ARMENIA: Sarà estradato in Russia il soldato che massacrò un’intera famiglia armena (Eastjournal 10.05.17)

Valeri Permiakov, soldato russo condannato all’ergastolo per aver massacrato nel gennaio 2015 un’intera famiglia armena a Gyumri, sarà estradato in Russia, dove finirà di scontare la sua pena. Come riferito da un rappresentante della Corte del Distretto del Caucaso settentrionale all’agenzia d’informazione RIA Novosti, la Corte d’appello armena ha infatti confermato il verdetto emesso in primo grado riguardo all’estradizione del militare russo.

Permiakov, che all’epoca dei fatti aveva appena 18 anni, serviva presso la base militare n° 102, situata presso la città di Gyumri, nell’Armenia nord-occidentale. Per motivi non precisati, la notte del 12 gennaio il soldato russo lasciò la propria base armato di kalashnikov, introducendosi successivamente all’interno dell’abitazione della famiglia Avetisyan e iniziando a sparare all’impazzata. Sei persone, tra cui anche una bambina di due anni, morirono sul colpo, mentre l’unico sopravvissuto, un bambino di 6 mesi, morì una settimana dopo in ospedale a causa delle gravi ferite riportate durante l’aggressione.

Il killer, arrestato la notte successiva al massacro presso il confine turco-armeno, venne immediatamente ricondotto alla propria base, dove confessò i propri crimini. La strage creò grande scalpore tra l’opinione pubblica armena, dando vita a un grave incidente diplomatico tra Mosca e Yerevan, due paesi legati da una forte amicizia e da una strategica alleanza. In particolare la popolazione di Gyumri, fortemente scossa dall’accaduto, organizzò cortei e manifestazioni che più volte sfociarono nella violenza, chiedendo alla Russia di consegnare Permiakov alle autorità armene.

Nell’agosto dello stesso anno il soldato venne condannato dal tribunale militare russo di Gyumri a 10 anni di carcere per diserzione e furto d’armi. Un anno dopo, nell’agosto 2016, la Corte armena giudicò Permiakov colpevole di omicidio multiplo, condannandolo all’ergastolo nonostante la richiesta di infermità mentale invocata dalla propria difesa.

Da allora, le autorità di Mosca hanno iniziato a spingere per l’estradizione del militare russo, facendo leva su un punto della Costituzione che proibisce allo Stato di consegnare i propri cittadini a paesi esteri. D’altro canto però, tra i due paesi è in vigore un accordo bilaterale firmato nel 1997, che stabilisce che se un membro del personale militare russo di stanza in Armenia compie un reato al di fuori del territorio della propria base, esso ricade sotto la giurisdizione armena.

Per provare a risolvere la questione si era anche parlato di un possibile scambio tra Permiakov e Hrachya Harutyunyan, un cittadino armeno di professione camionista che sta attualmente scontando una pena di sei anni e nove mesi di carcere in Russia per aver provocato nel luglio 2013 un incidente mortale (la sua vettura si scontrò con un autobus, uccidendo 18 passeggeri). L’ipotesi di uno scambio tra i due sembra successivamente essere tramontata, nonostante il Ministero della Giustizia armeno continui a sperare di farsi consegnare Harutyunyan.

Alla fine, dopo una trattativa durata quasi un anno, la Corte d’appello armena si è espressa a favore dell’estradizione di Permiakov, sostenendo che il militare russo non può scontare la propria pena nel paese caucasico, poiché le autorità di Mosca non hanno mai consegnato ufficialmente il soldato ai colleghi armeni. Sono state quindi respinte le richieste dei legali della famiglia Avetisyan, i quali avrebbero voluto vedere Permiakov scontare il carcere a vita in Armenia.

Avveniristico laser made in Italy vola in Armena per offrire nuove opportunità terapeutiche in urologia (Politicamentecorretto.com 10.05.17)

AVVENIRISTICO LASER MADE IN ITALY VOLA IN ARMENIA PER OFFRIRE NUOVE OPPORTUNITA’ TERAPEUTICHE IN UROLOGIA

Il laser Litho, dispositivo medico di ultima generazione progettato e prodotto a Varese da Quanta System, protagonista di un’importante donazione all’ospedale di Yerevan per curare i pazienti affetti da calcolosi delle vie urinarie. Presenti alla consegna anche la Regina Rania di Giordania e Sua Santità Karenin II

La tecnologia italiana segna una nuova frontiera in medicina garantendo la risoluzione della calcolosi urinaria in maniera mini-invasiva, sicura ed efficace per pazienti di ogni età. Quanta System – azienda italiana del Gruppo El.En. (Segmento Star di Borsa Italiana – ELN.MI) ha donato al centro medico “Izmirlian” di Yerevan, capitale dello stato armeno un sistema di ultima generazione, il laser LITHO. L’innovativo dispositivo laser rappresenta un importante progresso tecnologico nella cura della calcolosi delle vie urinarie. Grazie alla mini-invasività dell’intervento è possibile raggiungere risultati sempre più sicuri e degenze ridotte e offrire alle persone affette da questa patologia, nuove opportunità terapeutiche. Dettagliati studi ed approfondite ricerche condotte da un staff di ingegneri e tecnici della fabbrica del laser di Varese, hanno permesso di raggiungere la migliore combinazione di efficienza tecnologica e successo medico-scientifico: a rendere unico nel suo genere il laser Litho è la capacità di massimizzare l’efficacia del trattamento conservando i più elevati standard di sicurezza e di effettuare chirurgie mini-invasive per via endoscopica. Il punto di forza del laser è racchiuso nella fortissima azione di rottura o polverizzazione dei calcoli, grazie alla creazione di un effetto foto-acustico e meccanico controllato tramite specifiche modalità di emissione laser quali il Dusting Effect.

La cerimonia di donazione si è svolta nei giorni scorsi alla presenza di Filippo Fagnani, Direttore Scientifico della linea chirurgica di Quanta System insieme a Mario Annesi, Vice Presidente della linea chirurgica, oltre che di importanti autorità locali, come il Dottor Arthur Grasby, Presidente dell’Associazione Urologica armena. All’evento hanno inoltre partecipato due prestigiose personalità internazionali: Sua Santità Karekin II, Patriarca del Patriarcato armeno di Costantinopoli, che ha espresso tutta la sua gratitudine, a nome della Chiesa Armena e della popolazione per il generoso gesto di Quanta e la Regina Rania di Giordania.

“Siamo orgogliosi di aver portato a termine con successo un’altra attività filantropica che ha seguito la donazione allo stesso ospedale effettuata nel 2016 da un importante gruppo americano medicale Healthtronics di un laser sempre di produzione Quanta System, Cyber TM, per il trattamento dell’Iperplasia Prostatica Benigna– commenta Paolo Salvadeo, Direttore Generale del Gruppo El.En. e siamo estremamente onorati di aver incontrato anche Sua Santità Karenin II e la Regina Rania. Con questa nuova donazione, abbiamo confermato la nostra profonda attenzione nei confronti del sociale e il compito di prendersi la massima cura delle persone. Speriamo che questo sia da esempio anche per altre aziende nel perseguire non solo la strada del business, ma anche azioni concrete di aiuto nei confronti della collettività per migliorare la vita delle persone”.

La donazione all’ospedale “Izmirlian” segue quella avvenuta nel 2016 di un laser per curare le cicatrici e le malformazioni cutanee sui bambini. Questo sistema laser dermatologico è già stato utilizzato nell’ospedale della capitale armena sotto la direzione del luminare Rox Anderson del Massachusetts General Hospital di Boston.

Nagorno-Karabakh: ministro Difesa armeno, sostegno Turchia all’Azerbaigian è una minaccia per la Russia (Agenzia nova 09.05.17)

Erevan, 09 mag 11:42 – (Agenzia Nova) – L’attività politico-militare della Turchia a sostegno dell’Azerbaigian rappresenta una minaccia per la Russia. Lo ha detto il ministro della Difesa armeno, Vigen Sargsyan, in un’intervista all’agenzia di stampa russa “Intefax”. “Capisco che la Russia e la Turchia stiano vivendo un periodo positivo per sviluppare un dialogo, ma non trascurerei questo grave pericolo”, ha detto il ministro. Il ministro Sargsyan ha aggiunto che la Turchia sta svolgendo un ruolo distruttivo nel processo di risoluzione del conflitto nel Nagorno-Karabakh – la regione contesa fra Armenia e Azerbaigian – attraverso il suo sostegno esplicito e univoco a Baku che include anche la fornitura di armi e tecnologia e rischia di modificare il contesto regionale. Questa situazione “crea seri pericoli, anche per il fianco meridionale della Russia”, ha detto Sargsyan. (segue) (Res)

Azerbaigian-Armenia: arrestate a Baku gruppo di persone accusate di tradimento (Agenzianova 08.05.17)

Baku, 08 mag 08:48 – (Agenzia Nova) – Un gruppo di cittadini azeri, militari e civili, sono stati arrestati con l’accusa di tradimento per avere fornito segreti e informazioni militari all’intelligence e alle forze speciali dell’Armenia. È quanto si legge in una nota congiunta controfirmata dalla procura generale dell’Azerbaigian e dai ministeri della Difesa e dell’Interno e dal Servizio di Stato per la sicurezza. “Sulla base del materiale raccolto, il procuratore militare della Repubblica di Azerbaigian ha avviato un procedimento penale per tradimento” nei confronti di queste persone. Per indagare sui fatti, prosegue la nota, “è stato istituito un gruppo investigativo-operativo costituito da dipendenti dell’ufficio del pubblico ministero, del ministero della Difesa, del ministero dell’Interno e del Servizio di Stato per la sicurezza che ha già avviato un’inchiesta iniziale”. La nota congiunta, inoltre, riferisce che le misure immediate di indagine hanno consentito di prevenire atti provocatori e terroristici che l’intelligence e i servizi speciali dell’Armenia stavano progettando di commettere in diversi luoghi pubblici a Baku.
(Res)

Giovani Turchi, Orfini e gli armeni. “Non chiamate così la corrente Pd” (Affariitaliani.it 06.05.17)

“I Giovani Turchi sono stati un movimento che ha pianificato e messo in pratica il genocidio armeno del 1915”. La lettera

Giovani Turchi, Orfini e gli armeni. "Non chiamate così la corrente Pd"

Egregio direttore,
facciamo seguito a nostra precedente richiesta ma dobbiamo tornare in argomento giacché nell’articolo pubblicato in data 5 c.m.,  dal titolo “Orlando deluso da Renzi non ottiene la presidenza” ancora una volta utilizzato viene il termine “Giovani Turchi”.

I Giovani Turchi sono stati un movimento che ha pianificato e messo in pratica il genocidio armeno del 1915.
L’uso di tale nome provoca negli armeni italiani e in tutti coloro che hanno un minimo di conoscenza storica un sentimento di repulsione e di rabbia. È come se un partito politico decidesse di chiamare (o accettare che venga chiamata) una propria corrente interna con il nome di Hitler Jugen.

Nel 1915 un milione e mezzo di armeni vennero massacrati in quello che è comunemente riconosciuto come il primo genocidio del Novecento; i sopravvissuti dovettero abbandonare la propria terra natale e tutti i beni. Oggi, il “Sultano” Erdogan e la Turchia continuano a perseguire una politica negazionista.

E, ci creda, è davvero penoso continuare a leggere o ascoltare in Italia il termine “Giovani Turchi”; specie non lontano dalla ricorrenza del genocidio (24 aprile).

Lo stesso onorevole Orfini, con l’allegata sua dichiarazione dello scorso 11 aprile, pare abbia preso finalmente le distanze da tale espressione.

Le saremmo grati se potesse pubblicare questa precisazione a beneficio dei lettori che ancora non conoscono quella tragica pagina di storia, con l’augurio che in futuro tale nefasto nome esca definitivamente dal vocabolario della politica italiana.

Cordiali saluti e buon lavoro

CONSIGLIO PER LA COMUNITA’ ARMENA DI ROMA
www.comunitaarmena.it

 


 

Tracce di una memoria epocale (Ilmanifesto.it 06.05.17)

Libri. In uscita per Humboldt Books “The Arrow of Time”, una selezione delle pagine dei diari di Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi, note di un loro viaggio in Russia (1989-1990)

Per chi scrive, di fronte ai film e alle immagini di Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi, c’è spesso una sensazione di strana vertigine, forse perché il loro «cinema d’archivio» – sono universalmente riconosciuti fra i più importanti cineasti viventi, in Italia e fuori – lavora da sempre nella percezione e immaginazione degli spettatori riuscendo a destare lo sguardo da certe sue pigrizie mentali (la stessa cosa vale per le mostre). Forse è per questo. In ogni caso, si tratta di un’opera – la loro – in cui è al centro una capacità di osservazione unica, tra rigore e invenzione, qualcosa che si può già «vedere» nelle testimonianze di molti dei loro viaggi, cioè i loro diari. In questo caso, l’occasione di un possibile approfondimento la offre la casa editrice Humboldt Books con l’imminente pubblicazione di The Arrow of Time, la cui idea è nata dalla retrospettiva dedicata alla coppia e dalla loro carte blanche alla Cinematek di Bruxelles (febbraio 2015). Dal testo in appendice di Eva Fabbris – assieme al suo, gli altri interventi critici nella sezione sono di Corinne Diserns e di Andrea Lissoni (tutti in italiano e inglese) – si può leggere: «Questo libro presenta una selezione delle pagine dei diari, una vera e propria tranche de vie: un quaderno che inizia nel gennaio del 1989, da cui sono state estratte ottantadue pagine; più un quaderno e un album, riportati per intero, redatti nel medesimo periodo. La scelta di questi taccuini rispetto a numerosissimi altri è stata fatta insieme agli artisti. Vi compaiono le figure che si ritrovano nei capitoli già realizzati del progetto russo (Viaggio in Russia. Materiali non montati per un film da fare: Interni a Leningrado; Notes sur nos voyages en Russie e À propos e nos voyages en Russie) e che saranno protagonisti del film russo a venire: Valia Kozincev, Ida Nappelbaum, Ossip Mandelstam, Anna Achmatova, Nina Berberova e molti altri insieme alla Leningrado dell’Ermitage e dell’incrociatore “Aurora” ormeggiato sulla Neva davanti alla camera d’albergo del loro primo soggiorno. Ma nello stesso quaderno, poi, le gite in montagna insieme agli amici russi che ricambiano la visita, le partecipazioni ai festival, la continuazione della ricerca in luoghi d’Europa, attraverso letture e altri incontri come quello non semplice, tra Ricci Lucchi e la Berberova […]».

Da qui un possibile approfondimento può essere articolato su due tracce, da mettere in relazione tra loro.

Diario come foglio-mondo

Avendo sotto gli occhi la riproduzione anastatica delle pagine del diario (nel libro c’è la traduzione in inglese di queste), non si può che iniziare con il soffermarsi sull’impatto visivo.

La scrittura è in prima persona. Seguendo la grafia, come ideale sua «estensione», vediamo figure dal tratto uniforme che illustrano la narrazione, l’anticipano o magari la sostituiscono, restituendo «la pagina» come una trama di codici misti in cui, qua e là, c’è persino la sensazione di trovarsi di fronte a sequenze che quasi ricordano pittogrammi. Cosa si vuol dire con questo? Al di là di risposte giocoforza approssimative, l’ipotesi potrebbe essere quella di vedere, in questo, l’intenzione di una osservazione delle cose il più possibile completa ai sensi.

Leggendo quanto scritto, invece, si possono notare come caratteristiche peculiari una certa attenzione o gusto al dettaglio narrativo attraverso una scrittura che però procede senza altre concessioni, per esempio allo psicologismo. Siamo di fronte a quello che potremmo definire un diario in senso classico, pre-romantico. Diario allora di viaggiatori come, appunto, sono gli stessi Gianikian e Ricci Lucchi, diario dove leggiamo di spostamenti, conversazioni, incontri, ma anche di annotazioni sintetiche, liste di libri, alimenti, idee, molto altro. Cosa si vuol dire con questo? Qualcosa certamente di leggibile in relazione alla loro opera audiovisiva, ma in modo indiretto, perché qualcosa anche di diverso, al di là dei possibili giudizi di valore di ognuno.

A questo punto, per provare ad introdurre al meglio i «quadri della memoria» di questo diario – quando c’è un diario c’è sempre da fare i conti con questo tema, la memoria – si potrebbe usare l’immagine del foglio-mondo, per come coniata dal filosofo americano Charles Sanders Peirce e spiegata dal filosofo italiano Carlo Sini («ogni grafo è filosofia di un universo, figura del mondo») e azzardare una relazione tra diario e cinema nell’opera di Gianikian e Ricci Lucchi simile a quella tra mappa e territorio.

Prima e dopo la Storia

Il primo quadro della memoria di The Arrow of Time è senza dubbio quello relativo all’azione di Gianikian e Ricci Lucchi. Il loro viaggio in Russia data anni particolari per la Storia di questo Stato, 1989-1990, cioè poco prima della fine dell’Unione Sovietica. Sono lì per alcune occasioni, tutto inizia con un invito ricevuto da un festival di cinema documentario a Leningrado, seguiranno determinate visite e incontri. Sono lì per lavoro, anche se poi i lavori di quello che è stato chiamato il loro «progetto russo» usciranno successivamente – di questi anni è, invece, il loro film Uomini anni vita, dove la Russia è presente attraverso la questione armena (ma a leggere bene l’Armenia non manca nemmeno fra le pagine di questo diario).

In questo caso, la narrazione vale come memoria di loro esperienze attraverso un’epoca.

Il secondo quadro della memoria che si può desumere dal libro potrebbe invece essere quello che va dal senso degli incontri svolti in Russia, include giocoforza la loro opera, e arriva infine a noi. Cosa si vuol dire con questo? In un certo senso, al di là di possibili riferimenti – per esempio alla nozione estesa di «postmemory» – con uno schema del genere si può suggerire una lettura del diario come guida per meglio comprendere il modo di intendere e far vedere la Storia che viene fuori dal lavoro di Gianikian e Ricci Lucchi. La loro presenza in Russia, i loro incontri con figure come Valia Kozincev, Nina Berberova e altre (figure legate alla grande cultura dell’epoca sovietica), e le relative documentazioni: tutto questo è entrato a far parte proprio dell’archivio della coppia come tentativo di non perdere tracce vive di un periodo così importante – prima del venir meno di tali tracce, dopo la loro trasformazione in Storia. E noi, lettori di questo diario, leggiamo tutto questo «al presente», in un tono in sintonia con quello del loro cinema e della loro arte, e che inoltre, forse, «risponde» come eco a loro idee sul proprio lavoro (da una loro dichiarazione: «Non politico, non estetico, non educativo, non progressivo, non cooperativo, non etico, non coerente: contemporaneo»). E questa, se si vuole, è una contemporaneità che fa rima con una certa «inattualità»: qualcosa sempre potente, da sempre presente.

Genocidio armeno, il vergognoso negazionismo della Turchia (Articolo21 05.05.17)

[Traduzione a cura di Benedetta Monti, dall’articolo originale di Sossie Kasbarian pubblicato su The Conversation]

l 24 aprile ha segnato l’anniversario dell’inizio del genocidio armeno, durante il quale per mano dell’Impero ottomano vennero massacrati 1,5 milioni di armeni. Tuttavia, anche se il genocidio è avvenuto 102 anni fa, in un certo senso non si è mai concluso poiché lo Stato turco, erede dell’Impero ottomano, ha intrapreso un progetto di negazionismo – l’ultima fase del genocidio.

Ciò continua a sovvertire e a ostacolare sia i ricordi dei sopravvissuti che le rivendicazioni dei loro discendenti, sparsi in tutto il mondo. Tale negazionismo sta alle fondamenta dello Stato turco, rappresenta il pilastro della politica estera di questa nazione ed è stato esteso attraverso vere e proprie campagne internazionali.

Attualmente solo 23 nazioni riconoscono ufficialmente il genocidio armeno e questo rispecchia il ruolo della Turchia dal punto di vista geopolitico: un alleato importante per la NATO e un attore sulla scena mondiale a cui la maggior parte della comunità internazionale non vuole contrapporsi. Quando una nazione riconosce il genocidio avvenuto in Armenia, la Turchia reagisce rapidamente rompendo qualsiasi legame diplomatico, stracciando i trattati commerciali ed emettendo denunce e minacce severe.

L’ultimo episodio derivato da questo atteggiamento è stata la risposta a “The Promise, il primo film hollywoodiano che tratta il genocidio armeno uscito di recente negli Stati Uniti. Nonostante fino ad ora questo film sia stato mostrato al pubblico di festival di minore importanza, ha ricevuto molti giudizi negativi in Rete, a quanto pare grazie ad una campagna creata dai negazionisti turchi. Nel frattempo alcuni finanziatori turchi hanno appoggiato la produzione del film “The Ottoman Lieutenant, ambientato nello stesso periodo di “The Promise”, pellicola ridicolizzata dai critici e bollata come “propaganda turca“.

Ci si può chiedere – e a ragione – perché riconoscere un genocidio che è avvenuto più di un secolo fa rappresenti tuttora una questione così controversa. Tutti gli Stati hanno alle loro spalle una storia fatta di violenza e di “amnesia collettiva” perché le nazioni sono riluttanti ad affrontare il proprio passato violento o ad ammettere di aver preso parte ad azioni criminali e ingiustizie. È sempre doloroso dover trattare con eventi storici tutt’altro che gloriosi, sia simbolicamente (come l’apologia degli Stati Uniti ai Nativi americani del 2009) che materialmente (come il risarcimento e le restituzioni dei tedeschi alle vittime dell’Olocausto).

Mentre i tentativi dello Stato turco nel corso dei decenni hanno utilizzato diverse retoriche e approcci, il negazionismo è rimasto inalterato. Secondo l’articolo 301 del Codice penale turco, cittadini ma anche luminari della cultura possono essere perseguitati per aver “insultato” la nazione o lo Stato turco o “disonorato” la Repubblica citando il genocidio armeno. Il negazionismo viene perseguito a tutti i costi.

Una situazione destinata a peggiorare

Nel mese di aprile del 2015, il centenario del genocidio armeno era stato contraddistinto da un crescente movimento di protesta da parte della società civile che si impegna su queste questioni da più di un decennio. Da allora la situazione in Turchia è deteriorata, facendo aumentare di giorno in giorno il numero dei “nemici” dello Stato. In questa sorta di elenco sono compresi “Academics for Peace“, che ha “osato” fare appello al Governo per fermare la guerra ai curdi in Anatolia, e chiunque sia sospettato di avere legami con il movimento islamico Gülen, ex alleato del partito di Governo. Al colpo di Stato fallito nel luglio del 2016 hanno fatto seguito epurazioni di dipendenti statali, molti dei quali appartenevano al campo dell’educazione.

Recentemente, la maggioranza dell’elettorato turco ha votato per conferire più poteri al presidente Erdogan, cosa che molti considerano porre le basi all’autoritarismo. Erdogan ha vinto dopo una campagna controversa e con un margine esiguo di voti, un’indicazione di quanto sia divisa la società turca e del modo in cui il Governo stia sfruttando tali divisioni per consolidare il proprio potere.

Erdogan ha spesso mostrato la volontà di distruggere chiunque gli si opponga e il suo Governo sta limitando lo spazio nella sfera pubblica ai dissidenti. Il negazionismo di un genocidio rientra nell’interesse di questo regime, un regime che normalizza la violenza di Stato, promuove le proprie visioni e punisce qualsiasi tipo di opposizione.

È importante ricordare che questo “fenomeno” non è limitato solamente alla Turchia, ma le società in tutto il mondo ne sono testimoni ogni giorno: il genocidio promosso dallo Stato viene spacciato per guerra civile, le vittime sono trasformate in istigatori, la violenza di Stato viene venduta come sicurezza nazionale e le montature e i “fatti alterati” vengono presentati come notizie. Se tutto ciò continuerà ad essere consentito, il mondo non si troverà solamente nell’era post-verità, ma sarà anche un mondo senza principi morali.

Troppo spesso il potere non viene limitato e i potenti non vengono considerati responsabili per le loro azioni, mentre i più deboli sono resi quasi invisibili e insignificanti. In nome di tutte le vittime della violenza di Stato in tutto il mondo, del passato e del presente, dire la verità in faccia ai potenti non è mai stato così urgente.

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Les èternels: l’Armenia fantasma (Cineuropa.org 05.05.17)

Dopo la disintegrazione dell’Unione Sovietica e una guerra di trincea tra armeni e azeri, il territorio di Nagorno Karabakh si autoproclamò una repubblica indipendente nel 1994. Les éternels, l’ultimo documentario di Pierre-Yves Vandeweerd, presentato in concorso a Visions du Réel, immortala il quotidiano di chi vive, afflitto, in questa piccola regione che tuttoggi non è riconosciuta né dall’Armenia né dall’Azerbaigian. Nel suo meraviglioso saggio poetico, il regista di Territoire perdu  dimostra che esiste una similitudine emotiva tra il sentimento di sospensione, o non appartenenza ad alcuno stato, che soffrono i cittadini di Nagorno Karabakh (nel complesso, di radici armene) e la sindrome post-traumatica che caratterizza i sopravvissuti al genocidio armeno.

Come spiega Vandeweerd mediante una serie di cartelli che interrompono le belle e potenti immagini del gelido paesaggio di Nagorno Karabakh, questo stato di profondo dolore che accomuna i sopravvissuti armeni è conosciuto, nella loro lingua, con il nome di Tsnorq; una parola che significa letteralmente “provare malinconia per l’eternità”. I malati di Tsnorq sperimentano il tempo in modo diverso. Le ore, i giorni e gli anni si dilatano, e non c’è un solo minuto in cui le sue vittime smettono di pensare al momento in cui saranno liberi dal loro calvario terreno, ossia al momento in cui moriranno e passeranno all’eternità.

Les éternels non cerca la compassione dello spettatore, ma vuole mostrare l’anima in pena del popolo armeno, specialmente di coloro che sono scampati al genocidio o alla sanguinosa guerra del Nagorno Karabakh con i vicini azeri. Scomodo, desolante e fulminante, il film propone un approccio privo di sottigliezze o orpelli che facilitino la comprensione del desiderio di morte dei suoi protagonisti. Les éternels ci trasporta in un non-luogo abitato da fantasmi, dove il tempo si è fermato per accogliere il dolce avvento dell’eternità.

Il film è prodotto da Cobra Films y Zeugma Films, con l’appoggio di ARTE France – La Lucarne.

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«Grazie per ricordarvi sempre di noi». Gli Armeni d’Italia scrivono al sindaco (Laprovinciadivarese.it 05.05.17)

Travedona Monate – La missiva del presidente Sivazliyan a Colombo per le iniziative sempre vive in memoria del Genocidio

Una lettera piena di gratitudine nei confronti del Comune di Travedona Monate, delle scuole del paese, degli studenti e degli insegnanti, per l’impegno a non dimenticare mai la tragedia del Genocidio del Popolo Armeno all’inizio del ventesimo secolo. A scrivere una missiva al sindaco Andrea Colombo è stato il professor Baykar Sivazliyan,dell’Università degli Studi di Milano, nonché presidente emerito dell’Unione degli Armeni d’Italia.

Radici piantate a terra

L’associazione ha iniziato da qualche anno un progetto di informazione e diffusione sul territorio comunale di Travedona Monate, concernente la questione armena in generale e del genocidio del popolo armeno in particolare. Un impegno che il paese che si affaccia sul lago di Monate sta portando avanti con grande costanza e tenacia; una targa nel parco del municipio travedonese ricorda la tragedia del Genocidio e un albero di melograno è stato piantato per mantenere sempre viva la memoria.

«Oggi, dopo anni, siamo veramente soddisfatti che la via culturale si è dimostrata vincente – si legge nella lettera – contro l’odio e il rifiuto del diverso. Purtroppo, lo Stato turco di oggi, con i suoi maldestri atti, ci fa capire ancora una volta che non è in grado di instaurare un dialogo costruttivo per le vie della verità».

Impegno costante

Un compito che nel suo piccolo, si è assunta anche Travedona Monate; lo scorso 24 aprile. Il sindaco ha deposto un mazzo di fiori sotto la targa affissa nel parco. L’impegno messo in campo dal Comune è stato molto apprezzato dagli armeni d’Italia, anche per il coinvolgimento delle scuole del paese.

«Sono stato informato – prosegue il professor Sivazliyan – che l’amministrazione comunale di Travedona Monate ha allargato questo dialogo e diffusione delle informazioni, alle scuole; credo che sia la cosa migliore, preparare le nuove generazioni alla verità e alla consapevolezza della giustizia, perché siamo certi che senza l’incoronamento della verità, in nessuna parte del mondo ci sarà una vera giustizia».

La missiva indirizzata a Colombo, si chiude con i ringraziamenti per la «sensibilità dimostrata dal sindaco e per il suo incessante lavoro». Ringraziamenti indicati da estendere anche agli studenti e agli insegnanti delle scuole di Travedona Monate.

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Un’omissione di soccorso per fare pulizia etnica (Tempi 04.05.17)

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Er ist wieder da! «È di nuovo qui», è il titolo di un romanzo (e poi di un film) di successo, in cui Adolf Hitler ricompare, all’improvviso, nella Germania di Frau Merkel. In un paio di gustose scenette, il Führer, che nessuno riconosce come tale (tranne un’anziana donna scampata ai campi di sterminio), si rallegra della consistente presenza turca nella nuova Germania, dichiarando di apprezzare che essa sia riuscita là, dove, invece, lui aveva fallito: coinvolgere la Turchia in un nuovo asse politico con la Germania.

Al di là del lato satirico del romanzo, la battuta appare rivelatrice, dato che, in effetti, il Terzo Reich non ce l’aveva fatta a portare dalla propria parte, in funzione antirussa, la Turchia di Atatürk, ancora estenuata dalla sconfitta subita nella Prima guerra mondiale. Anzi, il 1° marzo 1945, sotto la minaccia di un intervento alleato, ma anche con una buona dose di opportunismo, la Turchia dichiarava formalmente guerra alla Germania nazista, quando ormai la Wehrmacht si stava ritirando da quasi tutta l’area balcanica e, dunque, non c’erano più rischi. C’è davvero un filo rosso che lega la storia della Germania all’impero ottomano, prima, e alla Turchia, poi, ed è un filo che va molto indietro nel tempo e ben oltre le semplici ragioni della geopolitica.

Cyril Arslanov, che è ebreo e armeno, e, dunque, in una posizione che lo facilita nel comprendere certi meccanismi ideologici di esclusione/eliminazione delle minoranze, ha giustamente osservato che c’è un evidente nesso storico tra panturchismo e pangermanesimo e che il secondo, per garantire se stesso, ha ampiamente taciuto sui crimini del primo. Christin Pschichholz, altra studiosa, questa volta tedesca, docente all’Università di Potsdam, ha posto in luce le responsabilità oggettive del governo imperiale tedesco nel genocidio armeno: esso «sostenne in maniera indiretta quel crimine, essendo perfettamente al corrente di quello che stava accadendo; (…) ignorò e avvallò quanto accadeva agli armeni perché preoccupato di consolidare l’alleanza con l’impero ottomano». In Germania sapevano benissimo che l’intento dei Turchi era una completa pulizia etnica (oltre agli armeni furono massacrati anche gli aramei e altre minoranze cristiane, mentre subito dopo la guerra sarebbe toccata ai greci).

Secondo Pschichholz, il governo imperiale tedesco si sarebbe reso complice del genocidio mediante la propria inazione, pur non essendo mancate alcune note di protesta verbali. «Il nostro scopo è mantenere la Turchia al nostro fianco sino alla fine di questo conflitto», così il cancelliere Theobald con Bethmann Hollweg nel 1915, «quand’anche ciò comportasse la fine degli armeni». Con un’efficace espressione giuridica, la Pschichholz descrive, quindi, l’atteggiamento tedesco in quegli anni come «omissione di soccorso», e, dunque, come un crimine.

Del resto, il governo federale tedesco, con molto coraggio, ha recentemente riconosciuto, con una decisione del proprio parlamento, le proprie responsabilità. Lo ha fatto con qualche decennio di ritardo, solo nel 2016, sino a quel momento frenato dalla volontà di non urtare l’alleato turco e in un contesto in cui la Germania democratica ammetteva le proprie responsabilità anche in altri tragici eventi legati alla storia dell’impero tedesco, primo tra tutti il massacro degli herero, nell’Africa sudoccidentale tedesca.

Proprio in forza di questa concatenazione di eventi, se si procede a una lucida analisi storica, il genocidio finisce per apparire per quel che è, come lo strumento per la risoluzione nazionalistica del problema delle minoranze. Lo Stato moderno, che si vuole etnicamente omogeneo, non è che un’astrazione ideologica, per arrivare alla quale il Novecento non si è fermato neppure davanti alle deportazioni di massa e all’eliminazione fisica dei “diversi”. Rilevarlo è essenziale, se non si vuole cadere nell’equivoco del male commesso o permesso in ubbidienza alla pura ragion di Stato.

Quest’ultima può aver indotto a tacere, come, del resto, avviene ancor oggi da parte di molti (quasi tutti) i governi democratici dell’Occidente davanti ai massacri odierni (quelli dei cristiani in Medio Oriente, per esempio). Ma non basta. Non era solo ragion di Stato e non è stata solo “omissione di soccorso”: c’era la convinzione che occorresse “fare pulizia” e raggiungere l’obiettivo di una monoliticità etnica senza eccezioni.

A provarlo ci sono le tesi di una delle figure chiave della Germania guglielmina, il pastore evangelico e teologo liberale Friedrich Naumann. Questi accompagnò il Kaiser nel suo viaggio a Istabul nel 1898 e teorizzò, nei suoi scritti, la necessità per l’impero tedesco di porsi alla alla guida del movimento pangermanico, guardando all’impero ottomano come la longa manus degli interessi economici e coloniali tedeschi in Eurasia.

Degli armeni, mentre era in corso uno dei peggiori massacri che li riguardarono, scrisse: «L’armeno è il peggior tipo di essere umano». Naumann si definiva un liberal-darwinista. La sua “teologia”, radicalmente liberale (oggi diremmo “di sinistra”) e le sue prese di posizione non mancarono di suscitare aspre reazioni da parte di molti credenti sinceri, anche all’interno della Chiesa evangelica, ma influenzarono enormemente il modo di pensare la politica estera del governo imperiale tedesco. Fa venire i brividi pensare che anche il nazionalsocialismo, a fondamento dei propri campi di sterminio, poneva una visione “darwinista” dell’essere umano, stabilendo una sorta di gerarchia tra le razze. Sbaglia chi pensa che certi eccessi siano solo frutto di opportunismo o viltà. Il peggio è sempre frutto di un disegno ideologico.

Foto tratta da “Metz Yeghern. Mostra fotografica sul genocidio armeno al memoriale della Shoah”. Dal 27 aprile al 24 maggio, piazza Safra 1, Milano

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