Il sogno comune a turchi e armeni a 101 anni dal genocidio (Gariwo.it 27.04.16)

Nel 2014, il professore francese di origini armene Gerard Malkassian firmava, con altre eminenti personalità impegnate per la pace tanto armene quanto turche, il manifesto Noi facciamo un sogno, insieme. Tale documento, redatto in vista delle commemorazioni dei cent’anni dal genocidio armeno previste per il 24 aprile 2015, auspicava che “un’era di pace tra gli Armeni e i Turchi si apra, nel rispetto della storia e di ciascuno dei nostri popoli”.

Per il centunesimo anniversario del genocidio degli armeni, gli studiosi si sono di nuovo riuniti, stavolta per denunciare la ripresa di “esecuzioni sistematiche” ai danni delle popolazioni allogene della Turchia, azioni considerate a tutti gli effetti genocide.

Di seguito riportiamo il nuovo appello del Collettivo del Sogno Comune.

Il Collettivo del Sogno Comune

Parigi, 24 aprile 2016

Era un anno fa che parlavamo dei crimini perpetrati cent’anni prima in Anatolia. Nel 2015, commemoravamo il centenario dell’inizio del genocidio degli armeni e degli assiro-caldei, come pure dei greci del Ponto, organizzato, in piena prima guerra mondiale, dai nuovi dirigenti di un Impero Ottomano in declino.

Sì, era appena un anno fa. Un anno è stato sufficiente affinché la catastrofe scatenatasi raggiungesse un nuovo parossismo in questa regione del mondo. Più ancora del 2015, l’anno 2016 è un anno terribile.

In questo 24 aprile, il nostro dovere è di gridare alto e forte, di urlare in faccia alle potenze mondiali ed europee ancora una volta passive e, diciamolo, complici. Perché, 101 anni più tardi, la Storia maledetta è ricominciata, questa volta colpendo obiettivi come i curdi, gli yazidi e allo stesso modo i siriani.

Esecuzioni sistematiche e pianificate, meno massicce ma non meno criminali, si svolgono in continuazione nel sud est della Turchia. Noi affermiamo che i massacri e le deportazioni di oggi in Siria e in Turchia discendono da uno scenario che ricorda dolorosamente il 1915 e il genocidio degli armeni, sul quale lo Stato turco mantiene a tutt’oggi la propria posizione negazionista. in questo silenzio politico europeo e mondiale assordante, noi denunciamo insieme l’attuale ripresa delle azioni genocide dello Stato turco.

Chi siamo noi? Siamo armeni, curdi, turchi, yazidi, greci, siriani e libanesi, di ogni origine… Viviamo nei nostri Paesi o in quelli delle diaspore mondiali.

Al giorno d’oggi, il sogno comune deve trasformarsi in lotta comune. La nostra lotta comune è di andare avanti, insieme.

Per rifiutare le politiche di massacro dello Stato turco.

Per denunciare le politiche migratorie europee.

Per denunciare il sostegno dell’Europa alla guerra.

Per curare le ferite insieme.

Per stabilire un dialogo tra i popoli.

Per dire che noi non vogliamo più condividere questa storia sanguinosa con voi, ma creare il nostro avvenire da questo momento in poi condividendo le nostre culture, i nostri modi di fare musica, le nostre arti, le nostre amicizie e le nostre vite.

www.ourcommondream.org

Collettivo del Sogno Comune

collectifdurevecommun@gmail.com

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Il governo turco requisisce proprietà e chiese degli armeni «per sicurezza» (Tempi.it 27.04.16)

«Io sono qui perché un vicino di casa turco, a Malatya, ha voluto salvare mio nonno, allora bambino». Ha cominciato così il suo discorso al Parlamento turco Garo Paylan, deputato di origine armena, pochi giorni prima del 101esimo anniversario del genocidio armeno. Dopo aver ricordato quella tragedia, leggendo i nomi di tutti i deputati uccisi, ha chiesto di aprire un’inchiesta sulla loro morte. Come riporta AsiaNews, è stato ricoperto di fischi e insulti.

GENOCIDIO ARMENO. Parlare di “genocidio armeno” in Turchia comporta ancora oggi la condanna fino a tre anni di prigione, perché il governo non ha mai voluto ammettere lo sterminio organizzato dalla corrente dei Giovani turchi durante il tramonto dell’Impero ottomano. Chi ha perpetrato il genocidio ha piazze, scuole ed ospedali dedicati in Turchia. Come ha detto Paylan in Parlamento, «potete immaginare di recarvi in Germania e passeggiare in una via dedicata ad Adolf Hitler?».

«COSTITUZIONE SIA ISLAMICA». La situazione degli armeni in Turchia è difficile anche a 100 anni di distanza dallo sterminio. Lunedì il portavoce del Parlamento, Ismail Kahraman, ha dichiarato che «siamo una nazione musulmana e di conseguenza dovremmo avere una costituzione religiosa. La laicità non dovrebbe avere posto nella nostra nuova Costituzione». Poiché Kahraman è un membro del partito del presidente Recep Tayyip Erdogan, che sta cercando di riscrivere la Carta per ottenere un sistema presidenziale con più poteri, le sue parole hanno destato scalpore e attirato le critiche dei partiti di opposizione.

CHIESE ARMENE ESPROPRIATE. Al di là del negazionismo e dell’islamizzazione del paese, gli armeni sono preoccupati anche da un altro episodio. Il governo turco ha infatti da poco espropriato a sorpresa molti terreni e chiese armene, tra cui la storica chiesa Surp Giragos, nella città curda di Diyarbakir, dove da quasi un anno l’esercito combatte contro i curdi del Pkk.
La chiesa, così come molte delle case e dei terreni sequestrati, è stata chiusa a causa dei danni riportati durante gli intensi bombardamenti. Il governo ha affermato che le requisizioni sono state fatte per ragioni di sicurezza e che alla fine del conflitto tutto sarà restituito. Ma anche a causa dei trascorsi storici, gli armeni non si fidano e tornano con la memoria alle confische e ai “trasferimenti” forzati che hanno dovuto subire i loro attentati 100 anni fa.

PROGETTI URBANISTICI. I curdi hanno anche accusato il governo di voler abbattere gli edifici per costruirne di nuovi, più lussuosi e accessibili solo ai ricchi. Questo, secondo alcuni, sarebbe un modo per cacciare gli attuali proprietari. Il premier Ahmet Davutoglu ha dichiarato recentemente, secondo il New York Times, che il governo intende trasformare Sur, il centro della città soggetto ai sequestri, «in un’ambita meta turistica. Tutti verranno e apprezzeranno le sue architetture».

«LA STORIA SI RIPETE». Mentre l’associazione degli avvocati di Diyarbakir ha fatto causa al governo, gli armeni non si fidano delle intenzioni di Erdogan: «La storia si ripete, non l’avremmo mai immaginato», ha commentato Anita Acun, leader della comunità armena di Istanbul. Un residente di Sur, che ha da poco scoperto le sue origini armene, è rimasto sconvolto: «Per noi la chiesa di Surp Giragos non è solo un luogo di culto. È dove possiamo entrare e riunire tutti i pezzi della nostra storia e identità insieme».

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Nagorno-Karabakh: rischio effetto domino nel Caucaso? (Ilcaffegeopolitico.org 27.04.16)

Nei primi giorni di aprile sono ripresi gli scontri armati nella regione contesa del Nagorno-Karabakh. Operazioni belliche simili non si vedevano da quando era stato firmato l’accordo di Bishkek nel 1994, che di fatto aveva sancito il “congelamento” politico-militare del conflitto. Che rischio correrebbe il Caucaso se dovesse scoppiare un conflitto che al suo interno vede coinvolti cristiani, musulmani, armeni, azeri e turcomanni ? Che partita stanno giocando Russia e Turchia?

VENTI DI GUERRA  Nei giorni compresi tra il 1° e il 5 aprile scorsi sono ripresi, più violenti che mai, gli scontri armati nel Nagorno-Karabakh tra le forze azere e quelle armene. Si stima che negli scontri abbiano perso la vita circa duecento persone e, come spesso accade in un conflitto armato, sono stati coinvolti anche parecchi civili. Inoltre, secondo fonti armene, sono stati distrutti anche una decina di blindati azeri, un elicottero e un paio di droni. Resta sempre difficile confermare i dati che si ricevono da queste zone “calde” del mondo, ma non è questo il punto. La violenza che si è vista recentemente non ha niente a che fare con le solite scaramucce che si erano verificate negli ultimi vent’anni oppure con le ormai consuete operazioni di cecchinaggio intraprese da ambo le parti sulla linea di contatto. Mai si era giunti ad uno scontro simile da quando il fragile accordo di Bishkek era stato firmato nel 1994. Un accordo che di fatto aveva solo congelato questo conflitto, senza però risolverlo. Adesso sembra che questo conflitto, tenuto in naftalina per un ventennio, stia inesorabilmente marciando verso una nuova stagione calda, e i fatti sopra descritti sono solo successivi ai prodromi che ci avevano avvisato che lo status quo imposto nel 1994 stava lentamente sfaldandosi. Era già da un po che sia l’Armenia sia, soprattutto, l’Azerbaijan si stavano riarmando, mentre il loro confine comune era ormai di nuovo teatro di grandi manovre militari come non se ne vedevano da anni. Mentre l’Azerbaijan faceva leva sui ricavi delle sue risorse energetiche per aumentare di venti volte le spese devolute alla difesa, l’Armenia cedeva le sue importanti infrastrutture alla Gazprom, quindi alla Russia, in cambio di cospicui finanziamenti da poter poi rinvestire in armamenti russi. Nelle molte differenze che dividono armeni e azeri, essi condividono lo stesso fornitore d’armi.

CUI PRODEST? Come siamo giunti all’ultima escalation nel Nagorno-Karabakh ? Perché mettere a repentaglio, o almeno provarci, uno status quo che, nonostante tutto, reggeva ormai da diversi anni? Tra le varie cause che vanno menzionate un posto di riguardo merita certamente l’immobilismo che ha contraddistinto i lavori del gruppo di Minsk, che si era fatto carico dell’onere di ricercare una soluzione a questo conflitto. Armenia e Azerbaijan, nonostante gli sforzi dei Paesi che sedevano al tavolo delle trattative, non hanno fatto neanche il minimo passo l’una verso l’altra, rimanendo trincerate sulle loro posizioni. Così, mentre l’Azerbaijan lamentava un orientamento troppo filo-armeno della commissione, l’Armenia si indignava per la mancanza nel gruppo di un membro del Nagorno-Karabakh, rendendo di fatto il lavoro dei diplomatici quasi impossibile. Ma nei rapporti tra i due Paesi, seppure assai difficili, per passare da una fase critica delle relazioni ad una belligerante ce ne vuole. Tra le due parti Yerevan è quella che sicuramente vuole la guerra meno di tutti e, nonostante tutto, accetta suo malgrado lo status quo imposto dal 1994 che –  de facto – riconosce l’entità statale del Nagorno-Karabakh. Baku invece, desiderosa di rifarsi della vasta amputazione territoriale inflittagli circa venti anni fa, spinge verso la guerra, forte anche dell’appoggio quasi incondizionato da parte di Ankara, che ha più volte dichiarato che avrebbe fatto il possibile affinché l’integrità territoriale dell’Azerbaijan fosse stata tutelata. Affinità che oltre a essere strategica è di natura linguistica, culturale e religiosa. Un popolo, due Stati. Alleanza che fa da contraltare a quella tra Armenia e Russia. Mosca controlla infatti circa il 90% delle infrastrutture energetiche armene tramite la Armrosgazprom, società satellite del colosso Gazprom, e di recente ha anche varato un ambizioso piano per la sicurezza regionale aerea insieme a Yerevan, forte del controllo della base aerea di Erebuni. Inoltre l’Armenia è da poco entrata nell’Unione Economica Eurasiatica (UEE) per cementare sempre di più, anche economicamente, la sua alleanza con la Russia. Se invece si va a dare un rapido sguardo alla politica interna dei due Paesi si può notare che, a causa della crisi economica dovuta al ribasso dei prezzi del petrolio e del gas, sia il Governo dell’Azerbaijan che quello dell’Armenia sono alle prese con un consenso interno calante. Un nuovo conflitto nel Nagorno-Karabakh riaccenderebbe quindi le passioni nazionaliste tanto a Yerevan quanto a Baku, dando modo così alle rispettive leadership di rinsaldare il consenso dell’opinione pubblica interna.

 

DALLA SIRIA AL CAUCASO: MOSCA CONTRO ANKARA  Partendo dall’assunto che Azerbaijan e Armenia al momento non hanno eserciti tali da poter imbastire una guerra come quella avvenuta vent’anni fa, è ovvio che dietro il riaccendersi delle ostilità ci siano nazioni ben più attrezzate e dominanti, che in questa regione hanno sempre fatto la voce grossa. Il comportamento di Armenia e Azerbaijan nel Nagorno-Karabakh rispecchia chiaramente come i loro principali sponsor – rispettivamente Russia e Turchia – percepiscono l’idea che hanno di se, del loro estero vicino e di come relazionarsi ad esso. Mosca preme per il mantenimento dell’equilibrio e per il consolidamento dei rapporti dei suoi partner strategici. Venendo meno il suo controllo in Ucraina – a causa del successo della rivolta di Maidan –  è dovuta ricorrere al “ratto” della Crimea e alla neutralizzazione del Donbass mirando a conservare il proprio ponte personale sul Mar Nero nella base di Sebastopoli. Intervenendo in Siria a difesa dell’alleato Assad ed evitando il regime-change sponsorizzato da Turchia e soci, ha anche tenuto al riparo la sua base navale di Tartus che le offre uno sbocco sul Mediterraneo. Ankara invece, nello strenuo tentativo di ripresentarsi al mondo come la grande Turchia ottomana, dopo aver fallito nel tentativo di espandere la sua influenza in Siria, ora rivolge le sue attenzioni con più energia verso il Caucaso, entrando di nuovo in collisione con gli interessi russi in una zona che per Mosca è di fondamentale importanza. Sembrerebbe quasi voler “rendere il favore” che i russi le hanno riservato in Siria. Le gravi incomprensioni che attanagliano Russia e Turchia nascono proprio dal non aver compreso reciprocamente le loro nuove nature imperiali, o quanto meno, dal non aver saputo distinguere le loro rispettive zone di influenza, infrangendole. Il Governo turco non ha perdonato l’intrusione russa nel suo estero vicino, e sembra che ora, cercando di ampliare la sua influenza nel Caucaso, stia commettendo lo stesso errore. L’importante volume di scambi che negli anni scorsi le economie dei due Paesi avevano intrapreso non ha impedito loro di allontanarsi a causa delle loro divergenze. Gli scambi commerciali tra Russia e Turchia nel 2014 avevano infatti sfiorato i 32 miliardi di dollari e per Mosca il mercato energetico turco, con le sue massicce importazioni di gas russo, è secondo solo a quello tedesco. Ma gli accordi commerciali non hanno tenuto testa alla divergenze strategiche.

SCENARI POSSIBILI DI UN FUTURO INCERTO  Nel contesto che vede ormai ai ferri corti le relazioni tra Turchia e Russia, il conflitto nel Nagorno-Karabakh potrebbe essere soltanto il primo di una lunga serie di guerre per procura che potrebbero coinvolgere indirettamente Mosca e Ankara. Dopo le prove generali in Siria, dove a fronteggiarsi sono il regime alawita di Assad e le forze ribelli – moderate o meno che siano – e una probabile riproposizione dello stesso schema – ripreso da Armenia e Azerbaijan – nel “Paese delle montagne”, le schermaglie tra i due contendenti potrebbero attuarsi di nuovo in altre zone che condividono circostanze simili al Nagorno. Si pensi alla Georgia. Tbilisi da tempo mira ad entrare nella NATO e nell’UE – tentativi finora frustrati per paura di un’eccessiva reazione russa – e ha a che fare con i problemi dell’Abkhazia e dell’Ossezia del Sud. Paesi non riconosciuti dalla comunità internazionale, ma che hanno il chiaro appoggio del Cremlino. E la Turchia in questa zona è la longa manus della NATO. Se dovessero scoppiare delle tensioni in questa regione, Ankara saprebbe resistere alla tentazione di ergersi in difesa della comunità georgiana ?
In Crimea, dove vive una popolosa comunità tatara, la Turchia, se e quando ne avrà l’occasione, si esimerà dall’autoproclamarsi paladina dei tatari ? O sono fondate le voci che individuano vicino Kherson un centro di reclutamento gestito da comandanti turchi che addestrano guerriglieri pronti da mandare verso Sebastopoli ?

Non ci resta che aspettare per vedere se sarà il buon senso a prevalere sulle mire imperialistiche fomentate dalle ormai note posture neo-imperiali dei due Paesi, o viceversa. Russia e Turchia si osservano, mostrano i muscoli, si colpiscono verbalmente e cercano di carpire le debolezze reciproche. Se il buon senso dovesse prevalere o meno lo vedremo anche dall’evoluzione degli eventi che avverranno nei prossimi mesi nei dintorni di Step’anakert.

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Ani, da prosperosa capitale a città fantasma (Notizie.it 27.04.16)

Ani è oggi al confine tra Turchia e Armenia, ma nel XI secolo era la capitale del regno armeno e aveva davanti un futuro prosperoso.

Fondata nell’884, Ani controllava il territorio dove oggi si trova l’Armenia e parte della Turchia orientale. Era destinata a essere una città moderna, ricca e al passo con i tempi, data la sua importanza per le rotte commerciali che lì trovavano un buon punto d’appoggio per guadagnare. Ospitava numerose chiese e per queste prese il nome di “città delle 1001 chiese” ed era abitata da quasi 200 mila persone.
Nel 1045 venne conquistata dai bizantini e poi dai turchi, i quali la vendettero a una famiglia curda, di religione islamica. Proprio in questo periodo iniziò la sua decadenza, in quanto la maggior parte della popolazione era cristiana. Nel 1200 fu la volta dei mongoli, che la conquistò dopo una brutta e violenta battaglia.

Come se non bastasse, un terremoto nel 1319 la distrusse quasi completamente. Numerose chiese crollarono e la città di Ani fu presto composta solo da macerie.

Nel giro di pochi anni, gli abitanti se ne andarono, lasciandola decadere completamente.

Una volta importante, ora Ani è una città abbandonata, chiusa al pubblico. Alcuni scatti mostrano ancora le macerie mai state rimosse, e la ricostruzione appare impossibile, date le decisioni delle autorità turche di non avviare progetti di restauro nel sito.

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Il Premio Aurora a Marguerite Barankitse (Gariwo.it 26.04.16)

Marguerite Barankitse, fondatrice di “Maison Shalom”, orfanatrofio in Burundi per bambini rimasti soli a causa della guerra civile, e dell’Ospedale REMA, ha vinto la prima edizione del “Premio Aurora per il contributo al Risveglio dell’Umanità”, assegnato alle persone che lottano per l’umanità in condizioni straordinarie. Nella cerimonia tenutasi a Yerevan, capitale dell’Armenia, il 24 aprile in coincidenza con le celebrazioni per il 101esimo anniversario del genocidio armeno, Barankitse ha ricevuto il premio dalle mani di George Clooney, co-presidente del comitato di selezione dei concorrenti.

Il premio, in onore di Aurora Mardiganian (sopravvissuta al genocidio che ha raccontato la sua storia in un libro e un film) consiste in un’elargizione di 100mila dollari al vincitore più una donazione di 1 milione di dollari che il premiato darà a un’associazione “che ha ispirato il suo lavoro”. Tra i promotori del riconoscimento ci sono Vartan Gregorian, co-fondatore di “100 LIVES”, iniziativa della IDeA Foundation (Initiatives for Development of Armenia), fondazione benefica impegnata a promuovere lo sviluppo socio-economico in Armenia con investimenti di lungo temine e progetti senza fini di lucro, e altri due filantropi di origine armena, Noubar Afeyan e Ruben Vardanyan.

“I nostri valori sono i valori umani. Quando si ha compassione, dignità e amore allora nulla può spaventarvi, niente può fermarvi – nessuno può fermare l’amore. Non gli eserciti, non l’odio, non la persecuzione, non la fame, niente,” ha detto Clooney commentando gli straordinari sforzi compiuti da Barankitse per salvare migliaia di vite e assistere orfani e rifugiati durante gli anni di guerra civile in Burundi, costata la vita a 300mila persone tra il 1993 e il 2005.

Barankitse ha detto che prevede di donare il premio a tre organizzazioni  – Fondation du Grand-Duc et de La Grande-Duchesse du Luxembourg, Fondation Jean-François Peterbroeck (JFP Foundation) e Fondazione Bridderlech Deelen Lussemburgo – per continuare a garantire aiuti ai bambini rimasti soli e rifugiati e per combattere la povertà infantile.

Si stima che Barankitse con le sue iniziative abbia salvato quasi 30mila orfani durante il conflitto. Nel 2008 ha inoltre avviato la creazione di un ospedale, che ha assistito 80mila pazienti finora.

Nel paese africano intanto sono riprese le violenze dall’anno scorso, quando il presidente Pierre Nkurunziza, comandante di una milizia, ha annunciato di voler mettere da parte la costituzione e candidarsi per un terzo mandato, provocando un tentativo di colpo di stato, proteste di massa e una dura repressione. Nel 2016 in media un migliaio di persone al giorno sono fuggite oltre il confine con la Tanzania, aggiungendosi alle 250mila già rifugiate in campi profughi, secondo le cifre fornite dalle agenzie umanitarie al quotidiano britannico The Guardian. Il timore di alcuni osservatori è che le divisioni etniche possano riaccendere la guerra civile, che nel vicino Ruanda era degenerata in un vero e proprio genocidio.

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Aylisli, un messaggio durissimo (Corriere della Sera 26.04.16)

Ma ve lo vedete un vecchio scrittore ottantenne malato di cuore fare il teppista in un aeroporto e picchiare un giovane e prestante poliziotto proprio il giorno in cui partiva per Venezia (Venezia: il sogno d’una vita!) dove sarebbe stato omaggiato e riverito al festival letterario «Incroci di civiltà»? Non ha senso. Nessun senso.

«Sogni di pietra» (Guerini e Associati, pp. 139, euro 12,50), il volume di Aylisli con la prefazione di Gian Antonio Stella
«Sogni di pietra» (Guerini e Associati, pp. 139, euro 12,50), il volume di Aylisli con la prefazione di Gian Antonio Stella

Ed è quello che Akram Aylisli, l’autore azero del libro «più odiato dell’Azerbaigian», quel Sogni di pietra dove per la prima volta si riconoscono i torti degli Azeri nella mattanza degli Armeni un secolo fa («Speravo di risparmiare alla mia gente l’immagine di un popolo di tagliagole»), scrive in una lettera al presidente della repubblica caucasica, Ilham Aliyev. Una lettera dalle forme rispettose e garbate, che si chiude con un «cordialmente» e offre al capo dello Stato una via d’uscita per trarsi d’impaccio dalle roventi polemiche internazionali seguite al clamoroso arresto dello scrittore mentre stava per imbarcarsi. Se intervenisse per individuare i responsabili e punirli…

Una lettera dura, però. Molto dura. Celebrato un tempo come uno dei maggiori autori viventi, la pubblicazione tre anni fa di Sogni di pietra dove raccontava cercando di riconoscere torti e ragioni, le storie di due ondate di odio tra Azeri (mulsulmani) e Armeni (cristiani), dalla «pulizia etnica» nel secondo decennio del Novecento alla guerra degli anni Novanta per il Nagorno Karabakh, segnò di colpo il passaggio di Aylisli tra gli appestati. Marchiato come un «traditore della patria», bollato come «apostata» dal Gran Muftì, privato della pensione e del titolo di «Autore del Popolo», maledetto dai fanatici col rogo dei suoi libri in piazza, espulso dell’Unione degli scrittori, colpito coi licenziamenti della moglie e del figlio, fu addirittura additato ai «cacciatori di taglie» da un politico nazionalista che offrì tredicimila dollari a chi gli avesse portato un orecchio del «servo degli armeni». «Un incubo».

Accoglierà il presidente azero l’appello e la via d’uscita offertagli da Aylisli? Mah… Originari entrambi di Naxcivan, l’exclave azera circondata ai confini da Iran, Turchia e Armenia, la pensano però all’opposto. Di qua un patriottismo sobrio che riconosce le ragioni altrui, di là un nazionalismo radicale. Eppure il buon senso gli consiglierebbe di chiudere il caso in fretta: il pubblico linciaggio ha fatto dello scrittore, al di là della sua statura letteraria, un simbolo della libertà di parola come non si vedevano dai tempi dell’Unione sovietica, dei Gulag e delle angherie contro Vladimir Bukowsky, Varlam Šalamov o Aleksandr Solženicyn… Non bastasse, l’Azerbaigian è precipitato nella classifica di Transparency International al 119° posto (su 167) dei Paesi meno corrotti e addirittura al 163° (su 180) nel ranking di Reporters sans frontières dei Paesi in cui è garantita la libertà di opinione. Due punti sottolineati (sia pure senza citar le classifiche) dallo stesso Aylisli, durissimo contro tanti funzionari «diversi dai robot solo per via di una corruzione e di una ingordigia insaziabili, mostruose».

Accusa che tocca (si parla a nuora perché suocera intenda) lo stesso presidente Aliyev, figlio di quel Heydar Aliyev che arrivò al potere nel 1969 come segretario dei comunisti azeri e, accusato di corruzione dalla «Pravda» di Gorbaciov, sopravvisse al crollo del comunismo riciclandosi come nazionalista fino alla presidenza dello Stato. La stessa Wikipedia in inglese, infatti, riporta le accuse del «Washington Post» a Ilham Aliyev e alle figlie di un coinvolgimento prima in investimenti milionari a Dubai («nove ville di lusso acquistate per circa 44 milioni, pari a 10.000 anni di stipendio medio di un azero») e oggi nell’affare Panama Papers… E se il «caso Aylisli», parallelo al ritorno degli scontri sulle aree contese e al crollo della moneta, fosse «solo» un diversivo?

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Nagorno Karabakh, uccisi 2 soldati armeni sulla linea di contatto (Askanews.it 26.04.16)

Erevan, 26 apr. (askanews) – Due soldati armeni sono stati uccisi in nuovi scontri in Nagorno-Karabakh, regione contestata tra Baku ed Erevan, dove i combattimenti da inizio aprile hanno ucciso almeno 110 persone. Lo hanno annunciato le autorità separatiste. La tregua in vigore dal 5 aprile “è stato violata 80 volte dal nemico sulla linea di contatto tra le forze azere e quelle del Nagorno-Karabakh”, ha detto il ministero della Difesa del Nagorno-Karabakh, che ha accusato Baku di aver usato “tutti i tipi di artiglieria e di veicoli armati”.

Due soldati armeni, il quarantenne Aram Arouchanian e Tigran Pogossian, nato nel 1992, sono stati uccisi nel corso delle violazioni del cessate il fuoco, ha detto il ministero, aggiungendo che vari soldati azeri sono stati uccisi in rappresaglia.

George Clooney: i migranti sono persone come noi (News.in-dies.info 26.04.16)

George Clooney, si sa, talora sposa la causa dei più sfortunati. Invitato a parlare in una cerimonia di premiazione a Yerevan, in Armenia, sulla crisi della migrazione in Europa, ha chiesto ai paesi interessati di dimostrare empatia per i migranti.

“Li chiamiamo ‘rifugiati’, mentre sono solo persone come te e me”, ha osservato l’attore, raccontando: “La mia famiglia era fuggita negli anni della carestia in Irlanda e si era stabilita negli Stati Uniti. Al loro arrivo, i membri della mia famiglia erano stati chiamati ‘migranti’. “Tuttavia, se si stava in piedi davanti a loro e ci si prendeva il tempo per guardarli negli occhi si poteva vedere che quegli irlandesi erano solo dei semplici contadini in fuga dalla carestia”.

“La semplice verità è che tutti noi qui stasera siamo il risultato di qualche atto di gentilezza”, ha detto. “Siamo tutti saliti sulle spalle di persone buone che non hanno distolto lo sguardo quando eravamo in difficoltà, ha precisato Clooney, a Yerevan, invitando all’assistenza e all’assunzione delle proprie responsabilità nei confronti dei migranti.

GENOCIDIO ARMENO

L’attore era in Armenia domenica, a Erevan, per la commemorazione del genocidio armeno, che ha avuto luogo esattamente 101 anni fa.

George Clooney, durante la conferenza ha anche invitato il mondo a riconoscere il genocidio armeno, che ha fatto più di 1,5 milioni di morti tra il 1915-1917.

Amal Clooney come avvocato difende già l’Armenia dinanzi alla Corte europea dei diritti dell’uomo contro il negazionista turco Dogu Perinçek.

Georges Clooney era arrivato sabato nell’ex Repubblica Sovietica per partecipare alla camminata annuale.

L’attore statunitense fa parte del comitato che assegna il premio Aurora, voluto dal governo armeno a favore di coloro che mettono a rischio la loro vita per salvare gli altri.

CLOONEY

Gli antenati irlandesi di Clooney erano emigrati quando il paese era stato attraversato dalla peggiore carestia del XIX secolo.

L’attore è un attivista umanitario per il conflitto del Darfur.

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Nagorno-Karabakh pronto alla ribalta internazionale (Lindro.it 26.04.16)

La regione del Nagorno-Karabakh è una scintilla pronta a diventare fuoco vivo appena le condizioni lo renderanno possibile. Non sono molte le voci che arrivano da quella parte di mondo, eppure la storia avvincente che si snoda a cavallo tra guerra fredda e modernità suscita in qualcuno ancora un grande interesse. Tra i pochi testimoni occidentali, in quella terra c’è  un giovane ricercatore italiano, Francesco Trupia, che ci racconta cosa succede e cosa potrebbe succedere in futuro nel Nagorno-Karabakh (NKR). Dopo essersi laureato in Politica e Relazioni internazionale all’Università di Catania, Trupia ha lavorato nei Balcani, precisamente in Bulgaria, in progetti di cooperazione con minoranze etniche, religiose e (in senso lato) anche politiche, anche tra Serbia, Romania e Turchia. Maturando interesse per i processi di democratizzazione nello spazio post-Sovietico, ha deciso di andare a lavorare presso il Caucasus Research Resource Centre di Yerevan, e, come laureando, presso l’Università St. Klimenth Ohridiski di Sofia. Fin dal nuovo inizio del conflitto nel Nagorno-Karabakh ha seguito lo scenario per Alpha-Institute of Geopolitics and Intelligence, in cui è ricercatore. “I giorni precedenti il 2 Aprile mi trovavo vicino la zona occupata, ma in territorio armeno, per motivi legati alla mia ricerca. Per altrettanti, questa volta legati all’Istituto e all’Ambasciata italiana, che non ha giurisdizione nel Nagorno-Karabakh, non sono riuscito a oltrepassare il confine, nonostante sia controllato dalle autorità armene. Solo i pochi giornalisti accreditati hanno raggiunto Stepanakert e le varie zone del Karabakh. Ciononostante, sto mantenendo dei contatti presso gli uffici di Stepanakert, sperando di raggiungere la zona verso metà Maggio per riportare lo scenario post-conflitto“, ci racconta.

 

Partiamo dalle ragioni storiche della diatriba tra Armenia ed Azerbaijan?

Le ragioni della diatriba tra Armenia e Azerbaijan non sono ascrivibili solo al conflitto nel Nagorno-Karabakh dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica. D’altra parte, però, è pur vero che una ricostruzione storica della diatriba è assai complicata, poiché proprio la storia è stata negli anni manipolata da entrambi i Paesi e connessa a valori etnici e identitari di due popoli, e una regione, quella del Caucaso, crocevia geografico e politico di dinastie e dominazioni cristiane e islamiche. L’idea di Armenia per il proprio popolo ha una connotazione di ‘Patria’ piuttosto che dell’attuale entità Statale, con riferimenti risalenti fino al IV secolo d.C. quando il Karabakh rappresentava una regione della prima ‘Nazione cristiana’. L’Azerbaijan, invece, definisce la regione come un enclave forzatamente ‘armenizzata’ dalla Chiesa Apostolica di Armenia lungo i secoli, ma etnicamente ‘turksoy’ (turcofona), quindi ‘giustamente’ annessa alla Repubblica Socialista di Azerbaijan dall’Urss, e mantenuta tale anche dopo la caduta del regime sovietico. L’annessione del Karabakh all’interno dell’Amministrazione azera, nonostante Mosca conoscesse la demografia della regione, trasformò la maggioranza armena in minoranza in Azerbaijan. Una strategia, quella sovietica, volta a creare un ‘clima di instabilità’ tra le due ex Repubbliche sovietiche, in cui poter giocare un ruolo di pivot e amministrare il proprio potere centrale, mantenendone il controllo. La dissoluzione dell’Unione Sovietica condusse l’occupazione militare armena del territorio, con conseguente proclamazione unilaterale della de facto Repubblica del Nagorno-Karabakh nel 1991. Da allora instabilità e insicurezza hanno reso l’Armenia un ‘landlocked’, con Turchia e Azerbaijan a occidente e oriente, soli pochi chilometri di confine iraniano a sud e quelli georgiani a nord.

Una risoluzione del conflitto condurrebbe per forza la perdita del Karabakh per una delle due parti oggi contrapposte, anche qualora venisse riconosciuta la Repubblica di Stepanakert, che neanche Erevan riconosce. Per l’Armenia sarebbe una sconfitta valoriale prima che politica, dopo le rivendicazioni dei territori sottratti ‘ingiustamente’: non solo quelli dei confini occidentali, confinanti con la Turchia e delimitati dal monte Ararat, tutt’oggi chiusi, ma anche quelli dell’enclave del Nakhichevan, e appunto del Nagorno-Karabakh. Per l’Azerbaijan la dissoluzione dei propri confini nazionali, nonché una cocente sconfitta contro il nemico regionale. Ovviamente l’interesse russo non è da sottovalutare, poiché pienamente geopolitico. Durante l’Amministrazione comunista i rapporti tra i due popoli venivano moderati da Mosca, ma la dissoluzione dell’Unione Sovietica condusse la Russia a rintanarsi nelle proprie ‘faccende domestiche’ e lasciare l’inizio del conflitto nelle mani della comunità internazionale. L’ascesa della leadership di Vladimir Putin, che in quanto ex membro del KGB conosce molto bene le dinamiche nel Caucaso, anche per le guerre in Cecenia, ha ridato alla Federazione Russa una nuova dinamicità nella regione. Nonostante gli errori storici, piuttosto evidenti, oggi Mosca sembra essere uno degli attori più importanti nella difficile risoluzione del conflitto. L’ultimo ‘cessate il fuoco’, quello del 5 Aprile, è stato firmato davanti la presenza di Putin. Questo dovrebbe già far capire lo scenario e gli interessi russi sul Nagorno-Karabakh.

Il 2 aprile di quest’anno ci sono state gravi tensioni tra i due eserciti, quali sono i motivi della tensione?

I motivi degli ultimi scontri sono legati ai fattori storici citati e quindi al mero controllo del territorio, simbolo dell’identità nazionale sia per il popolo armeno che azero. Non parliamo di una regione con importanti risorse naturali o geograficamente rilevante. Eppure, come ho riportato nei report per Alpha Institute, l’escalation di violenza iniziata nelle prime ore del mattino del 2 aprile apre una nuova fase del conflitto stesso. La situazione rimane tesa nella zona occupata militarmente dagli armeni, soprattutto lungo la ‘linea di contatto’. Nonostante il ‘cessate il fuoco’, rispettato sia dalle autorità di Stepanakert, de facto capitale dell’autoproclamata Repubblica del Nagorno-Karabakh, sia da Baku, le rispettive agenzie di stampa nazionali riportano quotidianamente violazioni dell’accordo. Durante i ‘4 giorni di fuoco’ era impossibile capire l’andamento delle operazioni militari, poiché una vera e propria guerra di numeri e propaganda (con video al limite del cinematografico) è stata costruita da entrambi le parti. Sicuramente, però, le novità all’interno del conflitto introdotte in questo tesissimo mese di aprile, coincidente col mese del ricordo del genocidio del 1915, hanno riportato uno scenario di violenza mai visto negli ultimi anni. Un mix politico-culturale che, almeno in Armenia, ha ampliato la percezione del conflitto, con manifesti a supporto delle forze militari del Nagorno-Karabakh affisse nei bar e ristoranti, con tanto di codici Iban sui quali poter effettuare un proprio contributo economico, e con pubbliche raccolte di beni di prima necessità in cui anche i bambini imballavano pacchi di vestiti, viveri e sigarette per i soldati e i veterani di guerra. Sì, proprio i veterani della guerra del 1994, che insieme a tanti volontari hanno ripreso le armi per difendere la ‘propria terra’ pur non essendo membri delle Forze Armate. Sette di essi, sono stati uccisi da un drone israeliano che ha colpito il loro veicolo militare che li trasportava verso l’Arstakh, regione più calda del conflitto.

Questa la novità più importante: gli armamenti, l’utilizzo da parte degli azeri dei potenti TOS-1 Solntsepyok (venduti da Mosca nell’estate del 2014) e dei droni, non solo nelle attività di monitoraggio ma di attacco militare, stonano con una guerra combattuta finora in trincea e che ricorda più quelle della prima metà del Novecento. Lo stesso utilizzo del drone israeliano deve far riflettere. Quale ruolo ha Israele nel conflitto? Geograficamente nessuno, ovviamente, ma gli interessi legati ai rapporti diplomatici e soprattutto energetici tra Baku e Tel Aviv potrebbero aprire un’ennesima nuova fase di un conflitto sempre meno locale.  Poi si dovrebbe chiarire la ‘questione Isis’: la notizia emanata da ‘LifeNews‘ Russia appare non essere confermata del tutto, nonostante vi sia la certezza che cittadini azeri siano andati in Siria a combatte nelle fila di al-Baghdadi. Rimane un fenomeno che potrebbe scaturire all’intero del Caucaso, come avviene in Georgia ad esempio, ma ovviamente bisogna anche intendere la notizia come una strategia russa volta a fomentare il conflitto stesso in ottica anti-turca. Una tregua è possibile, e apparentemente c’è. Una definitiva conclusione del conflitto penso non sia solo difficile da attuare, ma anche da immaginare per i fattori in campo.

 

In quali scenari si potrebbe evolvere questa crisi?

Credo che, nonostante il ‘cessate il fuoco’, parlare di ‘frozen conflict’ sia ormai superfluo. Gli interessi intorno al conflitto, anche se lontani dalla regione teatro di guerra, avranno un risonanza sub-regionale e soprattutto internazionale, con i due outsiders principali nel Caucaso, ossia Russia e Turchia, pronti a strumentalizzare lo scontro per i propri interessi nella regione. Allo stesso modo, però, il Nagorno-Karabakh potrebbe rappresentare il loro ‘pantano politico’. La Russia gioca un ruolo di mediazione tra Erevan e Baku, in quanto conosce la regione e la sua influenza è ancora molto forte. Accusando la Turchia di affermazioni inaccettabili a sostegno dell’Azerbaijan, Mosca sta cercando di evitare nuove escalation: un suo errore potrebbe indebolire Mosca nella sua leadership nel Caucaso, già in difficoltà con la Georgia per gli scenari in Ossezia del Sud e Abkhazia. Il rischio di compromettere le attività nel Grande Medio Oriente, Siria e Iran in primis, e i già tesi rapporti con la Turchia, rimane alto. L’intera diplomazia russa è al momento in piena attività diplomatica a Erevan. Obiettivo è quello di non perdere credibilità agli occhi del popolo armeno, che per la prima volta dalla caduta dell’URSS ha protestato pesantemente davanti l’Ambasciata russa a Erevan per le politiche di Mosca legate alla vendita di armi a Baku. Ovviamente, anche l’Armenia dipende militarmente dalla Russia, ma la società civile armena sta mostrando un livello di partecipazione politica molto più alto rispetto agli anni passati. Tutto ciò avviene ad un anno delle elezioni presidenziali e a pochi mesi della riforma costituzionale.

La questione Karabakh, quindi, rimane centrale, in quanto conditio sine qua no per qualsiasi tipo di legittimazione di leadership politica in Armenia, ma anche in Azerbaijan. Gli ultimi due presidenti armeni, infatti, sono entrambi originari del Karabakh, nati proprio a Stepanakert, mentre per la famiglia Aliyev, dopo lo scandalo dei Panama Papers, una disfatta nel Karabakh potrebbe sancire un violento cambio di rotta nelle istituzioni azere. Dall’altra parte, Turchia e Israele: la prima vicina ‘etnicamente’ all’Azerbaijan, che nonostante aver espresso di voler ricostruire definitivamente i rapporti con l’Armenia ha espropriato nella zona orientale del Paese la più grande Chiesa cristiana del Medio Oriente, la Chiesa armeno-apostolica di San Ciriaco, e continua a tener chiusi i confini, anche per un’intransigenza armena sulla questione. Inoltre, sul riconoscimento del genocidio, Ankara è ferma sulla sua posizione: ‘nessun genocidio’, con il solito imbarazzante gioco sul numero delle vittime. Israele, invece, in ottica anti-Iran, potrebbe giocare un nuovo ruolo nel conflitto, ma attualmente rappresenta un incognita, o più scientificamente una di quelle ‘variabili dipendenti’ che in un conflitto sono difficili da analizzare. Ipotizzare un’analisi è difficile quindi. Potrei sintetizzare l’ennesimo stallo della situazione attraverso le parole di un soldato ventenne, che ho personalmente incontrato a Erevan di ritorno dalla notte di fuoco del 4 Aprile, che mi ha raccontato l’aneddoto dell’arrivo dei volontari al fronte. “Cosa state facendo qui? Non siete in grado di reggervi in piedi alla vostra età! Voi ci avete difesi in passato, adesso tocca a noi. Tornate a Stepanakert, o a Erevan, e fate di tutto affinché in questa terra gli armeni possano vivere in pace!

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La cucina d’Armenia: musica e parole a Cagliari per Le Salon de Musique (Ilpost.it 26.04.16)

Dopo il tutto esaurito fatto registrare nei giorni scorsi dal pianista romano Arturo Stàlteri, venerdì 29 aprile la rassegna Le Salon de Musique di Cagliari prosegue con una serata dedicata alla cucina e alle tradizioni dell’Armenia, a più di 100 anni dal Genocidio.

L’appuntamento è alle 20,30 a Cagliari, nell’incantevole Palazzo Siotto in via Dei Genovesi 114, con “La cucina d’Armenia”, letture e musica attraverso cui sarà ripercorso l’omonimo romanzo di Sonya Orfalian, artista, scrittrice e traduttrice figlia della diaspora armena.

Sul palco Elena Pau (voce recitante) e Irma Toudjian (pianoforte e composizioni originali in prima assoluta) proporranno le pagine del suggestivo libro della Orfalian che, partendo dalla quantità di ciascun ingrediente di una data ricetta, ricostruisce oltre 130 piatti della ricchissima tradizione culinaria armena, salvando così un pezzo di memoria che rischiava di andare perduto.

La serata è organizzata in collaborazione con l’associazione Luna Scarlatta per il festival Pazza idea, il circolo dei lettori Miele amaro e La Fabbrica Illuminata.

Il prezzo dei biglietti è di 8 euro (intero) e di 6 euro (ridotto).

L’edizione 2016 di Le Salon de Musique – Piano è realizzata con il contributo di Regione Autonoma della Sardegna- Assessorato alla cultura e del Comune di Cagliari- Assessorato alla cultura, in collaborazione con: Fondazione “Giuseppe Siotto”, La Fabbrica Illuminata, Luna Scarlatta, Itaca e Ojos Design.

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