L’arte, specchio della Storia. L’Armenia alla 57^ Biennale di Venezia (artslife.it 20.05.17)

Venezia. Buone notizie, cicogna? In un verso di una canzone degli esuli della diaspora armena, si domanda a un cicogna che incrocia nel cielo se dalla Patria arrivino buone notizie. Ma queste notizie, erano sempre di prevaricazioni, massacri, povertà, ingiustizie, che il popolo armeno ha dovuto subire negli ultimi mille anni, fino all’indipendenza dichiarata e ottenuta nel 1991. Ancora oggi, nel maestoso paesaggio di quest’ultimo lembo meridionale d’Europa appena prima della vastità dell’Asia, aleggia il persistente ricordo di ferite ancora aperte, e nelle opere di Jean Boghossian (Aleppo, 1949), si avvertono le ombre di un passato doloroso e glorioso insieme: il popolo armeno fu tra i primi a sviluppare una sua scrittura, diversa da quella latina, all’inizio del V Secolo, e con quella a inaugurare una lunga tradizione di manoscritti antichi di otto e persino dieci secoli, che ancora oggi costituiscono una delle collezioni più preziose del Matenadaran, il Museo degli antichi manoscritti di Erevan. Rotoli di pergamena che documentano le tradizioni religiose del popolo (il primo ad abbracciare il cristianesimo nel 301), ma anche gli usi e costumi quotidiani. Un patrimonio identitario che è appunto sopravvissuto nei secoli, fra guerre e persecuzioni, e che nella Biennale dell’Arte Viva, si incastona come una testimonianza assai preziosa, artistica e intellettuale insieme.

Palazzo Zenobio Biennale of Venice   2017 Jean Boghossian Exhibition15

Palazzo Zenobio Biennale of Venice 2017 Jean Boghossian Exhibition15

Cuore della mostra, l’installazione Fiamma inestinguibile (che dà il nome all’intero progetto), appositamente concepita per la sala principale di Palazzo Zenobio, e che si amalgama con gli affreschi dei quali riprende i colori scuri e l’aura monumentale. L’idea, suggestiva e poetica, ha un duplice aspetto: da un lato, quella della cultura come luce della civiltà, necessaria per misurare le caverne di platonica memoria. Ma dall’altro lato, con struggente intuitività, Boghossian rimanda alla straordinaria forza che la cultura ha dimostrata nei secoli, resistendo a terribile persecuzioni. Persecuzioni che non hanno risparmiato il popolo armeno, costantemente minacciato nei secoli dai califfati islamici prima e dagli Ottomani poi, fino alla dittatura sovietica. Grandi steli monumentali si dipartono da grossi libri bruciati, posti alla base di ognuna: metafora del sapere che dalla fragile carta s’irradia e mette robuste radici fra gli individui. Ognuna delle steli è decorata con motivi che ricordano le scritture orientali antiche, da quella armena a quella araba, dalla siriana all’egiziana, poiché è la scrittura il mezzo fondamentale per tramandare il sapere. Da un punto di vista leggermente diverso, Boghossian suggerisce l’idea della cultura che risorge dalle proprie ceneri come un’araba fenice: è accaduto in Armenia, dopo le distruzioni delle orde musulmane, così come dopo il genocidio del 1915, e settant’anni di Socialismo Reale. Ma è accaduto anche nel resto d’Europa, dalla censura dell’Inquisizione fino ai roghi dei libri “deviati” organizzati nella Germania nazista.

JeanBoghossian_Fiamma_Inestinguibile_Armenian Pavillon Biennale   Venise_Untitled1, 2013 190x190 cm Mixed media on canvas

JeanBoghossian_Fiamma_Inestinguibile_Armenian Pavillon Biennale Venise_Untitled1, 2013 190×190 cm Mixed media on canvas

Partendo da questa installazione, la curatela di Bruno Corà ha organizzata la mostra seguendo il fil rouge del fuoco e del fumo come elementi costituivi della cifra artistica di Boghossian; pur se nel passato questi elementi sono stati utilizzati, fra gli altri anche da Klein, Burri, Arman, l’artista armeno è l’unico che abbia dato continuità a questa tecnica. Pur nell’astrazione delle forme, resta il valore simbolico del fuoco e del fumo: da mezzi per manipolare la tela – combinandoli con pigmenti naturali per ottenere un effetto “antichizzato” -, creano atmosfere oniriche che rispondono all’urgenza di trasferire su una dimensione più accettabile la violenza della Storia. Una poetica astratta nella forma, ma dai concetti profondamente legati alla realtà storica. Certe tele ricordano l’Action Painting di Pollock, con la differenza che i punti scuri non sono macchie di colore ma bruciature, dietro le quali si cela un riferimento storico-biografico: di famiglia armena, ma nato in Siria e cresciuto in Libano negli anni della guerra civile, Boghossian ha ancora viva la memoria delle distruzioni belliche, e quelle bruciature simboleggiano i fori dei proiettili sui muri di Beirut, così come quelli sui muri alle spalle degli armeni fucilati durante il genocidio del 1915.

JeanBoghossian_Fiamma_Inestinguibile_Armenian Pavillon Biennale   Venise_Untitled1, 2013 180x395 cm Mixed media on canvas copy

JeanBoghossian_Fiamma_Inestinguibile_Armenian Pavillon Biennale Venise_Untitled1, 2013 180×395 cm Mixed media on canvas copy

Certi sfondi siderali sono invece apparentabili alle tele di Omar Galliani, ma ancora una volta la fiamma e la bruciatura sono le cifre che distinguono l’opera di Boghossian, la cui poetica artistica non prescinde dalla sua identità armena e, per successive influenze, mediorientale, e nelle sue sperimentazioni ne traccia per simboli le vicende. Così come ne omaggia il patrimonio culturale, nel frequente richiamo agli antichi papiri e manoscritti egiziani, mesopotamici, siriani, armeni; in particolare in queste opere, la fiamma assume un calore vitale particolarmente intenso, simbolo di una cultura trasversale che per secoli ha unito popoli diversi, e che può ancora rappresentare la chiave per una migliore convivenza civile.

Una mostra affascinante e coinvolgente, dall’afflato storico ma dal linguaggio contemporaneo, che dà la misura della potenza dell’arte nel gettare ponti di dialogo e speranza.

La guida completa della 57^ Biennale: http://www.artslife.com/2017/05/08/biennale-di-venezia-2017-57-edizione-guida-completa/

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Speciale difesa: Armenia-Azerbaigian, ministro Nalbandian, Baku continua a violare il cessate il fuoco (Agenzianova 19.05.17)

Nicosia, 19 mag 16:00 – (Agenzia Nova) – L’Azerbaigian continua a violare il cessate il fuoco concordato a livello trilaterale. È quanto affermato dal ministro degli Esteri armeno Edward Nalbandian durante la 127ma sessione del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa in corso a Nicosia, a Cipro. Nel suo discorso Nalbandian ha accolto con favore l’adozione della Convenzione sui reati contro la proprietà culturale, affermando che i cittadini armeni hanno subito perdite immense in termini di eredità culturale per tutta la loro storia e, più recentemente, a causa dell’Azerbaigian e dei gruppi terroristici attivi in Siria. Il ministro armeno ha ricordato l’offensiva su larga scala dell’aprile del 2016, quando – stando alla versione armena – l’Azerbaigian ha commesso delle gravi violazioni del diritto internazionale e dei diritti umani contro il popolo del Nagorno-Karabakh, l’area contesa fra i due paesi.

“Due vertici sono stati convocati dopo l’aggressione dell’aprile del 2016 dell’Azerbaigian, dove sono stati raggiunti degli accordi volti a creare delle condizioni favorevoli per il progresso del processo di pace. Baku rifiuta di attuare questi accordi, anche se la loro importanza è stata evidenziata in numerose occasioni, anche durante la riunione trilaterale dei ministri degli Affari esteri di Russia, Armenia e Azerbaigian dello scorso 28 aprile”, ha detto Nalbandian. Inoltre, ha proseguito il capo della diplomazia armena, l’Azebaigian “prosegue con le sue palesi violazioni degli accordi trilaterali di cessate il fuoco, in contraddizione con le richieste coerenti dei paesi co-presidenti del gruppo di Minsk dell’Osce (Francia, Russia e Stati Uniti) e della comunità internazionale”, ha dichiarato il ministro. (Res)

Armenia: Ara Babloyan eletto nuovo presidente del parlamento (Agenzianova 18.05.17)

Erevan, 18 mag 15:52 – (Agenzia Nova) – Il parlamento nazionale armeno ha votato nel corso della sua seduta costitutiva Ara Babloyan come nuovo presidente dell’assemblea. Babloyan, la cui candidatura è stata presentata dal Partito repubblicano, schieramento di maggioranza, è stata sostenuta da 88 dei 100 membri del parlamento armeno partecipanti alla votazione che si è svolta con scrutinio segreto. Il suo rivale Edmon Marukyan, nominato dal blocco Yelk (Via d’uscita), all’opposizione, ha ricevuto solo 12 voti a favore.
(Res)

 

 

Nagorno-Karabakh, nuove tensioni tra Azerbaijan e Armenia – Fotogallery (lookoutnews.it 17.05.17)

L’esercito azero distrugge sistemi di difesa antiaerea armeni schierati nell’area contesa di Fizuli-Khovajend. Le immagini esclusive dal fronte dei combattimenti

Torna a salire la tensione nel Nagorno-Karabakh, regione situata nel sud del Caucaso dal 1991 anni oggetto di contesa tra Armenia e Azerbaijan. Enclave armena in Azerbaijan, il Nagorno-Karabakh è formalmente noto come Repubblica Indipendente di Artsak, entità goveenativa non riconosciuta né dall’ONU né da alcun paese al mondo.
In questa terra martoriata da oltre 25 anni di conflitto, il 15 maggio si è registrata una nuova offensiva dell’esercito azero. Il ministero della Difesa di Baku ha dichiarato di aver distrutto dei sistemi di difesa antiaerea armeni OSA (sistemi di fabbricazione sovietica i cui componenti sono montati su un unico veicolo. Gli obiettivi centrati si trovavano nella zona di Fizuli-Khovajend in una delle aree contese e sono stati colpiti poiché rappresentavano «una minaccia per l’aviazione azera».

Le autorità del Nagorno-Karabakh hanno confermato di aver subito danneggiamenti ai loro sistemi di difesa antiaerea, specificando però di non aver registrato alcuna vittima tra i militari a bordo dei veicoli. «Questa provocazione non verrà lasciata senza risposta», hanno dichiarato in un comunicato.

L’attacco delle forze azere arriva a tre mese di distanza dagli scontri che nello scorso mese di febbraio avevano provocato diversi morti, in prevalenza soldati dell’Azerbaijan.

L’ultima grave escalation di violenza risale invece all’aprile del 2016, quando i morti da entrambe le parti in conflitto furono almeno 110, non solo militari ma anche in buona parte civili. Dopo questo episodio la Russia, che lungo il confine dell’Armenia – Paese alleato di Mosca – stanzia migliaia di truppe e veicoli militari, ha mediato un nuovo accordo per l’imposizione del cessate-il-fuoco. Di fatto, però, nel Nagorno-Karabakh non si è mai smesso di combattere e nel conflitto a bassa intensità in corso, seppur sporadicamente, si registrano scambi di colpi di artiglieria o imboscate improvvise.

 

La storia del Nagorno Karabakh in 7 punti

1. Le montagne del Nagorno- Karabakh sono contese tra azeri e armeni sin dal Novecento, ma dopo la Rivoluzione d’Ottobre l’Unione Sovietica decide di ricomprendere la regione nell’Azerbaijan, reprimendo ogni spinta autonomista.

 

2. Un anno prima del crollo del muro di Berlino, nel 1988, il parlamento regionale del Nagorno- Karabakh vota per il ricongiungimento con l’Armenia.

 

LookOut-Report-Nagorno-Karabakh

NAGORNO-KARABAKH: IL REPORTAGE ESCLUSIVO DI LOOKOUT NEWS

3. Nel 1991, con la fine dell’Unione Sovietica, l’Azerbaijan si rende indipendente da Mosca ma il Nagorno-Karabakh non accetta di sottostare al governo di Baku, e dichiara a sua volta l’indipendenza.

4. Inizia una guerra che farà oltre 30mila morti tra il 1992 e il 1994. Grazie alla mediazione di Mosca viene stipulato l’accordo di Bishkek, un cessate-il- fuoco che ferma il conflitto ma non le rivendicazioni reciproche.

5. Il Nagorno-Karabakh da allora è sotto controllo militare dell’Armenia.

6. Dalla fine degli anni Novanta sotto gli auspici dell’OSCE (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa) viene costituito il “Minsk Group”, un tavolo di trattativa permanente composto da USA, Russia e Francia per trovare una via d’uscita pacifica alla disputa.

7. Nell’aprile del 2016 sono riprese improvvisamente le ostilità.

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Scontri fuori dall’Ambasciata Turca a Washington (Euronews 17.05.17)

La visita del presidente turco Recep Tayyip Erdogan a Washington verrà ricordata, per una battaglia campale, fuori dall’ambasciata turca, tra supporters di Erdogan e contestatori.

Nella sede diplomatica mentre Erdogan e il presidente americano Donald Trump si incontrano, il clima, nonostante le apparenze, non è migliore. Il dossier più caldo è la lotta all’Isil, con Trump che vorrebbe armare i curdi siriani nonostante l’assolut

a contrarietà di Erdogan. Poi c‘è il destino di Fethullah Gülen,l’oppositore che secondo Erdogan ha organizzato il fallito golpe della scorsa estate in Turchia. Gülen è in Pennsylvania, il presidente turco ne vorrebbe l’estradizione.
Alla fine i due si accordano su un formale ‘insieme nella lotta contro Isil e Pkk’, mentre fuori imperversano gli scontri.

Le guardie del corpo di Erdogan, come si vede nel video amatoriale qui sotto, attaccano i contestatori del presidente tra cui turchi, curdi, armeni. Nove feriti, di cui uno grave, due arrestati, il bilancio della battaglia.

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Armenia: ministro Esteri Nalbandian in partenza per Cipro, parteciperà a riunione Consiglio d’Europa (Agenzianova 17.05.17)

Erevan, 17 mag 09:45 – (Agenzia Nova) – Il ministro degli Esteri dell’Armenia, Edward Nalbandian, partirà oggi alla volta di Cipro dove nei prossimi due giorni (18 e 19 maggio) si svolgerà la 127ma riunione del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa. Lo riferisce una nota del dicastero armeno. Il Comitato dei ministri terrà la sua sessione ministeriale annuale focalizzandosi sul tema “Rafforzare la sicurezza democratica in Europa”. I ministri dibatteranno del rapporto del segretario generale su “Democrazia, diritti umani e Stato di diritto in Europa: populismo- quanto è solido il sistema europeo di pesi e contrappesi”. Sotto lo stesso punto saranno trattati i temi: “lotta al terrorismo” e “conflitti e crisi in Europa: il ruolo del Consiglio d’Europa”. Saranno inoltre discusse la politica di vicinato del Consiglio d’Europa e la cooperazione tra il Consiglio d’Europa e l’Unione europea. (segue) (Res)

“Armenia per non dimenticare”, a Montemurlo foto e poesie per conoscere la storia di un popolo (met.provincia.fi.it 16.05.17)

Sabato 20 maggio ore 21 alla Sala Banti l’inaugurazione della mostra fotografica a cura del Centro sperimentale di fotografia di Prato e l’intervento del presidente della comunità armena in Italia

L’Armenia è una terra ricca di storia, stretta tra la Turchia, l’Azerbaijan. Un territorio ancora poco conosciuto che Riccardo Cocchi e Giancarlo Torresani hanno voluto raccontare in una mostra fotografica dal titolo”Armenia: per non dimenticare”. Un reportage fotografico che ripercorre la storia di questo popolo dal genocidio del 1905-1915 fino all’attuale situazione socio-politica. Per capire e conoscere meglio il Comune di Montemurlo con la Pro-loco e il Centro sperimentale di fotografia di Prato hanno organizzato per sabato 20 maggio alle ore 21 una serata culturale per promuovere la storia, le tradizioni e gli usi del popolo armeno. Oltre alle fotografie nel corso dell’incontro, infatti, verrà proiettato un video che racconterà l’Armenia oggi, mentre Edoardo Michelozzi, Leonardo Ascione, Teresa Gotti e Bianca Nesi leggeranno alcune poesie armene con un accompagnamento musicale di sottofondo. Alla serata parteciperà anche il rappresentante della comunità armena in Italia, Agopik Monoukian e l’assessore alla cultura del Comune di Montemurlo, Giuseppe Forastiero, che dice:« Un’occasione preziosa per conoscere e ripercorrere la storia di un popolo dimenticato, che tra il 1915 e il 1916 subì un vero e proprio genocidio che costò la vita a 1,5 milioni di armeni. Ma anche un modo per parlare della attuale crisi medio-orientale e del fenomeno delle migrazioni».

La mostra fotografica sarà visitabile sabato dalle ore 21 alle 23 e domenica 21 maggio dalle ore 10 alle 13 e dalle ore 16 alle 19 alla Sala Banti (piazza della Libertà- Montemurlo). Ingresso libero e gratuito.

16/05/2017 16.53
Comune di Montemurlo

L’Europa transcaucasica e l’arte di resistenza alla Biennale di Venezia. Le immagini (ATribune 13.05.17)

Armenia e Georgia, piccole, giovani repubbliche dalla storia millenaria e tormentata, presentano in Laguna due Padiglioni dal profondo legame con le origini e i simboli delle loro culture nazionali.

Armenia e Georgia, si presentano alla Biennale di Venezia con due Padiglioni dal profondo legame con le origini delle loro culture nazionali, rimarcandone il ruolo cruciale nello sviluppo civile dei due popoli, che nei secoli hanno subito persecuzioni, conquiste, devastazioni del loro patrimonio materiale e immateriale.
Se Vajiko Chachkhiani ha scelto per la Georgia un approccio istallativo in bilico fra naturalismo e simbolismo, Bruno Corà ha curata per il Padiglione armeno la personale di Jean Boghossian, le cui ricerche con il fumo e la fiamma sono trasversali fra l’arte concettuale e la narrazione storica.

LA FORZA DEGLI ELEMENTI

Una capanna in legno, abbandonata nei boschi della Georgia e ricostruita all’Arsenale, completa di mobilia interna. A questo omaggio all’architettura tradizionale, Vajiko Chachkhiani (Tbilisi, 1985) ha aggiunto un sistema d’irrigazione che crea una pioggia continua, la cui particolarità è quella di cadere dal soffitto dell’abitazione; il che significa, che a novembre, alla chiusura della Biennale, l’elemento naturale avrà modificato, persino danneggiato, le assi di legno di pareti e pavimento, così come la mobilia. L’idea di fondo è quella dello spirito di adattamento che il popolo georgiano ha dimostrato nei secoli, dalle invasioni musulmane a quella zarista, dalla dittatura sovietica (con le sue vittime anche fra artisti e poeti) alla difficile transizione verso la democrazia. Ma, come recita il titolo del Padiglione, si vuole essere “un cane vivo in mezzo ai leoni morti”: l’omaggio di Chachkhiani va all’uomo comune, ai milioni di georgiani che hanno tratta dalla maestosa natura che li circonda quella forza d’animo con cui hanno sopportata una storia non semplice.

L’ARTE, ARABA FENICE DELL’ESISTENZA

Ispirandosi all’antico alfabeto armeno, così come a tutti gli altri alfabeti antichi, Jean Boghossian (Aleppo, 1949), ha concepita Fiamma inestinguibile (che dà il nome all’intero progetto), l’istallazione site specific per Palazzo Zenobio, cuore della sua personale. Le steli monumentali che sembrano scaturire dai libri bruciati posti alla base, sono il simbolo della capacità della cultura di generare nuova cultura anche dopo le persecuzioni più terribili (ad esempio, i roghi nazisti del maggio ’33, ma anche i roghi delle antiche biblioteche armene a seguito dell’invasione musulmana). Il fuoco e il fumo sono elementi ricorrenti nel processo creativo di Boghossian, che ha trovata la sua cifra in una tecnica ancora poco sfruttata. La curatela di Bruno Corà offre un’ampia panoramica del suo lavoro, onirico e astratto nella forma, ma dai concetti profondamente legati alla realtà storica. Di famiglia armena, ma nato in Siria e cresciuto in Libano, Boghossian ha vissuto di persona le tragedie della guerra civile, e le bruciature sulla tela ricordano i fori dei proiettili sui muri di Beirut, così come quelli sui muri alle spalle degli armeni fucilati durante il genocidio del 1915. E ancora, il fumo e la fiamma sono mezzi per manipolare i colori, per creare quelle atmosfere oniriche dove l’anima trova rifugio nei momenti più bui. Una mostra affascinante e coinvolgente, dall’afflato storico ma dal linguaggio contemporaneo.

– Niccolò Lucarelli

Padiglione Georgia
Arsenale

Padiglione Armenia
Palazzo Zenobio
Dorsoduro, 2596, Venezia
www.labiennale.org

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L’alba del secolo dei genocidi (Tempi.it 10.05.17)

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Alla fine del 1916 Martin Niepage, un insegnante di stanza presso una scuola tedesca di Aleppo, scrisse una lettera aperta al parlamento della Germania che un anno più tardi fu pubblicata in forma di pamphlet intitolato Gli orrori di Aleppo. È un resoconto agghiacciante delle sofferenze che vedeva intorno a sé in quella città. «Sono stato testimone, sono stato a guardare passivamente mentre gli alunni affidati a me venivano portati via a morire di fame nel deserto». Leggendo le sue parole cento anni dopo, si resta sconcertati dal ripetersi delle sofferenze in quegli stessi luoghi esatti. La storia non si ripete, ma sembra esserci qualcosa che lega Aleppo nel 1916 e Aleppo oggi.

Come ho dimostrato nei miei due libri più recenti, il genocidio armeno non fu percepito come un evento marginale nell’epoca in cui accadde e in quella successiva. La Germania fra le due guerre discuteva del genocidio armeno, i nazisti sapevano del genocidio armeno, e ne sapevano molto. Lo stesso vale per il resto del mondo occidentale. È passato tanto tempo da allora e oggi nei libri di storia sulla Prima Guerra mondiale il genocidio armeno è relegato ampiamente ai margini. Non solo non è trattato come un argomento centrale, spesso è proprio escluso dal racconto del conflitto.

Il genocidio armeno deve essere rimesso al suo posto nella storia, anche e soprattutto nella storia europea. Purtroppo è stato un progetto profondamente europeo: quello di rendere lo Stato omogeneo, di passare dall’impero allo Stato nazione. Anche il genocidio degli herero e dei nama (1904-1907) e i campi di sterminio industrializzati del fronte occidentale della Prima Guerra mondiale dicono molto di quel che ha caratterizzato il sanguinoso XX secolo. Ma il progetto dei Giovani Turchi e il genocidio armeno lo simboleggiano in modo più adeguato. È questa svolta verso la deportazione, la sottomissione e infine lo sterminio di propri cittadini su larga scala a caratterizzare purtroppo il XX secolo. È il secolo dello Stato forte e spesso letale, spesso innanzitutto e soprattutto per i suoi stessi cittadini.

La storia non è finita
Gli storici tentano di rendere il senso del passato a distanza e di identificare epoche di sviluppo più ampie. In genere consideriamo come inizio della modernità la fine del XVIII secolo, con le rivoluzioni americana e francese. Spesso il periodo dal 1789 allo scoppio della Prima Guerra mondiale nel 1914 è trattato come un lungo XIX secolo. Quello che seguì è chiamato di solito il secolo breve, che terminò con la caduta dell’Unione Sovietica nel 1991. Gli anni Novanta furono l’epoca non solo dell’assedio di Sarajevo, ma anche dell’euforia; Francis Fukuyama, come è noto, parlò di fine della storia.

Invece la storia è proseguita con il suo strazio. Il recente ritorno di Aleppo dovrebbe bastare per farci riflettere sul secolo in cui siamo vissuti; forse ancora oggi stiamo vivendo in un lungo XX secolo. Forse, a posteriori, il XX secolo è meno caratterizzato dalle grandi ideologie che non da una nuova forma più aggressiva di Stato che ha cercato di riplasmare la sua cittadinanza in unità più “perfette”. Un nuovo Stato moderno che ha avuto e ha poteri di controllo, coercizione e violenza fisica senza eguali. La presa dello Stato da parte dei bolscevichi portò alla morte di milioni di cittadini sovietici e la presa dello Stato da parte dei nazisti portò alla catastrofe la Germania, l’Europa e il mondo. Governi meno terrificanti si sono impossessati di Stati (a volte) meno potenti ma hanno prodotto lo stesso molte sciagure per i loro cittadini.

Per conquistare e trasformare il potere sovrano dello Stato, sembra che non ci sia bisogno di una maggioranza schiacciante – né i bolscevichi né i nazisti avevano maggioranze schiaccianti quando iniziarono a utilizzare la macchina dello Stato per consolidarsi. La sovranità statale appare come un’arma pericolosa in questa prospettiva. Ed è difficile smentire empiricamente questa affermazione. Si può obiettare citando lo Stato di diritto e i pesi e contrappesi, ma è ancora tutto da vedere e da valutare retrospettivamente quanto questi e la democrazia nel suo insieme siano davvero saldi nel mondo moderno. Il matrimonio tra democrazia e Stato moderno non è che un breve episodio della storia umana, quanto meno dal punto di vista privilegiato dello storico. È ancora un fiore abbastanza fresco e dobbiamo capire quanti altri inverni può superare.

Mettere in discussione la sovranità dello Stato sembra essere l’ultimo tabù politico del nostro tempo. Lo confermano diverse forme di anti-internazionalismo, la Brexit e il diffuso scetticismo verso le Nazioni Unite. Cosa ci sia oltre un mondo diviso in unità sovrane non lo sappiamo e non ne parliamo più. Quella che un tempo sembrava un’utopia oggi appare a molti come un’evidente distopia, nonostante il potenziale letale della sovranità statale. Forse stiamo attraversando un periodo che un giorno apparirà come un’epoca perversa di moderno medioevo illuminato – nella quale avevamo i mezzi, la conoscenza e spesso perfino la volontà, ancorché fiacca, di salvare migliaia, milioni di persone dall’essere uccise dai loro stessi Stati e governi, ma non siamo riusciti a farlo. Gli alleati non hanno fatto la guerra a Hitler per fermare l’Olocausto. Nessuno è intervenuto militarmente per salvare gli armeni durante la Prima Guerra mondiale. Degli interventi armati con l’obiettivo di salvare dei cittadini dai loro sovrani, pochi hanno avuto successo, abbastanza spesso l’intervento umanitario è stato una foglia di fico per qualche altro intento. I precedenti che può vantare l’umanità in quanto a difesa delle persone da violenze e omicidi di Stato sono scandalosi.

Il contadino e i suoi polli
Raphael Lemkin, l’ebreo polacco la cui famiglia perì nell’Olocausto e che sarebbe diventato il padre del termine “genocidio” e della Convenzione delle Nazioni Unite per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio, ebbe una delle sue esperienze più istruttive quando nel 1921 lesse sui giornali di un processo in corso a Berlino. Era il processo nei confronti dell’assassino di Talât Pasha – la mente dietro il genocidio armeno. Lemkin ricordò in seguito che all’epoca aveva chiesto al suo professore di diritto a Cracovia perché non fosse stato possibile dichiarare Talât Pasha colpevole dei crimini che aveva commesso contro gli armeni in un tribunale al di fuori del suo paese. Il professore aveva risposto con una parabola incentrata sulla sovranità statale: «Prenda il caso di un contadino che abbia dei polli. Il contadino li uccide, e questo fa parte del suo mestiere. Se lei interferisce, commette una violazione». Scioccato, Lemkin replicò: «Ma gli armeni non sono polli». «In quel momento – scrive Lemkin nelle sue memorie – la mia inquietudine riguardo all’omicidio degli innocenti divenne più urgente per me. Non conoscevo tutte le risposte, ma sentivo che una legge contro questo tipo di omicidio doveva essere accettata dal mondo… La sovranità, pensavo, non può essere concepita come il diritto di uccidere milioni di persone innocenti».

Riflettere sulla sovranità
Ma per l’epoca di Lemkim e per lungo tempo in seguito è stata questa la lezione della Prima Guerra mondiale – e i nazisti e molti altri la conoscevano e l’avevano udita forte e chiara: una nazione che si era macchiata di atrocità di massa e perfino di genocidio su larga scala era riuscita a restare impunita, aveva potuto perfino “godersi” i frutti materiali e i “benefici” del genocidio. Il genocidio armeno, il fatto che esso rimase impunito e che divenne una nota a piè di pagina della storia – questo è il peccato originale del XX secolo.

Ricollocare il genocidio armeno nella storia del mondo e dell’Europa non è un compito facile e deve condurre a una revisione radicale del XX secolo. Il genocidio armeno è stato un allarme importantissimo che il mondo non ha ascoltato. Il mondo sapeva ma sono state le persone sbagliate a trarre le debite conclusioni: che si può cavarsela impunemente con l’oppressione, la violenza e l’omicidio di massa.

Quanta strada abbiamo fatto e come proteggeremo mai i civili di uno Stato da coloro che hanno conquistato o stanno per conquistare il potere sovrano di quello Stato? Centodue anni dopo la deportazione dei capi degli armeni di Istanbul e l’inizio del genocidio armeno, novantasei anni dopo le riflessioni di Lemkin sulla sovranità, settantadue anni dopo la fondazione delle Nazioni Unite e sessantanove dopo la Convenzione per la prevenzione del genocidio, ancora non abbiamo risposte semplici, ma a quanto pare forse dobbiamo continuare a meditare e rimeditare sulle idee di Raphael Lemkin a riguardo della sovranità.


Stefan Ihrig è professore di Storia all’Università di Haifa, autore di Justifying Genocide (Harvard University Press)

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