Siria, strage di civili. Un sacerdote armeno: è genocidio (Radiovaticana.va 06.05.16)

Violenti scontri sono ancora in corso nel nord della Siria tra forze governative e ribelli anti-Assad nei pressi di Khan Touman, a sud di Aleppo, vicino l’autostrada per Damasco. Il villaggio nelle ultime ore sarebbe stato conquistato dai ribelli, secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani, che parla di oltre 70 vittime nella battaglia. Ad Aleppo città sono ore di attesa, dopo l’entrata in vigore della tregua decisa da Stati Uniti e Russia. Intanto cresce lo sdegno per gli oltre trenta profughi, tra cui donne e bambini, rimasti uccisi in un raid aereo – attribuito ai governativi o a velivoli russi – che ha colpito il campo di accoglienza di Kammuna, nel nord-ovest del Paese, poco lontano dal confine turco. Per una testimonianza da Aleppo, Giada Aquilino ha raggiunto telefonicamente il sacerdote armeno cattolico, padre Elias Janji:

R. – Hanno buttato tante bombe su di noi. Si può parlare di “genocidi”, soprattutto per quanto riguarda gli ospedali colpiti, tanta gente è morta, tanta gente non ha più una casa. Una situazione veramente terribile. Soprattutto negli ultimi 5-6 giorni che abbiamo vissuto qui.

D. – Ma in queste ore in città la tregua regge?

R. – Adesso si può dire di sì. La scorsa notte abbiamo sentito delle voci, non so da dove venissero, ma adesso c’è calma.

D. – Invece i combattimenti si sono registrati a sud di Aleppo, nel villaggio di Khan Touman, riconquisto – pare – dai ribelli. Che rischi ci sono per la zona?

R. – La zona di Aleppo è stata sempre un centro in cui dialogare, soprattutto anche per noi cristiani. Prima i cristiani era presenti in gran numero ad Aleppo, adesso c’è soltanto il 20 per cento di loro. E questo è un grande rischio.

D. – Nelle scorse ore ancora un raid ha colpito un campo profughi. E’ successo al confine con la Turchia e ha ucciso anche dei bambini. C’è dietro una strategia?

R. – Il problema è che adesso noi viviamo una situazione che non è molto chiara per il resto del mondo: non c’è qualcuno che parla per noi, che dice a nome nostro quale sia realmente la nostra situazione. La realtà è che noi abbiamo il petrolio, il gas e questo è ciò che intessa alle maggiori forze del mondo.

D. – Più volte il Papa si è pronunciato su questo conflitto che miete vittime anche tra i più piccoli, tra i malati, tra i soccorritori. Allora qual è l’appello che parte da Aleppo?

R. – La prossima domenica faremo una preghiera internazionale, per la città ferita di Aleppo. Quello che hanno detto tutti i vescovi è: “Per favore, pregate per noi, pregate perché Aleppo è una città ferita”. Non abbiamo né l’elettricità né l’acqua, abbiamo veramente bisogno di vivere una situazione di pace e di fermare questi bombardamenti, perché tanti di noi – davvero tanti – sono già stati uccisi: tanti bambini e tanti giovani. Ripetiamo ciò che hanno detto i vescovi: “Basta guerra”! Dovremmo avere la nostra pace: quella pace che è la cosa più importante per noi adesso.

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Sogni di pietra, uno scrittore azero per la pace con gli armeni (Eastjournal.net 06.05.16)

di Margherita Cittadino

Privato del titolo di “Autore del popolo” e della pensione, sottoposto a minacce e ritorsioni, dichiarato “apostata”, violentemente attaccato ed insultato in pubbliche manifestazioni che sfociarono persino nel rogo dei suoi testi: a tutto ciò fu (ed è) soggetto lo scrittore azerì  Akram Aylisli dal 2013 anno di pubblicazione del suo romanzo Sogni di Pietra (Guerini e associati, Milano, 2015, 131 pagine).

Una testimonianza dolorosa ed importante di un confronto, ma molto più spesso scontro, tra due popoli, armeno e azero in secolare e complessa convivenza. Aylisli propone una lettura che solo all’apparenza suona “filo-armena” nel trattare cruciali momenti del rapporto fra le due genti caucasiche, trascendendo schieramenti e pertanto forme di ottuso nazionalismo per invitare alla messa in discussione delle presunte ragioni di entrambe le parti. Il fine ultimo, così dichiarato dall’autore, è fare appello alla fratellanza fra le due nazioni in conflitto, provando a riconoscere il torto proprio, ancor prima che dell’altro e rivelando verità complicate da accettare.

Il racconto dell’autore si dipana su piani temporali differenti muovendo dall’anno della narrazione, ovvero il 1989, e procedendo a ritroso nella riscoperta onirica dei ricordi legati all’infanzia del protagonista Sadaj Saydigly. Il luogo “presente”, di partenza, per così dire, è lo stato di degenza comatosa di Sadaj, in seguito ad un violento attacco da parte di un gruppo di fanatici azeri quando questi tentò di soccorrere un vecchio armeno anch’esso brutalmente ferito.

Ed è proprio in relazione a tale “presente” che il protagonista non viene più a riconoscersi nella quotidianità della tragedia (inter)nazionale generatasi nella critica realtà post-sovietica. Egli si percepisce moralmente estraneo ai coevi meccanismi di violenza verso l’altro, alla corruzione dilagante fra la classe dirigente che “castra l’anima del popolo”, costringendolo al servilismo e ad un’obbedienza pedissequa, dissociandosi al tempo stesso anche dalla massa compatriota, bestie feroci che solamente in “branco” si sono guadagnate il diritto alla parola e all’atto. A questo primo luogo/tempo si interseca una dimensione di sogno/ricordo in cui egli peregrina in ricerca di un’armonia e dove un nodo di paesaggi, figure, e parole del passato si viene a districare.

La città di Ajlis, nella regione politicamente azera del Nakhichevan, dov’egli trascorse la sua infanzia, è il luogo mistico del suo approdo. La piccola cittadina testimonia la condivisione di esperienze storiche, psicologiche e quotidiane della sua gente composita nel vivace affresco di un idillio, sempre tuttavia effimero e rivelante i non troppo antichi fantasmi della tragedia del Genocidio. Ajlis, con le sue maestose chiese in pietra, permeata di luce, è manifestazione nobile della ricchezza di una Cultura Unica, originata dal lavoro, dall’intelligenza e dalla fede in un Dio, poco importa quale.

L’attenzione empatica nei riguardi del popolo armeno da parte di Aylisli, l’esplicita ammirazione della sua stoica resistenza dinnanzi ai molteplici drammi del loro travagliato passato storico, sottolineando la piena responsabilità dei suoi connazionali in eventi di efferata brutalità verso il Vicino Cristiano: tutti elementi che  hanno portato ad instaurare un’associazione di Aylisli con la presa di posizione ed  il destino di Orhan Pamuk, il quale riconobbe il coinvolgimento del governo dei Giovani Turchi – fino ad allora negato – nel Genocidio: colui che propende ad “esser schiavo di una parola onesta, piuttosto che signore della menzogna” , perde il proprio Paese.

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Orhan Pamuk: “In Turchia clima di paura, il potere mette a tacere oppositori e giornalisti, l’Europa si faccia sentire” (La Repubblica 05.05.16)

In Turchia clima di paura, il potere mette a tacere oppositori e giornalisti, l’Europa si faccia sentire.

“Di solito sono il tipo che dice ‘va bene, parliamo, ma solo di letteratura’. Però, adesso, come si fa? Non è più possibile. Andiamo, parliamo di politica». Grande scrittore, uomo coraggioso. Orhan Pamuk, 64 anni, premio Nobel per la Letteratura 10 anni fa, massimo autore turco già minacciato di morte in passato per le sue dichiarazioni sul genocidio degli armeni e il massacro dei curdi, non si schermisce con Repubblica dietro comodi paraventi e anzi parla a lungo della complessa situazione che attanaglia la Turchia. Il narratore de “La stranezza che ho nella testa” (ultimo suo romanzo pubblicato da Einaudi) ha appena finito di accompagnare nell’aula del tribunale di Istanbul il decano degli intellettuali, Murat Belge, altro sommo saggista, poco conosciuto in Italia purtroppo, e autore invece tra i suoi molti libri bellissimi di un monumentale studio sui militari turchi. Ora Belge è accusato addirittura dal Presidente della Repubblica, il conservatore islamico Recep Tayyip Erdogan, di averlo insultato nei suoi articoli firmati sul quotidiano Taraf. «Ma figuriamoci – attacca Pamuk – conosco benissimo Belge, è uno degli studiosi più importanti del nostro Paese, oltre che un mio amico personale. Leggo i suoi articoli da almeno 50 anni e ho sempre imparato molto da lui».

E il punto vero dell’accusa qual è, allora? «Che tutto ciò non ha nulla da fare con insultare il Capo dello Stato. Ma riguarda solo il fatto di silenziare l’opposizione politica e colpire la libertà di pensiero. Riguarda l’intimidire la gente e il mettere paura al Paese. Così che nessuno possa criticare il governo»

Lei che cosa teme? «Io per me nulla. Non ho paura per me. Ho paura per il mio Paese. Ho paura per i miei amici, per i turchi laici, colti, filo europei».

E per loro la libertà di espressione è sempre più difficile in Turchia? «Ma io sono molto preoccupato pure per la libertà di stampa. La paura tocca i giornalisti che criticano il governo, e vengono minacciati, licenziati, i loro quotidiani chiusi. Negli ultimi anni il nostro governo pro-Islam sta perdendo la sua faccia liberale. Sta diventando sempre più autoritario e repressivo».

Ma lei tutto questo lo sa, ci è già passato, no? «Sì, però sono davvero stufo di andare nei tribunali a difendere me stesso o i miei amici. Qui parlano tanto della nuova Turchia. Questa sarebbe la nuova Turchia: la continuazione della vecchia! Con gli scrittori alla sbarra».

I casi adesso sono tanti: ben duemila persone, fra cui anche studenti, accusate di avere insultato il Presidente e chiamate a risponderne in tribunale. Murat Belge è solo l’ultimo esempio. C’è anche il caso del famoso inviato di politica internazionale Cengiz Candar, che rischia anni di carcere per lo stesso motivo. O del direttore del quotidiano Cumhuriyet, Can Dundar, per il suo scoop sulle armi in Siria protette dai servizi segreti turchi. Sembra un’onda che cresce, e nessuno riesce a fermare. Che cosa accadrà ancora? «Guardi, non mi chieda per favore che cosa succederà in futuro. Quello che sta accadendo nel presente è già abbastanza deprimente».

Oggi però la Turchia ha appena concluso un accordo importante per la liberalizzazione dei visti di ingresso con l’Europa. Questo le piace? «Sì, sono contento di questo passo per l’intesa sui visti. Ma dall’altra parte mi fa arrabbiare che si possano causare ulteriori disaccordi fra un governo turco sempre più repressivo e l’Unione Europea, perché è un’intesa difficile da realizzare. Sembra che gli europei non solo non vogliano vedere intorno a loro siriani e asiatici, ma adesso pure curdi e turchi. E questa non è una bella sensazione!».

Che cosa dovrebbero fare i Paesi europei? «Ma intanto dovrebbero prendere una posizione più dura con la Turchia proprio sulle violazioni dei diritti umani».

Però sui migranti stanno cercando in tutti i modi di accordarsi con Ankara. «Io spero che i leader europei, quando stringono le mani di quelli turchi, occasionalmente gli ricordino la libertà di espressione… La cancelliera tedesca Angela Merkel e gli altri dirigenti d’Europa non dovrebbero concentrarsi solo sulla questione dell’immigrazione e dei rifugiati in Turchia, ma anche affrontare con il nostro governo il problema della democrazia».

Benissimo. Ma proprio sulla crisi dei profughi l’Europa come si sta comportando per lei? «L’Europa con i muri che costruisce intorno a sé erode i suoi criteri di valore».

E la Turchia? «Sul punto dei rifugiati non posso davvero biasimare il nostro governo. Non posso dare nessuna colpa. Per molto tempo Ankara è stata lasciata sola ad affrontare il peso di milioni di migranti giunti dall’estero: li ha aiutati. Da sola. L’atteggiamento della Turchia su questo fronte merita tutte le lodi».

(Marco Ansaldo/Repubblica 5 maggio 2016)

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Genocidio armeno. L’orchestra sinfonica di Dresda le suona alla Turchia (e alla molle Europa) (Tempi.it 05.06.16)

Auditorium strapieno e 15 minuti di standing ovation. Non male come risultato per un concerto che la Turchia ha cercato di boicottare per settimane, facendo pressione sulla Commissione Europea «tutti i giorni». La prima 2016 del progetto musicale “Aghet – agit”, ideato per commemorare il genocidio degli armeni, è stato accolto con un bagno di folla a Dresda nella Festspielhaus Hellerau. E Marc Sinan, chitarrista e co-ideatore del progetto, è più che soddisfatto: «La risposta del pubblico è stata fantastica, la Turchia non l’ha avuta vinta».

LA VOCE DEGLI ARMENI. Insieme a Markus Rindt, direttore dell’Orchestra sinfonica di Dresda, Sinan ha ideato un concerto di musica classica contemporanea anni fa. «Volevamo incorporare in un concerto la musica europea contemporanea e quella tradizionale dell’Anatolia», racconta a tempi.it. «Per questo abbiamo realizzato il progetto Hasretim». Mancava però la voce degli armeni, così «ne abbiamo fatto un altro, ospitando per l’occasione musicisti turchi e armeni». Sono state commissionate opere al compositore armeno Vache Sharafyan, al turco Zeynep Gedizlioglu e al famoso compositore tedesco Helmut Oehring, prevedendo uno spazio per testi cantati e letti sul genocidio degli armeni. E in particolare sulla nonna di Sinan.

LA STORIA DEL GENOCIDIO. «I genitori di mia nonna Vahide sono stati costretti dai turchi ad abbandonare la loro casa nel 1915», anno in cui cominciò il genocidio nel quale morirono 1,5 milioni di persone, ricorda il chitarrista turco di origini armene e nato in Germania. «Lei è sopravvissuta e durante il concerto racconto la sua storia». La prima è andata in scena nel novembre del 2015, a Berlino, in occasione del centenario del genocidio. Quest’anno la replica si è svolta sabato sera a Dresda, anche grazie al sostegno della Commissione Europea, che ha finanziato il concerto con 200 mila euro. Ed è a questo punto che è intervenuta la Turchia.

«SIAMO RIMASTI SCIOCCATI». «Per settimane, tutti i giorni, la Turchia ha fatto pressione perché la Commissione Europea ritirasse il finanziamento al progetto ed eliminasse ogni riferimento al genocidio», continua Sinan. Il governo turco continua ufficialmente a negare il genocidio armeno stesso e punisce fino a tre anni di carcere chiunque ne parli. «La Commissione ha ceduto al governo turco e ha ritirato il comunicato in cui parlava del concerto e del genocidio. Noi siamo rimasti scioccati: l’Unione Europea non può essere influenzata dalla Turchia fino a questo punto».

LIBERTÀ DI ESPRESSIONE VIOLATA. Non è la prima volta che Ankara interferisce con quello che accade in Germania, visto che il governo è riuscito a denunciare un comico tedesco colpevole di aver offeso il presidente Recep Tayyip Erdogan durante uno spettacolo televisivo. «La Turchia non ha mai provato a cambiare i testi del nostro concerto, questo era fuori discussione», spiega il chitarrista. Ma come affermato dal direttore dell’orchestra, Rindt, c’è stata «una seria violazione della libertà di espressione».

«ARRABBIATI E SPAVENTATI». Dopo un primo cedimento, la Commissione Europea è tornata sui suoi passi: «Non ci hanno tolto i finanziamenti e hanno ripubblicato il comunicato incriminato dopo il concerto, con le parole “genocidio armeno”», rivela sollevato. Ma il problema resta: «I nostri musicisti armeni e turchi erano molto arrabbiati e spaventati. Il problema è la politica accondiscendente europea: va bene essere in parte dipendenti dalla Turchia ma non si possono soddisfare tutte le loro aspettative».

GUERRA CON I CURDI. Soprattutto quando sono nettamente in contrasto con tutto ciò in cui crede l’Europa: «Secondo la Turchia, i cittadini devono essere servitori dello Stato. Per noi invece è lo Stato che deve garantire la vita libera dei cittadini. Guardiamo solo alla guerra con i curdi: la violenza che usano è incredibile, stanno continuando quello che hanno cominciato nel 1915». L’Unione Europea, per Sinan, «non può accettare che i membri di una minoranza vengano uccisi a centinaia, come avvenuto l’anno scorso. Se la Sicilia si ribellasse e l’Italia uccidesse centinaia di siciliani, che cosa accadrebbe? Sarebbe terribile, ma quando si tratta della Turchia, siccome la dipendenza è forte, si chiudono gli occhi».

«POLITICA EUROPEA MIOPE». Dopo l’accordo sui migranti, e la liberalizzazione dei visti, Unione Europea e Turchia si sono ritrovati più vicini che mai. «Credo che la politica europea sia miope. Dobbiamo trovare un diverso modo di collaborare con loro. Così è molto pericoloso». Ankara ha trasformato poi un progetto musicale ideato per riconciliare armeni e turchi in una nuova occasione di scontro: «Mi dispiace, noi volevamo solo tentare un riavvicinamento. A novembre dovremmo suonare anche a Yerevan (capitale dell’Armenia, ndr) e a Istanbul». Nel cuore della Turchia? «Sì, se ce lo permetteranno. È difficile fare previsioni ora, ma spero che capiscano l’obiettivo del concerto».

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Cibjo, in Armenia il Congresso 2016 (preziosamagazine.com 05.05.16)

Si svolgerà dal 26 al 28 ottobre in Armenia il Congresso annuale della Cibjo, la Confederazione mondiale della gioielleria che ogni anno riunisce i rappresentanti del settore per fissare obiettivi e esaminare i progressi raggiunti dall’industria. Quest’anno è la volta del paese eurasiatico, dove le delegazioni saranno ospitate dall’Armenian Jewellers Association, una organizzazione non governativa che sin dalla sua fondazione nel 1998 ha lavorato per creare un dialogo tra i gioiellieri armeni e le loro controparti nel mondo.

L’appuntamento è a Yerevan, centro amministrativo, culturale e industriale del paese, tra il Meridian Expo Centre e l’hotel Armenia Marriott: il Congresso sarà preceduto come di consueto dagli incontri preliminari il 24 e il 25 ottobre. l’hotel congressi è l’Armenia Marriott, che si trova sulla Piazza della Repubblica di Yerevan.

I congressi sono il punto di ritrovo ufficiale dell’Assemblea dei delegati della Confederazione e la sede per le riunioni annuali delle commissioni del Cibjo: momento deputato all’eventuale introduzione delle modifiche degli standard industriali internazionali (i cosiddetti Blue Books) per diamanti, pietre preziose, perle, laboratori gemmologici, metalli preziosi e corallo.

Al Congresso CIBJO viene discusso anche il programma della World Jewellery Confederation Education Foundation (WJCEF), relativo alle attività di responsabilità sociale e sostenibilità del settore e alla cooperazione della Cibjo con le Nazioni Unite e il suo programma di sviluppo. A breve sarà on line il sito web dedicato al Congresso, con tutti i dettagli.

“Siamo entusiasti di tenere il Congresso di quest’anno in Armenia – ha detto Gaetano Cavalieri, presidente Cibjo -,  un paese che costituisce trampolino di lancio per lo sviluppo dei mercati del Vicino Oriente e dell’Asia centrale, e patria di un popolo che per molti anni ha contribuito notevolmente all’industria della gioielleria internazionale. Invitiamo i membri del settore di tutto il mondo di unirsi a noi a Yerevan, e di partecipare alle nostre discussioni, a beneficio dei colleghi, dei clienti e dei nostri stakeholder lungo tutta la catena di distribuzione”.

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Governo Armenia per indipendenza Nagorno (Ansa 05.05.16)

Il governo armeno ha deciso di riconoscere l’indipendenza dell’autoproclamata repubblica del Nagorno-Karabakh, approvando una proposta di legge del vice ministro degli Esteri Shavarsh Kocharian. Il parlamento armeno discuterà la proposta il 10 maggio.
Il Nagorno-Karabakh è una regione secessionista dell’Azerbaigian a maggioranza armena e sostenuta militarmente da Ierevan. E’ da decenni al centro di un conflitto tra armeni e azeri che periodicamente si riaccende, come avvenuto all’inizio di aprile di quest’anno.

Armenia, terra fantasma (National Geographic 05.05.16)

La neve screzia la valle che gli armeni chiamano Jardi Dzor, “gola del massacro”, nell’Armenia settentrionale. Qui i soldati turchi avrebbero ucciso circa 4.000 armeni nel 1920.

Cento anni fa, un milione di armeni (c’è chi sostiene fossero di più, chi di meno) furono uccisi nell’Impero ottomano, l’odierna Turchia.

A Erevan, capitale dell’Armenia, un cenotafio di pietra commemora il Medz Yeghern, il “grande crimine” perpetrato contro il popolo armeno. Ogni anno a primavera – il 24 aprile, data in cui cominciarono i pogrom – migliaia di persone raggiungono la cima della collina su cui si trova il monumento per poi procedere in fila davanti a una fiamma eterna e lasciare un fiore. Circa 100 chilometri a nord-ovest da qui, poche centinaia di metri oltre il confine turco, giacciono le rovine di un monumento più antico, e forse più emblematico, alla terribile esperienza armena: Ani.

Ani era la capitale medievale di un potente regno armeno situato al centro dell’Anatolia orientale – la grande penisola asiatica che oggi costituisce gran parte del territorio turco – a cavallo tra i rami più settentrionali della Via della Seta. Era una metropoli ricca, con 100 mila abitanti e grandi bazar. Protetta da alte mura di pietra, era nota come la “città delle 1.001 chiese” e rivaleggiava per fama con Costantinopoli. Rappresentava l’apice della cultura armena. Oggi Ani si sgretola sotto il sole su un altopiano isolato, le rovine delle sue cattedrali e delle sue strade fagocitate dall’erba e sferzate dal vento. L’ho raggiunta a piedi. Da un po’ di tempo giro per il mondo per ripercorrere le rotte dei primi uomini che abbandonarono l’Africa, diffondendosi nel mondo, e nel mio viaggio non avevo ancora visto un luogo più bello, e più triste, di Ani.

«Gli armeni non sono neppure menzionati», si stupisce Murat Yazar, la mia guida curda.
Ed è vero: sui cartelli disposti dalle autorità turche per i turisti, i fondatori di Ani non vengono nominati. La scelta è voluta: ad Ani gli armeni non ci sono più, neppure nei testi storici ufficiali. Se la collina del Dzidzernagapert a Erevan è un invito a ricordare, Ani è un monumento all’oblio.

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L’Azerbaigian sponsor dell’ISIS. Perché l’Europa mantiene il silenzio? (Spondasud.it 04.05.16)

(Redazione) – La guerra in Nagorno Karabakh ha confermato come l’Azerbaijan sia uno stato che si comporta come l’ISIS. La presenza, oramai certa, di ex miliziani del Califfato tra i militari chiamati a fare il lavoro sporco nella regione contesa del sud del Caucaso rende la nazione governata dal dittatore Aliyev un vero e proprio sponsor dei terroristi dello Stato Islamico. Il taglio delle orecchie agli anziani, l’uccisione di un alunno e la decapitazione del soldato Yezida sono atti feroci. Sicuramente non esistono dei principi a cui attenersi nelle uccisioni durante una guerra, ma ci sono comunque delle regole militari non scritte: i soldati combattono contro altri soldati senza mancare loro di rispetto, né torturano i loro corpi e tanto meno aprono il fuoco contro pacifici cittadini.

In questo senso, l’Azerbaijan ha dimostrato di non seguire e di non rispettare in alcun modo i valori universali. Cosa fa l’Europa rispetto a questo? L’Europa, simbolo della civiltà, che ha sempre lottato contro gli attacchi terroristici, non fa nulla. Nello stesso momento in cui gli armeni seppellivano i propri soldati torturati e uccisi per mano dei militari dell’Azerbaijan, le Nazioni Unite nel corso del “VII forum umanitario” – che per ironia della sorte si svolgeva a Baku, capitale azera – parlavano dell’alleanza tra le società civili.

E’ evidente che non possa esistere alcuna connessione tra la civiltà e la decapitazione di un soldato. Come se non bastasse, il dittatore azero Aliyev ha persino premiato il soldato che ha ucciso e decapitato il militare azero, dimostrando al suo esercito che uccidendo e torturando i militari armeni si possono ottenere dei riconoscimenti.

E’ la prima volta che un killer viene premiato a Baku? No. La storia purtroppo si ripete e la memoria torna a Ramil Safarov. In Azerbaijan questo nome è associato ai concetti di eroismo e fama, ma in Armenia richiama uccisioni e odio. Safarov è il soldato azero che ha decapitato nel sonno il militare Gurgen Mragaryan. Ha confessato di averlo fatto solo perché era armeno. Anni dopo, a seguito della sua estradizione, Safarov è ritornato in Azerbaijan. Anziché essere punito, è stato rilasciato e, grazie al dittatore Aliyev, è diventato un eroe.

Oggi l’Azerbaijan incoraggia il terrorismo. Un pericolo non solo per l’Armenia o per la diaspora, ma per tutta l’Europa. L’azione di supporto al terrorismo di Baku dovrebbe essere fermata perché il disprezzo e il nazionalismo non hanno limiti, perché “umanità” non è soltanto una parola o un tema oggetto di conferenze, è prima di tutto un’azione a sostegno delle nazioni che lottano per la libertà e rifiutano la violenza e la tortura.

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Serj Tankian (System of a Down) suona ‘Artsakh’, un inedito per i combattenti armeni – VIDEO, TESTO (Rockol.it 04.05.16)

Il frontman dei nu metallers System of a Down, Serj Tankian, ha inciso e condiviso un brano solista acustico intitolato “Artsakh”. La canzone ha un tema molto attuale e politicamente connotato. parla, infatti, delle tensioni e del conflitto in corso nella zona del Nagorno-Karabahk, una enclave armena cristiana ufficialmente parte dell’Azerbaigian musulmano che sta tentando di riunirsi all’Armenia (un’aspirazione che si ripresenta puntualmente – e in maniere sempre purtroppo violente e con dispendio di vite umane – fin dal 1923, quando fu scorporata dalla madrepatria per volere di Stalin). Il brano è nella lingua delle radici di Tankian, cioè l’armeno (ricordiamo che lui, come gli altri componenti dei SOAD, sono tutti di origine armena, nonostante siano cittadini statunitensi). Questo è il testo integrale tradotto:

Abbiamo sempre vissuto in queste terre
seminato e raccolto da questi campi
generazioni sono nate dai tuoi fiumi
bambini sono nati dalle tue montagne

La pubblica maschera della tradizione
la lotta per essere liberi o la morte
lo sguardo del nemico sulla tua terra
i nostri sorrisi verso il tuo grembo
verso la tua volontà inesauribile

Canteremo coi nostri pugni
con la bandiera tricolore della giustizia
amore umanitario per la pace
con la santa benedizione del viso di un bambino
noi vinceremo con la cultura
noi vinceremo con la cultura
noi vinceremo perché siamo armeni

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Turchia: la guerra degli espropri (Osservatorio Balcani e Caucaso 03.05.16)

Nel sud-est della Turchia, sconvolto dagli scontri tra esercito e formazioni armate curde, ora è in gioco anche il futuro urbanistico dei centri urbani devastati dalle armi. Nostro approfondimento

Mentre continuano incessanti i combattimenti tra l’esercito turco e i militanti dei movimenti curdi autonomisti, il futuro urbanistico delle città del sudest a maggioranza curda è diventato il nuovo terreno di una battaglia combattuta non con le armi, ma con il cemento della futura ricostruzione.

Con una mossa che era nell’aria da diverso tempo, il 25 marzo scorso il governo turco ha avviato le procedure legali per l’esproprio d’urgenza di molte proprietà private nei distretti amministrativi di Sur (Diyarbakir) e Silopi (Sirnak). Quattro giorni dopo in una discussione parlamentare il ministro dell’Ambiente e della Pianificazione Urbana Fatmagül Demet Sarı ha motivato la decisione come legata a progetti di riqualificazione urbana avviati nel paese.

In una recente visita a Diyarbakır, il primo ministro Davutoĝlu ha poi annunciato un piano d’azione da 9 miliardi di dollari per “rimediare ai danni causati dal terrorismo” in città e di voler fare di Sur la “nuova Toledo”, in riferimento alla città spagnola ricostruita dopo la guerra civile. Non si conoscono i dettagli di questo piano d’intervento, pubblicizzato anche tramite un video caricato su Youtube.

Distruzione

In conseguenza ai pesanti scontri degli ultimi mesi, molti distretti provinciali quali Sur, Nusaybin, Silopi, Cizre, Idil, Silvan, Yuksekova, dove i movimenti curdi hanno cercato di creare delle zone autonome de facto, appaiono irriconoscibili. Ovunque si vedono cumuli di macerie ed edifici fatiscenti crivellati dai colpi delle armi. Lo spostamento del conflitto dalle aree rurali a quelle urbane, mesi di coprifuoco ininterrotto, l’uso di congegni esplosivi, carri armati ed altre armi pesanti si sono rivelati devastanti per aree dove, fino a poco tempo fa, vivevano in centinaia di migliaia.

Oltre 90mila persone hanno dovuto abbandonare le proprie case, spesso senza alcun preavviso e senza poter portare nulla con sé, altre volte invece carichi di tutto ciò che era salvabile. Molte famiglie hanno ricevuto dalle autorità governative avvisi di allontanamento coatto dalle abitazioni, pesantemente danneggiate dagli scontri. Altre sono state fatte allontanare dallo YDG-H, la milizia urbana del PKK. Molte lamentano l’impossibilità di ritornare alle proprie case anche solo per recuperare beni di prima necessità. La maggior parte degli sfollati si è spostata verso le periferie o verso i villaggi nei dintorni, trovando ospitalità e riparo solo grazie alla disponibilità di parenti, amici o alla generosità degli altri abitanti.

Quella in corso è un’emergenza umanitaria che non viene riconosciuta né dallo stato turco né dalla comunità internazionale, ma che sta assumendo risvolti di giorno in giorno sempre più drammatici.

Confische seriali

La drammaticità degli scontri ancora in corso rende implausibile al momento ogni tentativo di avviare attività di ricostruzione e la confisca delle proprietà è finora l’unico intervento di natura non militare condotto dal governo nella regione.

In molti cominciano a vedere il conflitto in corso non soltanto come il risultato dell’antagonismo tra stato turco e PKK, ma anche come la volontà del governo di intervenire con opere di ingegneria sociale direttamente sul tessuto urbanistico della regione, oltre che come il frutto della pressione della potente lobby della speculazione immobiliare.

A Sur, il cuore antico della città di Diyarbakir e sotto protezione UNESCO, è previsto l’esproprio di oltre l’80% delle proprietà, coinvolgendo oltre 50mila persone. Tra le confische anche quelle dei maggiori edifici monumentali come ad esempio la moschea Ulu Camii, la Casa dei Dengbej, chiese siriache, caldee e armene.

Le reazioni

Le opposizioni politiche e numerosi esponenti del mondo civile hanno duramente contestato la decisione del governo, accusandolo non solo di infliggere ulteriore sofferenza ad una popolazione già duramente colpita dal conflitto, ma di voler in questo modo attaccare il tessuto urbano-sociale della società curda. L’associazione degli avvocati di Diyarbakir ha annunciato di voler fare ricorso contro un’iniziativa considerata illegale secondo le norme turche ed internazionali, come riportato da Bianet, partner di OBC.

Anche alcune autorità religiose come l’arcivescovo armeno Aram Ateşyan di Diyarbakir, città che ospita luoghi di culto di diverse confessioni, hanno manifestato la propria opposizione al piano di confisca.

La popolazione locale è preoccupata anche dal ruolo attivo che il TOKI, l’Ente governativo per l’edilizia pubblica, potrebbe avere nella fase di ricostruzione. Si temono conseguenze pesanti sull’identità culturale e storica dei centri urbani, oltre che sul tessuto sociale già martoriato dalla guerra. Il TOKI è noto per essere stato al centro dei contestati progetti di gentrificazione in numerose città del paese e per aver spesso privilegiato l’immediato ritorno economico rispetto alla qualità degli interventi. Un coinvolgimento dell’ente è stato smentito dal vice primo ministro Kurtulmuş, una rassicurazione che non sembra poter far breccia nella maggioranza della popolazione locale, tanto più che già nel 2009 a Sur lo stesso TOKI aveva tentato di avviare un progetto di ristrutturazione del tessuto urbano, fermato solo dopo forti proteste.

Il conflitto continua

Anche se il conflitto armato cessasse immediatamente, e in realtà la tendenza è opposta, buona parte della popolazione non nutre alcuna fiducia nelle buone intenzioni dichiarate dal governo, che dopo il crollo del processo di pace ha risposto con il pugno di ferro dell’esercito alle rivendicazioni di autonomia e di rispetto dei diritti della minoranza. Inoltre, non esiste alcuna cooperazione tra il governo centrale AKP e le istituzioni locali, governate dalle rappresentanze curde, dopo che negli ultimi mesi sono stati centinaia gli arresti nelle file dell’HDP e delle altre sigle di rappresentanza curda, spesso con l’accusa di collusione con il terrorismo.

Per questo qualsiasi piano calato coercitivamente dall’alto, anche volendo assumerne le migliori intenzioni, verrebbe totalmente rigettato a livello locale. Nella regione lo stato riesce ad imporre la propria autorità solo con la violenza e con costi altissimi in termini umanitari, sociali ed economici. L’intervento militare non solo ha distrutto il processo di pace ed ogni capacità di fare presa sugli abitanti, ma sta anche spingendo sempre più persone nelle fila del PKK, specie tra i giovani.

Di fatto il PKK sta riguadagnando nuovo prestigio tra i curdi e sta riaffermando la propria leadership all’interno del movimento autonomista, ruolo che durante il processo di pace aveva in parte perduto in favore dell’HDP e del suo approccio politico e non armato alla questione curda.

È difficile che gli espropri a cui si assiste in queste settimane possano favorire una conciliazione. Il timore generale è che, concluse le operazioni militari, accanto alla necessaria ricostruzione, il governo avvierà unilateralmente il proprio piano di ristrutturazione sociale e di spopolamento, che passerà anche attraverso la riedificazione dei centri abitati.

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