticare un crimine, a cui troppi hanno assistito silenti e impassibili”. Questa seconda “GIORNATA dell’AMICIZIA & CULTURA ARMENA” è solo l’ultima delle tante attività di alto profilo promosse dall’Agenzia per il Patrimonio Culturale Euromediterraneo, che suggella con forza la volontà di valorizzare i rapporti con la comunità armena e rappresenta un’occasione di scambio, socializzazione e condivisione di ideali, cultura e storia.


 

 

A Lecce la “II° Giornata dell’amicizia e cultura armena”

http://www.salentoweb.tv/video/9358/lecce-iideg-giornata-amicizia-e-cultura