Turchia, giornalisti e attivisti arrestati (Balcanicaucaso.org 21.06.16)

Ieri, 20 giugno, una corte di Istanbul ha disposto la custodia cautelare per tre attivisti turchi, Erol Önderoğlu, giornalista del portale Bianet e rappresentante nel paese di Reporters Without Borders; Şebnem Korur Fincancı, nota attivista per i diritti umani e presidente della Human Rights Foundation in Turchia e Ahmet Nesin, scrittore e giornalista indipendente.

I tre sono stati accusati di “propaganda terroristica” per avere partecipato ad una campagna contro la censura della stampa filo-curda in Turchia lanciata lo scorso 3 maggio nella Giornata mondiale per la libertà di stampa. L’iniziativa, chiamata “guest editor in chief campaign”, intendeva tenere alta l’attenzione sulla dura repressione che colpisce i media indipendenti nel paese, in particolare quelli che si occupano della questione curda costretti a subire quotidianamente forme dirette e indirette di censura.

In seguito all’inasprirsi del conflitto tra le forze di sicurezza e il PKK nella regione del Kurdistan turco, le autorità del paese hanno in diverse occasioni usato le maniere forti contro le voci critiche, colpendo oppositori, giornalisti indipendenti, accademici, intellettuali, avvocati e difensori dei diritti umani.

Per denunciare questa situazione, la storica e più importante testata curda, Özgür Gündem, ha aperto la propria redazione invitando intellettuali, giornalisti ed attivisti ad essere caporedattori per un giorno. Una bella iniziativa di solidarietà, a cui hanno risposto una quarantina di persone, 36 delle quali sono ora finite sotto indagine dopo che la magistratura turca ha aperto un fascicolo per “propaganda terroristica”.

Tra i tre arrestati c’è il giornalista di Bianet Erol Önderoglu, che conosciamo di persona in quanto collaboratore di Osservatorio nell’ambito del progetto “European Centre for Press and Media Freedom ”. Erol, voce nota in tutta Europa per il suo impegno per la libertà di stampa, rappresentante di Reporters Without Borders in Turchia dal 1996, è stato perseguito sulla base di tre articoli pubblicati sul giornale Özgür Gündem il 18 maggio 2016 che documentavano le lotte di potere tra diverse forze di sicurezza turche e le operazioni militari in corso contro il PKK nel sud-est dell’Anatolia.

Nelle ultime ore molte organizzazioni internazionali, come Reporters without Borders che ha lanciato l’appello #FreeErol , la rappresentante dell’Osce per la libertà di stampa Dunja Mijatović , la European Federation of Journalists hanno espresso solidarietà e vicinanza ai tre attivisti arrestati e condannato duramente l’attacco alla libertà di stampa in corso in Turchia.

La notizia è rimbalzata velocemente su Twitter attirando l’attenzione di intellettuali e società civile in Turchia e in tutta Europa. Il giornalista turco Yavuz Baydar, co-fondatore della piattaforma P24, the Platform for Indpendent Media, vincitore del premio European Press Prize ed editorialista del Guardian, ha dichiarato in un tweet che l’arresto dei tre attivisti significa la “totale criminalizzazione del giornalismo in Turchia”.

Secondo il Journalists Union of Turkey, l’unione sindacale dei giornalisti turchi, il paese sta vivendo l’ennesimo giorno nero nella storia della libertà di stampa. “È chiaro che si tratta di un arresto politico volto a mettere sotto pressione i giornalisti. […] Oggi è la solidarietà tra giornalisti ad essere stata arrestata”, scrive il sindacato in una nota pubblicata su Bianet . Preoccupate anche le parole di un altro sindacato dei giornalisti, il Press Labor and Journalists Association of Turkey, secondo cui “la decisione della corte fa presagire un futuro fosco per la libertà di espressione in Turchia. […] È evidente che – continua il sindacato – l’idea di associare il giornalismo alla propaganda terroristica stia indebolendo i media ledendone l’indipendenza. Il tentativo di uniformare le pubblicazioni e allinearle alle posizioni dell’egemonia governativa, viola il diritto dei cittadini ad essere informati. Ribadiamo, conclude il comunicato, che nonostante la repressione, non diventeremo giornalisti allineati”.

In serata ieri, è arrivata anche una breve dichiarazione dell’Alta rappresentante della Politica estera dell’Unione europea, Federica Mogherini e del Commissario alla politica di vicinato e negoziati per l’allargamento Johannes Hahn che hanno richiamato la Turchia a rispettare la libertà di stampa e a condurre processi giusti nel rispetto dello stato di diritto. “L’UE ha ripetutamente sottolineato che la Turchia, come paese candidato, deve aspirare ai più alti standard e alle più alte pratiche democratiche […] nel rispetto della Convenzione europea dei diritti umani. Una stampa libera, plurale e indipendente è essenziale in ogni società democratica”, conclude il comunicato.

Proprio oggi inizia la tre giorni a Roma del ministro turco per gli Affari Europei e capo dei negoziati per l’ingresso nell’UE, Ömer Çelik, che incontrerà il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, il Segretario agli affari europei Sandro Gozi e i presidenti delle Commissioni esteri di Camera e Senato. È previsto anche un incontro con la stampa italiana per affrontare temi come le relazioni Italia-Turchia e Ue-Turchia, la crisi migratoria, lo stato del processo sulla liberalizzazione dei visti e la lotta contro il terrorismo. La libertà di stampa e il rispetto delle minoranze non sembrano al momento all’ordine del giorno.

Questa pubblicazione è stata prodotta nell’ambito del progetto European Centre for Press and Media Freedom, cofinanziato dalla Commissione europea. La responsabilità sui contenuti di questa pubblicazione è di Osservatorio Balcani e Caucaso e non riflette in alcun modo l’opinione dell’Unione Europea. Vai alla pagina del progetto


 

TURCHIA: Il riconoscimento del genocidio armeno e le sue implicazioni internazionali (East Journal 21.06.16)

Negli ultimi 30 anni del secolo XIX, sotto l’Impero Ottomano, gli abitanti della provincia armena subirono continue rappresaglie da parte della popolazione con il tacito consenso delle autorità. L’interferenza russa nell’area in nome della solidarietà religiosa tra ortodossi diede il via dal 1890 ad un’escalation di violenze che culminarono tra il 1915 e il 1922 in una serie di deportazioni della popolazione armena in campi di prigionia, nei quali si consumò un massacro che si configura come il primo genocidio del secolo XX. In quei luoghi, nel deserto della Siria, perirono tra la fame e gli stenti un numero di civili che, secondo le stime più riduttive, varia da 600.000 a 1.000.000 di persone.
Non va neppure dimenticata la diaspora verso i paesi mediorientali, l’America e l’Europa, in particolare verso la Germania e la Francia. Solo a seguito dello scioglimento dell’Impero Ottomano e della creazione dell’URSS, l’Armenia ottenne un proprio spazio geografico e un’autonomia formale dal 1936.

Gli sviluppi

Nel corso dell’ultimo secolo il genocidio è stato riconosciuto da 27 paesi e, già durante gli anni nei quali i fatti si stavano consumando, in Germania si andava sviluppando una coscienza collettiva su quanto era in corso in Medio Oriente per mano di quello che, durante la prima guerra mondiale, era stato un alleato tedesco.
Nel 1921 a Berlino iniziò il processo a Soghomon Tehlirian, un ragazzo armeno che aveva sparato a uno dei leader dei Giovani Turchi, Talaat Pascià, provocandone la morte. Quel ragazzo aveva visto con i propri occhi il dramma che si stava consumando nella sua madrepatria e non aveva esitato, in sede processuale, a rendere partecipe degli avvenimenti sia la corte sia coloro che assistevano al processo. Il procedimento si concluse con l’assoluzione di Tehlirian, ma già in quella sede emersero le responsabilità e le indifferenze delle truppe tedesche d’istanza nei territori del Caucaso.

La situazione attuale

Il 2 giugno 2016 è arrivato il riconoscimento del genocidio armeno da parte del Bundestag tedesco e contemporaneamente sono state attribuite le ammesse responsabilità delle truppe che la Germania aveva stanziato nelle medesime aree in qualità di alleato dell’Impero Turco-Ottomano.
In risposta Ankara ha richiamato l’Ambasciatore a Berlino, e il ministro della Giustizia Bekir Bozdag è arrivato a chiedersi come chi “ha bruciato gli ebrei nei forni” possa poi arrogarsi il diritto di “accusare il popolo turco con calunnie di genocidio”.

Per la Turchia questo mancato riconoscimento è storicamente un motivo di tensione con altre nazioni, oltre che un ostacolo  per l’integrazione all’Unione Europea, ma allo stesso tempo un deterrente. Infatti sono spesso le minacce turche a mantenere vivi i rapporti transnazionali con molti Paesi, soprattutto nell’Europa dell’est; per questo in molti non hanno ancora preso le parti dell’Armenia.

Angela Merkel, dopo una lunga fase di rapporti bilaterali non disinteressati, ma resi necessari dalla presenza di circa 3 milioni di turchi in Germania, ha manifestato un forte interesse per la questione dell’ingresso di Ankara nell’Unione Europea.

Perché un improvviso interesse in tal senso? Probabilmente nella prospettiva di farsi promotrice dell’accordo sui migranti dello scorso marzo. Perché una tale virata dopo il precedente avvicinamento? Forse per distaccarsi da quell’immagine filo-turca attribuita dall’Europa e, nel contempo, dare un segnale al presidente turco riguardo la sua percezione di indispensabilità nella risoluzione della “questione migranti”.

Le prospettive

La decisione del parlamento tedesco sembra arrivare in maniera non casuale: dopo che l’accordo sui migranti è stato portato a termine con le resistenze di molti paesi dell’Unione, probabilmente a Berlino sta maturando la consapevolezza della necessità di un riavvicinamento a Bruxelles.
Le distanze con Ankara sembrano sempre più incolmabili: le trattative, che già procedevano a rilento, potrebbero subire un brusco arresto per il ruolo rilevante che avrebbe condotto la Germania.
Il contraccolpo rischia anche di ripercuotersi sull’unificazione di Cipro che si sarebbe potuta concludere già entro la fine del 2016.

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Papa Francesco in Armenia pregherà per le vittime del genocidio (Bergamonews 20.06.16)

Papa Francesco in Armenia, da venerdì 24 a domenica 26 giugno 2016, nel ricordo del genocidio armeno, riconosciuto ormai da una trentina di Paesi. Francesco è invitato da Karekin II, «Catholicos» degli armeni, dalle autorità civili e dalla Chiesa cattolica. E dal 30 settembre al 2 ottobre 2016 visiterà Georgia e Azerbajgian.

Quella armena è una Chiesa antichissima: la prima testimonianza risale al I secolo grazie alla predizione di Bartolomeo e Taddeo, due dei dodici apostoli. L’Armenia è la prima Nazione ad adottare il Cristianesimo: il re Tiridate III, convertito e battezzato, nel 301 dichiara il Cristianesimo «religione di Stato» che per l’Occidente farà Costantino nel 313 con l’«editto di Milano».

L’Impero Ottomano realizza una coabitazione pacifica tra i musulmani e i non musulmani: i cristiani sono considerati di «serie B» ma sono protetti dall’Islam in quanto «gente del libro» e monoteisti. Presso la Sublime Porta le minoranze religiose sono protette dalle potenze europee: la Francia tutela i cattolici, la Russia gli ortodossi, la Gran Bretagna i protestanti, gli Stati Uniti gli ebrei. La coabitazione regge fino a quando esplode il nazionalismo.

Il movimento nazionalista dei Giovani Turchi sostiene un patriottismo turco e islamico, soffoca i non musulmani, vede negli armeni dei pericolosi nemici. Alla vigilia della pri­ma guerra mondiale le potenze europee ritirano il personale diplomatico. I Giovani Turchi nell’aprile-maggio 1915 lanciano la pulizia etnica contro gli armeni: conversioni forzate al­l’Islam, deportazioni, uccisioni, torture, maltrattamenti. Oltre un milione e mezzo sono costretti nelle «marce della morte» e centinaia di migliaia muoiono di fame, malattia, sfinimento. Sovrintendono gli ufficiali tedeschi: è la «prova generale» della deportazione nazifascista degli ebrei durante la seconda guerra mondiale.

Terrificante il racconto del Patriarca «Catholicos» armeno Terzian in una lettera a Roma il 20 dicembre 1918: «I massacri non sono limitati in tale o tale località o provincia ma prendono in pre­testo le esigenze militari. Quest’atto del governo turco è organizzato con abilità diabolica per lo sterminio totale degli armeni, cominciando dai sacerdoti e vesco­vi. Prima attaccano gli ecclesiastici, poi il popolo senza distinzione tra colpevoli e innocenti: mandano tutti in Paesi lontani. Nel viaggio separano i sacerdoti dal popolo e gli uomini dalle donne. Fuori della città e dei villaggi aspettano i kurdi, i musulmani, briganti, organizzati e pronti per spogliare e ammazzare con i fucili, i bastoni, le scuri. Le donne e le figlie sono scelte alla loro voglia. Grida strazianti si alzano al cielo da quelle vastissime pianure, diventate un immenso cimitero di armeni».

Un bilancio tragico: centinaia di migliaia di morti e deportati; su 156 chiese e cappelle solo 20 risparmiate; delle 110 missioni se ne salvano 10; più della metà del clero è trucidato; 5 vescovi sono martirizzati, altri 3 muoiono di stenti; delle 15 diocesi solo 3 non sono distrutte. Prosegue il Patriarca: «Abbiamo sentito e pianto le numerose de­fezioni, ma siamo consolati che vescovi e sacerdoti hanno disposto i fedeli alla morte da martiri; hanno dato l’assoluzione generale, hanno consacrato il pane e l’hanno distribuito a tutti come viatico. Mons. Andrea Celebian, ve­scovo di Diarbekir, è stato sepolto vivo in un pozzo fino al petto e fucilato; mons. Ignazio Maloyan, arcivescovo di Mardin, è stato fucilato con i suoi sacerdoti fuori della città; mons. Michele Khaciadurian, ve­scovo di Malatia, è stato spogliato e inchiodato alle mani e piedi nel carcere, così anche i suoi sacerdoti».

A Roma Benedetto XV (1914-1922) e il segretario di Stato cardinale Pietro Gasparri, ben consapevoli dell’immane tragedia, dettano la regola aurea a cui si ispira da oltre un secolo l’azione della Santa Sede nei conflitti: aiutare tutti senza distinzione tra cattolici, ortodossi, protestanti, ebrei, musulmani.

Il Papa il 10 settembre 1915 scrive al sultano Mehmet V, capo dell’Impero Ottomano. Si dice convinto «che gli eccessi avvengono contro il volere del governo di Vostra Maestà»; chiede al sultano di intervenire a difesa del popolo armeno «il quale, per la reli­gione che professa, è spinto a mantenere fedele sudditanza verso la Maestà Vostra»; sollecita la punizione degli «armeni traditori o colpevoli di altri delitti ma non permetta Vostra Maestà, nell’altissimo suo senti­mento di giustizia, che nel castigo siano travolti gli innocenti». Ma il sultano, ostaggio dei Giovani Turchi, giustifica il genocidio.

Gasparri incoraggia i nunzi perché «con ogni delicatezza ma anche con grande energia» facciano presente ai governi che le leggi dell’umanità e della ci­viltà impongono un intervento per «far cessare la barbarie che disonora non solo chi la commette, ma anche chi, potendolo, non li impedisce».

Benedetto XV inventa la «diplomazia del soccorso» e mobilita la Santa Sede, i vescovi, il laicato e le comunità cattoliche. Una grandiosa organizzazione si oc­cupa dei combattenti: raccolta e trasmissione di notizie sui militari caduti, prigionieri, feriti; agevolazioni per il rimpatrio degli inabili; protezione dei detenuti nei campi di internamento; soccorsi alle popolazioni civili; invio di aiuti finanziari, vestiario e vettova­glie. Lo stesso avverrà con Pio XII e mons. Giovanni Battista Montini nella seconda guerra mondiale.

Scrive lo storico John F. Pollard in «Il Papa sconosciuto. Benedetto XV e la ricerca della pace» (2001): «Le sue opere di sostegno umanitario furono innumerevoli. Spese circa 82 milioni di lire, portando il Vaticano quasi alla bancarotta». Lo storico laicista e anticlericale Carlo Falconi ne «I Papi del ventesimo secolo» (1967) definisce quello di Benedetto XV «il più misconosciuto dei pontificati del secolo. Se c’è un pontificato che ha preparato e preannunciato il miracolo di Giovanni XXIII, il florido e raggiante contadino bergamasco, questo è quello di Giacomo della Chiesa, il fragile e contorto aristocratico genovese».

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Il Papa al memoriale degli armeni (Avvenire 20.06.16)

Papa Francesco sarà in viaggio in Armenia da venerdì 24 a domenica 26 giugno e in quei tre giorni farà visita alla capitale Erevan, a Gyumri, la seconda città armena e quella con la più folta comunità cattolica e infine Khor Virap, monastero armeno-apostolico, culla del cristianesimo armeno, a pochi chilometri dal confine turco.

Nel corso della visita al memoriale del genocidio armeno, a Yerevan sabato 25 giugno, Papa Francesco incontrerà un piccolo gruppo di discendenti dei perseguitati del Medz Yeghern, il grande male del 1915 come lo chiamano gli stessi armeni. Si tratta di «una decina di discendenti da perseguitati armeni a suo tempo accolti a Castel Gandolfo da Benedetto XV» ha spiegato il portavoce
vaticano, padre Federico Lombardi, nel corso di un briefing sul prossimo viaggio di Francesco (24-26 giugno).

Nel corso del briefing si è parlato anche della Dicharazione congiunta tra il Pontefice e il capo della Chiesa apostolica armena. Si è saputo ora che questa firma non ci sarà e sulla specifica questione, padre Lombardi ha risposto ai giornalisti: attualmente nel programma non c’è una Dichiarazione comune e la questione è aperta. Il portavoce aveva prima ricordato l’esistenza della precedente Dichiarazione Comune tra Giovanni Paolo II e Karekin II nel 2001, documento nel quale si parla di genocidio.

Come scrive il direttore del Sismografo, Luis Badilla si tratta del «14.mo pellegrinaggio internazionale di Francesco, 50 ore circa nella settima nazione asiatica visitata dopo Giordania, Palestina, Israele, Corea del Sud, Filippine e Sri Lanka, è solo la prima tappa di un viaggio nel Caucaso che include una seconda tappa: Georgia e Azerbaigian (dal 30 settembre al 2 ottobre, ndr), dal 30 settembre al 2 ottobre. Non si tratta di una precisazione marginale. Il Papa, infatti, ritiene che la sua presenza e missione pastorali hanno senso compiuto se portano la sua vicinanza e sollecitudine alle chiese e ai popoli protagonisti della storia, odierna e passata, dell’intera regione caucasica, cerniera tra l’Asia e l’Europa».

Il Papa pellegrino di pace ai piedi dell’Ararat (Famiglia Cristiana 20.06.16)

Ci va dal 24 al 26 giugno. Il viaggio del Papa in Armenia, un Paese di tre milioni di abitanti, in maggioranza cristiani (tra cui circa 160 mila cattolici)  richiama l’attenzione e l’interesse dei media mondiali su questo piccolo e marginale Paese – né Europa né Asia – che per molti anni,  se non secoli, era stato come cancellato dalle cartine geografiche del pianeta. Il poeta russo Osip Mandel’stam ha definito l’Armenia il “Paese delle pietre urlanti”, un’espressione concisa e fulminante per definire il destino di un popolo così pesantemente segnato dal genocidio, dalla diaspora, dalla negazione. La pietra richiama l’aspro e severo suolo armeno, ma anche l’animo fiero e resistente della sua gente, messa a dura prova dalla natura e dalla storia, che  è riuscita, malgrado tutto, a conservare viva la propria identità culturale e religiosa.

Cristianesimo, scrittura e lingua proprie sono state le chiavi di volta della sua sopravvivenza. Un patrimonio che dura da più di venticinque secoli. Fagocitato nel secolo scorso dall’Orso sovietico, l’Armenia ha potuto cominciare a risollevare la testa con la riconquista della sua indipendenza, resa lunga e complicata da condizioni economiche e sociali disastrose. Nessun peso politico. Poche risorse economiche. Pochissime ricchezze naturali. Ancora oggi le tristezze dell’epoca sovietica sono leggibili, come in un libro scritto,  sui palazzoni condominiali che fiancheggiano i grandi viali che escono dalla capitale, le cui facciate tristi  sono traforate da balconcini a raffica e  finestre ad alveari. E sono visibili nella ruggine e nell’abbandono in cui versano le grandi fabbriche e le enormi strutture industriali dismesse dopo il crollo del vecchio regime.

Ma l’Armenia è un popolo giovane, che non si piega sotto il peso delle sciagure e delle incertezze.  Gli attuali confini che delimitano l’Armenia la pongono in una situazione di  delicato e spesso precario equilibrio con le nazioni circostanti, che si muovono lungo traiettorie politiche e sociali divergenti da quelle perseguite dalla pacifica nazione armena. Il viaggio del Papa, al di là degli urgenti motivi ecumenici, vuole rendere  ragione della millenaria storia di civiltà, cultura e fede che l’Armenia ha saputo custodire fino ad oggi. Un popolo unico. Una storia unica.  

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Armenia-Azerbaigian: trilaterale a San Pietroburgo con Putin, impegno a progressi concreti verso pacificazione politica (Agenzianova 20.06.16)

Mosca, 20 giu 18:48 – (Agenzia Nova) – La Russia prova ad assumere un ruolo di mediazione diretta nel conflitto fra Armenia e Azerbaigian relativo alla regione contesa del Nagorno-Karabakh: il presidente Vladimir Putin ha accolto oggi a San Pietroburgo gli omologhi armeno e azero, rispettivamente Serzh Sargsjan e Ilham Alyev. Secondo quanto riferito dal ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov, i tre capi di stato hanno concordato sulla necessità di dare nuovo impeto al processo di pace nel Nagorno-Karabakh. “I presidenti dei tre paesi hanno concordato su una dichiarazione trilaterale che esprime l’impegno nel cercare progressi concreti per la pacificazione politica”, ha dichiarato Lavrov. L’incontro tripartito, secondo quanto riferito del Cremlino, si è svolto a porte chiuse. All’inizio della giornata il presidente della Federazione Russa ha tenuto due incontri separati con gli omologhi che il suo portavoce, Dmitrj Peskov, aveva definito all’inizio di questa giornata “non semplici”.

“La sfida principale ora è garantire che non riprendano i combattimenti”, ha dichiarato Peskov. L’iniziativa russa esula dal formato regolare dei negoziati, gestiti dal Gruppo di Minsk (composto da Stati Uniti, Russia e Francia), che si era riunito l’ultima volta lo scorso 16 maggio. Gli incontri separati sono stati, inoltre, un’occasione per discutere delle relazioni bilaterali fra i due paesi e la Federazione russa. Durante l’incontro fra Putin e Sargsjan, infatti, si è discusso dei rapporti fra Mosca ed Erevan e dell’interscambio commerciale, sottolineando in questo caso la situazione favorevole della cooperazione in campo economico.

“Durante la bilaterale abbiamo discusso in modo molto accurato di alcune questioni. All’inizio del nostro incontro in formato allargato vorrei dire che noi, nonostante tutte le difficoltà dell’economia locale e globale, stiamo osservando un incremento del fatturato. Si può dire che sono aumentate significativamente, e di alcune volte, le forniture di prodotti agricoli al mercato russo da parte armena. La cosa ci rende molto felici. Spero che questa tendenza si verificherà nell’interscambio di tutte le materie prime sensibili per noi”, ha dichiarato il presidente russo, secondo cui “si può osservare che nel quadro del processo di integrazione i rapporti bilaterali si stanno sviluppando più intensamente di quanto non fosse in precedenza su base bilaterale”.

Il presidente armeno Sargsjan ha riportato il discorso sulla questione del Nagorno-Karabakh. “Dal momento che l’incontro è principalmente dedicato al Nagorno-Karabakh, non voglio soffermarmi sull’ordine del giorno delle nostre questioni bilaterali. In tutti i settori la comunicazione è rafforzata, infatti, non c’è alcun problema”, ha affermato Sargsjan, aggiungendo: “La nostra posizione sul Karabakh è nota a tutti: vogliamo che il problema sia risolto pacificamente. Voglio ringraziare voi e gli altri dirigenti del Gruppo di Minsk per l’attenzione e lo sforzo che riponete in tale questione”. Tuttavia, per volontà di una delle parti in causa, ha detto il presidente armeno, “questi conflitti non possono essere risolti. E saremmo certamente felici se oggi si fosse in grado di andare avanti sull’attuazione degli accordi che abbiamo raggiunto a Vienna, ovvero sulla creazione di meccanismi per indagare le violazioni del cessate il fuoco. Questo creerebbe uno stato d’animo favorevole alla negoziazione”.

Durante l’incontro fra il presidente russo e l’omologo azero Alyev, oltre alle modalità di soluzione del problema nella regione contesa del Nagorno-Karabakh, si è discusso dello stato delle relazioni bilaterali e della cooperazione in campo umanitario. “Il problema per il quale ci siamo riuniti è ben noto (…) il problema del Nagorno-Karabakh. Ma vorrei approfittare del nostro incontro e per parlare delle relazioni bilaterali. E soprattutto, sullo sfondo del Forum economico di San Pietroburgo appena concluso che vorrei sottolineare che, a causa di motivi a noi noti, purtroppo abbiamo riscontrato un declino dell’interscambio, nel corso dell’ultimo anno e di quello attualmente in corso, dove si riscontra anche un crollo dei prezzi dell’energia”, ha dichiarato il presidente russo. “Vorrei approfittare del nostro incontro di oggi per parlare di tutto ciò che riguarda i nostri rapporti bilaterali, compresi gli aspetti umanitari”, ha detto Putin.

Il presidente azero ha ringraziato l’omologo russo per l’invito e si è congratulato per il successo del Forum economico appena concluso ricordando che nel corso dell’evento “è stato firmato un documento sulla creazione in Azerbaigian di un grande impianto energetico, che sarà in parte finanziata da una banca russa”. Alyev ha proseguito il discorso sul tema principale dell’incontro. “Il tema dei colloqui di oggi è la soluzione del conflitto armeno-azero del Nagorno-Karabakh. Vi ringrazio per aver preso l’iniziativa di tenere una riunione, così come per il ruolo costruttivo che la Russia gioca nella questione. Il conflitto si è trascinato a lungo. Come dichiarato dalle autorità russe e dagli altri co-presidenti del Gruppo di Minsk dell’Osce, lo status quo è inaccettabile. Sosteniamo pienamente questa affermazione. Ma affinché lo status quo sia cambiato, c’è bisogno di avviare la liberazione del territorio azero, che è sotto occupazione da oltre 20 anni”, ha detto il presidente dell’Azerbaigian, il quale ha poi affrontato il tema sollevato dall’omologo russo sul calo dell’interscambio.

“Credo che il calo del fatturato sia un fenomeno temporaneo. Siamo alla ricerca di modi per farlo ripartire. Abbiamo anche una collaborazione attiva nel settore dell’energia e buone prospettive per la cooperazione nel settore dei trasporti”, ha aggiunto Alyev. A Vienna il 16 maggio, si è svolto un incontro tra i presidenti di Armenia e Azerbaigian con la partecipazione dei ministri degli esteri dei paesi co-presidenti del Gruppo di Minsk (Stati Uniti, Russia e Francia). Armenia e l’Azerbaigian il 2 aprile scorso avevano lamentato reciproche aggressioni lungo la linea di confine. In particolare il ministero della Difesa azero aveva denunciato dei bombardamenti attuati dalle Forze armate dell’Armenia, mentre il ministero della Difesa di Erevan aveva riferito di “azioni offensive” dal lato azero.

L’aggravarsi della situazione ha subito una battuta d’arresto con il cessate il fuoco del 5 aprile. Tuttavia, periodicamente emergono reciproche accuse di attacchi. Il conflitto tra Armenia e Azerbaigian per l’area contesa è iniziato nel febbraio 1988, quando la regione autonoma del Nagorno-Karabakh ha dichiarato la propria indipendenza dalla Repubblica sovietica dell’Azerbaigian. Nel settembre 1991, a Stepanakert – autoproclamata capitale – è stata annunciata la costituzione della Repubblica del Nagorno-Karabakh. Nel corso del conflitto sorto in seguito alla dichiarazione unilaterale di indipendenza, l’Azerbaigian ha perso de facto il controllo della regione: Stepanakert, infatti, conta poco più di 50 mila abitanti, tutti di origine armena, dato che quelli di origine azera sono stati costretti a lasciare la città in seguito al conflitto.

Dal 1992, proseguono i negoziati per la soluzione pacifica del conflitto all’interno del Gruppo di Minsk, formato che opera sotto l’egida dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce). L’Azerbaigian insiste sul mantenimento della sua integrità territoriale, mentre l’Armenia protegge gli interessi della repubblica separatista, dal momento che la Repubblica del Nagorno-Karabakh, in quanto non riconosciuta come entità statale, non fa parte dei negoziati. (Rum)

Calcio Lecco, arriva dall’Armenia il nuovo padrone? (Leccotoday.it 20.06.16))

Calcio Lecco, arriva dall’Armenia il nuovo padrone?

Vengono a galla i nomi, anzi il nome, del potenziale acquirente interessato alla Calcio Lecco 1912. Si tratta di un imprenditore armeno che risponde al nome di Zareh Bezikian, figlio del magnate Alecco e Annie Bezikian (nella foto, ndr), residente a Bergamo ma con forti interessi commerciali a Lugano.

La sua attività gli ha permesso di conoscere e poi sposare Maria Ludovica Fausti, figlia della stilista Tiziana, facoltosa manager al top dell’Italian Luxory E-Commerce nel campo dell’Alta Moda.
Recentemente impegnato in un’apertura proprio a Lugano, Bezikian è stato contattato da Sandro Meregalli, la cui azienda progetta e vende gestionali dedicati proprio a questo tipo di attività commerciali.

E non sarebbe nemmeno la prima esperienza nello sport per l’imprenditore armeno, che in passato ha effettuato delle donazioni in favore dell’Hockey Lugano.

Stando alle indiscrezioni, in settimana Bezikian sarà in città per visionare i conti della Calcio Lecco 1912, dopodiché si capiranno le sue intenzioni sulla prosecuzione della trattativa.

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Il Papa nel Caucaso: al centro la preghiera ecumenica per la pace (La Stampa 20.06.16)

luis badilla

Roma

Importante e pieno di significati, ma al contempo singolare, il viaggio che Papa Francesco compirà in Armenia tra venerdì 24 e domenica 26 prossimi, dove farà visita alla capitale Erevan, a Gyumri, la seconda città armena e quella con la più folta comunità cattolica e infine Khor Virap, monastero ameno-apostolico, culla del cristianesimo armeno, a pochi chilometri dal confine turco. Questo 14.mo Pellegrinaggio internazionale di Francesco, 50 ore circa nella settima nazione asiatica visitata dopo Giordania, Palestina, Israele, Corea del Sud, Filippine e Sri Lanka, è solo la prima tappa di un Viaggio nel Caucaso che include una seconda tappa: Georgia e Azerbaigian, dal 30 settembre al 2 ottobre. Non si tratta di una precisazione marginale. Il Papa, infatti, ritiene che la sua presenza e missione pastorali hanno senso compiuto se portano la sua vicinanza e sollecitudine alle chiese e ai popoli protagonisti della storia, odierna e passata, dell’intera regione caucasica, cerniera tra l’Asia e l’Europa. Così, tra l’altro è stato rilevato nel comunicato ufficiale della Sala stampa vaticana che annunciò ufficialmente le due tappe allo stesso tempo sebbene che tra le due trasferte ci sia un «intermezzo» di due mesi. Nel testo si diceva: «Accogliendo gli inviti di Sua Santità Karekin II, Supremo Patriarca e Catholicos di tutti gli Armeni, delle Autorità civili e della Chiesa Cattolica, Sua Santità Francesco si recherà in Armenia dal 24 al 26 giugno 2016. Allo stesso tempo, accogliendo gli inviti di Sua Santità e Beatitudine Ilia II, Catholicos Patriarca di tutta la Georgia, e delle Autorità civili e religiose della Georgia e dell’Azerbaigian, il Santo Padre completerà il Suo viaggio apostolico nel Caucaso, visitando questi due Paesi dal 30 settembre al 2 ottobre 2016».

L’espressione «completerà» evidenzia che il Pellegrinaggio è stato concepito e organizzato includendo in una sola dimensione il magistero itinerante nel Caucaso. 

In questi viaggi Papa Francesco farà visita a Paesi che insieme hanno 17 milioni di abitanti circa. I cattolici complessivamente sono il 3,6% dei credenti e, in pratica, sono presenti solo in Armenia e Georgia. Sono questi tre Paesi le principali entità statali del Caucaso insieme con i territori caucasici della Federazione Russa. La situazione della regione è molto complessa dal punto di vista geopolitico e la sua storia è molto travagliata, con momenti di feroce violenza. Francesco si recherà quindi nuovamente in una regione del mondo che fa parte di quella periferia dove numerosi equilibri politici, delicati e precari, s’intrecciano con interessi economici di grande rilievo non solo per la regione ma anche per l’Europa Centro Orientale e per il Medio Oriente. Si tratta di una zona sì periferica, ponte tra Europa e Asia, che però non deve essere ritenuta marginale, quasi superflua o ininfluente. Come nei Paesi africani visitati nel novembre 2015, come a Lesbo e a Lampedusa, si tratta di aree-crocevia; zone, piccole o grandi, in cui si articolano interessi economici, geopolitici e culturali nonché situazioni di crisi che – pur non godendo spesso di una adeguata copertura mediatica – hanno dei riflessi non secondari tanto in Occidente quanto in Oriente.

In questo contesto acquistano particolare rilevanza alcuni eventi del programma attraverso i quali la missione pastorale di Francesco desidera essere chiara ed eloquente oltre alle parole. Tra questi momenti si devono sottolineare gli Incontri con i vescovi della Chiesa armeno apostolica e in particolare con il Catholicos Karekin II, del quale il Pontefice sarà ospite nel Palazzo di Etchmiadzin, l’unica Celebrazione Eucaristica a Gyumri sulla Piazza Vartanants, la Visita e Preghiera ecumenica per la pace al memoriale del genocidio armeno (Tzitzernakaberd).

All’esterno del Memoriale il Papa Francesco deporrà una corona di fiori. Sul luogo vi saranno gruppi di bimbi e ragazzi e alcuni discendenti dei 400 bambini che dal 1919, per diversi mesi, furono ospitati e accuditi nelle Ville Pontificie di Castel Gandolfo ai tempi di Papa Benedetto XV e Papa Pio XI. Nella Camera della Fiamma Perenne si svolgerà una breve cerimonia religiosa con canti e letture. Seguirà prima la Preghiera del Catholicos in lingua armena e poi quella del Santo Padre in italiano. Infine, altri canti e la recita del Padre Nostro precederanno la Benedizione congiunta. Una simile Preghiera ecumenica per la Pace sarà presieduta poi ad Erevan, sulla Piazza della Repubblica con due discorsi: del Catholicos e di Francesco. Infine, a pochi chilometri dal confine turco, di fronte al Monte Ararat, il Pontefice e Karekin II, insieme si recheranno al Monastero Khor Virap e insieme scenderanno nella Sala del Pozzo di s. Gregorio l’Illuminatore dove Francesco accenderà una candela recandosi poi in processione alla vicina piccola Cappella. In questo luogo il Catholicos consegnerà al Santo Padre una fiaccola. Da parte sua il Santo Padre offrirà un suo dono al Monastero. Seguirà una Preghiera per la pace in armeno e in italiano. Al termine, dal terrazzo del belvedere, il Santo Padre e il Catholicos libereranno due colombe bianche.

Il Caucaso, mediaticamente, è molto visibile periodicamente a causa del conflitto per la regione chiamata l’Alto Karabakh (Nagorno-Karabach), tra Armenia e Azerbaigian, ma ci sono altre situazioni di tensione: l’Abcasia, l’Ossezia, nonché altre minori, ma sempre insidiose. Dopo una lunga relativa calma che dura dal 1994, nella regione, attraversata da oleodotti e gasdotti, lo scorso aprile si è riaperta la questione del Nagorno-Karabach e dopo alcuni scontri – con almeno 12 morti – i Presidenti dei due Paesi (Serž Sargsyan e İlham Əliyev, rispettivamente) a Vienna, sotto l’egida dell’ONU hanno firmato una tregua, il 16 maggio scorso, che momentaneamente regge.

Questo conflitto ebbe inizio nel 1923 quando l’enclave popolata in prevalenza da armeni cristiani fu assegnata all’Azerbaigian musulmano. La guerra si prolungò fino al 1994 e fu definita il primo conflitto etnico-religioso nel regime sovietico che si vantava invece di aver vinto i nazionalismi. I morti furono oltre 30mila. Dall’Armenia furono espulsi migliaia di azeri e dall’Azerbaigian migliaia di armeni. Dal 1994 sono in corso negoziati, promossi dal Gruppo di Minsk (creato dall’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa – Osce – per monitorare il cessate il fuoco, guidato da Francia, Russia e Stati Uniti). Formalmente l’enclave resta azera, di fatto è indipendente, con forti legami però con l’Armenia. L’Armenia è sostenuta, in questa sua lotta politica, dal suo numeroso popolo sparso in tutto il mondo dopo il genocidio del 1915 e dalla Russia. L’Azerbaigian è sostenuto soprattutto dalla Turchia.

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Armenia, il sogno della pace. Viaggio nel più antico paese cristiano del mondo che tra pochi giorni accoglierà il Papa (Il Messaggero 20.06.16)

L’Ararat è laggiù, un fermo immagine sullo sfondo. Ovunque si vada,  la montagna sacra sovrasta il panorama armeno come una specie di fondale incantato. La neve sulla cima, l’azzurrino della sagoma imponente. Quasi un miraggio. È l’immensa montagna dell’arca di Noè, dove tutto è iniziato, secondo il racconto della Genesi, dopo il Diluvio Universale (“Nel settimo mese, il diciassette del mese, l’arca si posò sui monti dell’Ararat”).

La tradizione biblica in Armenia si intreccia con la storia del suo popolo. Il “Paese delle pietre urlanti”, viene chiamato, per  evocare i Khatchkar, le grandi croci incise come ricami  di tufo sulle steli di cui è disseminato il territorio e che nessuno è mai ancora riuscito a distruggere o a rovinare. Son lì a sfidare il tempo.  Una tradizione, quella di lavorare la pietra, iniziata a partire dai primi secoli, dall’introduzione del cristianesimo,  visto che l’Armenia è stata la prima nazione al mondo a convertirsi e ad adottare questa fede come religione di Stato, nel 301, anticipando di dodici anni la svolta dell’imperatore Costantino.

Da quel momento, inizia a prendere piede l’inconfondibile architettura religiosa, maestra nell’intagliare le pietre. Restano perfetti, integri, diversi monasteri scolpiti e scavati nella roccia, gioielli di cui è disseminato il territorio, aggrappati a strapiombi o a panorami di una bellezza mozzafiato. Alla fine di questo mese, dal 24 al 26 giugno, l’Armenia si prepara ad accogliere Papa Francesco. «È una visita che noi stiamo preparando per dirgli grazie. Un grazie dal profondo del cuore per avere avuto il coraggio di parlare del genocidio l’anno scorso, a san Pietro, durante la messa per le vittime», hanno commentato all’unisono  il vescovo cattolico, Minassian  e quello gregoriano Mikael Ajapahian.

Le vicende del 1915, lontane un secolo,  pesano ancora sull’anima dei questo popolo sopravvissuto. L’Armenia, 3,5 milioni e mezzo di abitanti su un territorio grande quanto la Lombardia, guarda avanti fiduciosa e resiste puntando molto sul turismo. Spagnoli, italiani, francesi, americani ma sempre di più anche comitive di giapponesi e cinesi. Una risorsa destinata ad avere un peso sempre maggiore nell’economia. Basta vedere gli investimenti che attrae il comparto. Per esempio le grandi catene alberghiere, ultima delle quali Radisson.

DIPLOMAZIA
Quasi il 50 per cento delle spese del bilancio statale finiscono per forza di cose al ministero della Difesa, per finanziare gli armamenti necessari a vigilare sulla frontiera turca e quella azera. Deterrenti inevitabili per la sicurezza del Paese. Come se il passato per gli armeni non passasse mai. Naturalmente, l’aspetto religioso non c’entra granché, eppure è difficile ignorare che ancora una volta un Paese tradizionalmente cristiano viene isolato sullo scenario internazionale, stretto com’è tra due nazioni musulmane. Da una parte la Turchia, dall’altra l’Azerbaigian. Calcoli economici e politici, il gas azero, gli idrocarburi, l’egemonia di Ankara, nodi diplomatici irrisolti sin dai tempi della fine della prima guerra mondiale.

Con buona pace di tutti, due trattati, quello di Sevrès e quello di Losanna, rispettivamente nel 1921 e nel 1923, hanno sepolto la giustizia. Da allora in poi divenne tabù riaprire il tema della causa armena, ovvero lo sterminio di massa pianificato a tavolino dal triumvirato Enver-Talat-Djemal, costato la vita a quasi due milioni di armeni che fino ad allora vivevano pacificamente sotto l’impero ottomano, per appropriarsi dei loro beni attraverso una legge. Eppure la memoria, essendo scriba dell’anima, come diceva Aristotele,  è destinata prima o poi a riemergere. Impossibile da soffocare. Così chi arriva a Yerevan, capitale di 1,5 milioni di persone, non può che iniziare con la visita al Memoriale del Genocidio, una sorta di Yad Vashem. Steli di pietra reclinati su un fuoco perenne che arde in un braciere ricordano tanti volti. Le marce nel deserto, la perdita della patria amata, i campi di concentramento nel deserto di Deir es Zor, oggi territorio siriano. Poi i massacri dei bambini piccoli, mentre invece quelli più grandicelli venivano venduti come schiavi al mercato al costo di un montone. Le bambine armene facevano le stessa fine che fanno oggi tante bambine yazide nelle mani dei miliziani dell’Isis.

Armenia, migliaia da città e villaggi saranno alla Messa del Papa (Radio Vaticana 20.06.16)

Di città in villaggio per mobilitare le persone nell’accoglienza del Papa. Da mesi, la Chiesa armeno-cattolica sta preparando con visite capillari e complesse la macchina organizzativa in vista del viaggio apostolico che Francesco compirà in Armenia questo fine settimana. A descrivere l’impegno messo in campo e i sentimenti della gente è un sacerdote della Chiesa locale. Il servizio di Davide Dionisi:

Ha percorso chilometri e chilometri per registrare migliaia di adesioni in vista della visita di Papa Francesco. Padre Karnik Youssefian sacerdote armeno cattolico della parrocchia di San Giuseppe a Kamishlié, nell’estremo nordest della Siria, fuggito d a seguito delle persecuzioni dell’Isis, oggi è a Gyumri e nei mesi scorsi ha visitato tutti i villaggi armeni per raccogliere i nomi dei partecipanti alle celebrazioni presiedute dal Papa e, nel frattempo, ha convinto circa 400 ragazzi ad andare a Cracovia per la Gmg.

R. – Ormai da più di un mese stiamo preparando questa visita storica per l’Armenia. Devo dire che ci sono tante cose da fare: abbiamo raccolto in molti villaggi armeni i nomi e i cognomi della gente che verrà a partecipare alla Santa Messa del Santo Padre. Fino ad ora siamo arrivati a quasi 18 mila fedeli, tranne quelli che verranno da fuori – dall’estero – che sono 2.000. Quindi ci saranno più o meno 20 mila persone alla Messa del Santo Padre. Devo dire che i preparativi sono difficili, perché per arrivare nei villaggi e scrivere tutti i nomi ci abbiamo messo un mese e anche di più.

D. – Cosa vi aspettate che il Papa dica, e cosa vi aspettate da questa visita?

R. – Essendo armeno siriano, della Siria, la prima cosa che desidero è la pace: che ci sia in tutto il mondo, ma specialmente in Siria, dove sono nato. E poi, speriamo che si avvicinino di più le due Chiese, quella armeno-apostolica e quella cattolica, in tutto il mondo.

D. – Un episodio particolare che l’ha colpita durante questa fase di preparazione, o anche un aneddoto che vuole raccontarci durante questa fase preparatoria…

R. – Tanti vogliono proprio vedere il Papa e poi salutarlo prendendogli la mano: tutti hanno questo desiderio, anche se credo sia un po’ impossibile riuscirci… Ma la gente ha proprio questo desiderio: di stare vicino al Santo Padre almeno per salutarlo.

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