L’Armenia valuta l’uscita definitiva dal CSTO (Osservatorio Balcani e Caucaso 26.09.24)

Dopo l’esito disastroso della guerra per il Nagorno Karabakh e il mancato intervento di Mosca, Yerevan ha congelato la sua partecipazione all’Organizzazione del Trattato per la Sicurezza Collettiva (CSTO) e pensa all’uscita dall’alleanza militare a guida russa

26/09/2024 –  Marilisa Lorusso

È dal 2020 che l’Armenia è frustrata dal mancato intervento dell’Organizzazione del Trattato per la Sicurezza Collettiva (CSTO) nel quadro del suo sistema di sicurezza.

Per Yerevan i conflitti transfrontalieri, gli scambi a fuoco e le accuse verso Baku di aver occupato parte del territorio armeno non hanno mai trovato la risposta che l’Armenia si aspettava dal CSTO. Anzi, l’organizzazione stessa ha dichiarato di non poter intervenire in scambi e tensioni transfrontaliere là dove il confine non è delimitato.

Per il governo armeno questo è però solo un pretesto per scaricare le responsabilità di tutela dell’integrità territoriale di un paese membro che l’organizzazione avrebbe dovuto proteggere e pertanto ora Yerevan sta valutando se rimanerne o meno stato membro.

Il 2024 è stato l’anno durante il quale i rapporti fra Armenia e CSTO sono diventati particolarmente difficili e Yerevan è passata dalle parole – molte – ai fatti.

All’inizio dell’anno una serie di dichiarazioni hanno provato che da parte del CSTO e Armenia c’erano percezioni molto diverse riguardo allo status del paese all’interno dell’organizzazione.

L’Armenia aveva già sospeso da parecchio tempo la collaborazione attiva con l’organizzazione e la partecipazione agli eventi e alle esercitazioni si è fatta sempre più sporadica.

L’ambasciatore Russo al CSTO Viktor Vasiliev  a gennaio ha dichiarato che questo sporadica collaborazione dell’Armenia dipendeva largamente dall’interferenza dell’Occidente e ha sottolineato che la sicurezza armena dipende dal CSTO e l’uscita del paese dall’organizzazione non era un argomento all’ordine del giorno.

Piuttosto differente la lettura data da Yerevan del quadro della propria partecipazione. Durante un’intervista a febbraio il primo ministro armeno Nikol Pashinyan ha dichiarato  che la partecipazione dell’Armenia all’organizzazione era di fatto congelata.

E questa è la definizione che Yerevan ha portato avanti da allora, un congelamento della partecipazione.

Queste parole hanno trovato però smentita da parte di Mosca: il portavoce del Cremlino Dmitri Pescov ha dichiarato che la condizione di congelamento della partecipazione all’organizzazione non ha uno statuto riconosciuto e quindi che Mosca avrebbe chiesto chiarimenti su che cosa intendesse il primo ministro armeno con questa definizione eterodossa.

Finanziamento ed esternazioni

Che cosa intendesse il primo ministro è risultato abbastanza evidente con l’inizio della primavera, quando l’Armenia ha dichiarato che non avrebbe più partecipato ai finanziamenti del CSTO.

L’organizzazione stessa ha cercato però nuovamente di sminuire l’importanza di questa scelta, sostenendo che era già successo che alcuni membri sospendessero il finanziamento, e che l’importante era che la coesione all’interno dell’organizzazione non venisse intaccata.

A intaccare la coesione sarebbe intervenuto un terzo giocatore  cioè il presidente della Bielorussia Alexander Lukashenka.

Durante un viaggio in Azerbaijan Lukashenka si è abbandonato alle sue tipiche esternazioni, facendole cadere come cose scontate, anche nella piena consapevolezza della gravità di quanto stava dicendo.

Il dittatore bielorusso ha sostenuto di aver discusso con il presidente Ilham Aliyev gli esiti della guerra ben prima che venisse combattuta, dimostrando così che la Bielorussia era assolutamente a conoscenza dei piani di Baku.

Ulteriori leaks  hanno dimostrato che Minsk ha anche contribuito ad armare l’Azerbaijan, che a differenza dell’Armenia non fa parte di nessuna alleanza militare con la Bielorussia.

Questo quadro ha scatenato le ire di Yerevan, con il primo ministro Nikol Pashinyan che ha dato piena voce ai dubbi che coltivava da parecchio tempo.

Secondo Pashinyan  alcuni paesi membri del CSTO non solo avrebbero aiutato l’Azerbaijan, armandolo e mancando dell’obbligo di informare l’alleato armeno del pericolo imminente, ma avrebbero agito per causare la sconfitta armena e comprometterne l’indipendenza.

Yerevan quindi dimostra una profonda sfiducia nella reale volontà degli alleati dell’Armenia, e ritiene di essere stata deliberatamente danneggiata invece che aiutata da quelli che sarebbero dovuti esseri i suoi partner militari.

A questo punto da parte armena si è cominciato a parlare esplicitamente dell’ipotesi di abbandonare il CSTO. Durante un “question time” in parlamento Pahinyan ha definito il CSTO  un’organizzazione bluff.

A causa delle dichiarazioni di Lukashenka anche i rapporti armeno-bielorussi sono significativamente peggiorati e la leadership armena ha dichiarato che nessun uomo politico o delle istituzioni armeno si recherà più in Bielorussia finché ci sarà come presidente Lukashenka.

Questo peraltro implica che l’Armenia non parteciperà agli incontri ufficiali delle organizzazioni di cui fa parte che si terranno in Belorussia, e può diventare un ottimo alibi per scansare ulteriori eventi CSTO.

E adesso?

Yerevan sta sicuramente considerando le conseguenze possibili di abbandonare il CSTO, un processo più facile da dichiarare a parole che da raggiungere nei fatti, soprattutto in modo indolore. Ancora lo scorso marzo il capo di stato maggiore del paese ha dichiarato   che le conseguenze sono in via di analisi, ma sono coperte da segreto di stato.

I termini della discussione si sono fatti sempre più accesi con il vice ministro degli Esteri russo Mikhail Galuzin che ha criticato apertamente la leadership armena e ha più volte mosso  aperte minacce al paese, invitando la sua classe dirigente a considerare gli effettivi rischi di un abbandono del CSTO.

Galuzin ha dichiarato  che la collaborazione armena con l’occidente avrebbe come conseguenza destabilizzazione a catena nella sicurezza nel Caucaso del Sud, a scapito della sicurezza e dell’integrità territoriale del paese, e ha ammonito il primo ministro e la leadership armena a non commettere errori di valutazione che potrebbero avere conseguenze molto gravi per la sovranità, la stabilità e lo sviluppo economico del paese.

Il 18 settembre Pashinyan è tornato sul tema  durante il Second Global Armenian Summit a Yerevan e ha dichiarato: “Abbiamo congelato la nostra adesione alla CSTO non solo perché la CSTO non garantisce i suoi obblighi di sicurezza nei confronti dell’Armenia, ma anche perché a nostro avviso la CSTO crea minacce per la sicurezza dell’Armenia e per la sua futura esistenza, sovranità e statualità. […] Esiste un’espressione chiamata ‘il punto di non ritorno’; non l’abbiamo ancora attraversato, ma c’è una grande probabilità che lo faremo. E nessuno avrà alcuna legittima occasione o motivo per biasimarci per questo”.

Il giorno dopo l’Armenia ha commemorato  mestamente il primo anniversario dalla caduta del Karabakh. Un anno fa, dopo nemmeno 24 ore di battaglia, il regime secessionista capitolava e iniziava l’esodo degli armeni dalla regione contesa.

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ARMENIA, MATTEO SALVINI AL 33MO ANNIVERSARIO DELL’INDIPENDENZA (Agenparl 26.09.24)

Logo (AGENPARL) – Roma, 26 Settembre 2024

Il vicepremier e ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, Matteo Salvini ha partecipato in qualità di ospite d’onore alla Festa per il 33mo Anniversario dell’Indipendenza dell’Armenia organizzato dall’Ambasciata armena a Roma, nella serata di ieri.
Salvini ha voluto rinnovare, durante la cerimonia, i sentimenti di profonda amicizia di tutto il Governo italiano al popolo ed al Governo armeno.

 

ARMENIA, UN ANNO DALL’OCCUPAZIONE DEL NAGORNO-KARABAKH (Opinione delle Libertà 26.09.24)

Dopo oltre tre decenni di conflitti, e passato un anno da quel 19 settembre 2023, quando l’Azerbaigian rovesciò militarmente l’autoproclamata autorità della ex regione autonoma del Nagorno-Karabakh, o Repubblica dell’Artsakh, il popolo armeno vive ancora sotto la minaccia dello scomodo, ma sempre più solido militarmente, vicino. Allora l’esercito di Baku in circa venti ore ha praticamente assunto il controllo del territorio popolato principalmente da armeni. Pochi giorni dopo furono avviati, mestamente per i rappresentanti armeni del Nagorno, i colloqui con gli azeri, che strumentalmente definiscono “separatisti” gli abitanti dell’area contesa; ma su questa descrizione non si può essere né sintetici, né superficiali, né generalisti. In quella operazione militare rimasero vittime oltre duecento armeni. Il territorio del Nagorno-Karabakh era già stato amputato dei suoi confini storici a seguito della prima vittoria azera, nell’autunno del 2020.

Poi l’Azerbaigian a dicembre 2022, con volontà unilaterale, chiuse il corridoio di Lachin, e così fu interrotto il legame terrestre tra gli artisakhioti, o karabakhi, che in pratica furono rinchiusi all’interno dei residui confini del Nagorno-Karabakh, e l’Armenia. Una operazione che apre tutt’oggi profonde riflessioni sui bilanciamenti geopolitici dell’area caucasica, in quanto la recisione del cordone tra l’Armenia e il Nagorno-Karabakh avvenne con il nulla osta, e la complicità della Russia di Vladimir Putin, che comunque è uno dei garanti dell’Armenia, e coordinatore degli accordi siglati tra i belligeranti. Ma gli effetti dell’isolamento portarono risultati quasi immediati; infatti fu spezzata la resistenza degli artisakhioti, anche perché i circa centoventimila abitanti piombarono in una carestia assoluta essendo interrotte le comunicazioni con l’Armenia, infatti già nell’estate del 2023 si iniziarono a contare i primi decessi per penuria dei generi necessari.

Un trauma che si aggiunge a un trauma: la perdita di un territorio con le sue tradizioni cristiane e la sua cultura, con la perdita del minimo per la sopravvivenza. Dalla “fame” scaturì terrore. Questo spiega la motivazione perché nessuno accettò di rimanere in patria dopo il 19 settembre 2023, quando la tirannia di Baku accompagnata dall’esercito azerbaigiano, invasero l’autoproclamata repubblica del Nagorno-Karabakh, ormai totalmente inerme e fragilissima. Le modalità offensive dell’autocrate presidente azero Ilham Aliyev richiamano ataviche tattiche militari. In realtà, fu posto un assedio in una regione che fu privata di tutto, una distruzione di massa raggiunta tramite il terrore assoluto. La complessità dell’operazione di Baku sfuma nella memoria e richiama l’epoca genocida. Probabilmente proprio la memoria indelebile del genocidio del popolo armeno del 1915, con i preamboli del 1894-96, ha martoriato la resistenza dei pochi abitanti del Nagorno-Karabakh; una palese pulizia etnica dell’autoproclamata repubblica e l’ennesimo spregio del diritto internazionale e dei diritti dell’umanità. Un anno fa la perseguitata popolazione artisakhiota, a rischio concreto di sopravvivenza, si rifugiò in Armenia. Così il Nagorno-Karabakh armeno, per ora, si è estinto demograficamente, umanamente e culturalmente. Resta una regione geografica controllata da Baku e inserita in un profondo programma di ripopolamento con popolazione azera-musulmana.

Gli azeri occupanti come da prassi, hanno annichilito velocemente ogni traccia di civiltà cristiana: chiese, cimiteri, monumenti storici, ma anche la toponomastica di ogni entità geografica, vie, piazze, quartieri, come le simbologie rappresentanti la politica. La narrazione della “cultura” dell’Azerbaigian afferma che gli armeni non sarebbero mai esistiti nel Nagorno-Karabakh. Molti capi artisakhioti sono scomparsi nelle profonde prigioni azere, tra questi anche Ruben Vardanjan, ex ministro, pare consegnato dai russi ai carcerieri azeri. Ricordo che l’enclave del Nagorno-Karabakh ottenne l’indipendenza nel 1991. Nel periodo 1992-94 l’esercito armeno sconfisse quello azero dimostrando una netta superiorità militare. Nella penultima guerra nel Nagorno, quella del novembre 2020, le forze armene furono sconfitte non dall’esercito azero ma da quello mercenario turco, composto soprattutto da jihadisti dell’ex Stato islamico, e dai droni di AnkaraLi vacillò quel sistema disequilibrato, che comunque ancora dava prospettive e speranze agli armeni della regione del Nagorno-Karabakh.

Inoltre il Ministero degli Esteri armeno il 21 giugno 2024 ha annunciato il riconoscimento dello Stato di Palestina, sottolineando la condivisione assoluta dei principi del diritto internazionale, quindi la sovranità (sensibilità diretta), l’uguaglianza e la convivenza pacifica dei popoli. Tuttavia ciò ha sollevato critiche reazioni da parte di Israele. Ma i rapporti tra lo Stato ebraico e l’Armenia si erano già deteriorati nel 2020, quando Yerevan ha accusato Gerusalemme-Tel Aviv di avere venduto all’Azerbaigian grandi quantità di armi che hanno permesso l’offensiva lampo nel settembre 2023 contro il Nagorno-Karabakh. Va anche rammentato che Israele fornisce all’Azerbaigian strategici sistemi di controllo informatico, anche invasivo, e apparecchiature elettroniche di intercettazione aerea; inoltre l’Intelligence israeliana può fare conto su queste relazioni per controllare il confinante Iran. Va sottolineato che nel contesto storico attuale dove operazioni militari tendono a modificare i confini geografici di alcuni Stati, occorre collocare la “questione armena” sullo scacchiere geopolitico valutando le criticità caucasiche; in quanto svincolare questa area di crisi da quella ucraina e georgiana, come da quella iraniana, potrebbe condurre a una visione limitata di un sistema geostrategico articolato ma legato ai medesimi ancoraggi. Ad oggi possiamo definire la questione del Nagorno-Karabakh come la classica dissoluzione metafisica; ma potremmo anche riflettere su due popoli, quello armeno e quello ebreo, che anche se accomunati dal medesimo dramma del genocidio, pare non siano in posizioni “politiche” complanari.

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SVIZZERA / ARMENIAUn silenzio non così innocente (Tio.ch 25.09.24)

BERNA – Le trattative di pace tra Azerbaijan e Armenia sono in corso. Ma tra Baku ed Everan scorre cattivo sangue. A ciò si aggiungono le intrusioni da parte di potenze straniere, che nutrono interessi propri nel raggiungimento di un accordo. Per non parlare dei preparativi necessari a ospitare la Conferenza sul clima delle Nazioni Unite (COP29) il prossimo 11 novembre in Azerbaijan. «A questo punto non sappiamo se le parti intendano risolvere il conflitto prima del grande evento», afferma il Segretario generale del gruppo parlamentare svizzero per l’Armenia Sarkis Shahinian.

Segretario, come si colloca la Svizzera di fronte al conflitto tra i due Paesi e al raggiungimento di un accordo?
«In quanto depositaria del diritto umanitario internazionale, la Svizzera si ritrova ad avere determinate responsabilità. In questo momento la comunità armena sta chiedendo al Consiglio federale di utilizzare questa responsabilità nei confronti dell’Azerbaijan, soprattutto adesso che la Svizzera è membro non permanente del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, e questo per fare pesare la sua voce durante la conferenza sul clima».

È percepibile questa voce?
«Assolutamente no. Non capisco il silenzio assordante dietro il quale si è trincerata la Svizzera e la sua totale passività di fronte alla questione. In passato il consigliere federale Cassis aveva dichiarato che la sua amministrazione era preoccupata e che si stava occupando della gestione del conflitto. Ma francamente non si sono visti risultati».

Su che punti critica Cassis?
«Non riesco a capire perché non parli chiaramente di violazione del diritto internazionale, di epurazione etnica e di violazione della sovranità dell’Armenia da parte dell’Azerbaijan, laddove non ha avuto problemi a parlare chiaramente di invasione della Russia in Ucraina. Non capisco neppure come l’Unione europea possa mediare il conflitto, quando permette alla Russia di eludere le sanzioni, acquistando gas dall’Azerbaijan. La Russia infatti vende gas a metà prezzo all’Azerbaijan, che poi vende lo vende a prezzo intero all’Unione europea, il che permette al Cremlino di finanziare la guerra in Ucraina».

A cosa è dovuta l’inattitudine del Consiglio federale?
«Mi chiedo quale sia il peso dalla SOCAR, la grossa azienda petrolifera di Stato azera con sede a Ginevra, che realizza 36 miliardi di franchi all’anno su suolo svizzero e che si è vantata di avere finanziato la guerra contro gli armeni».

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Armenia-Turchia, incontro Pashinyan-Erdogan: “Proseguire gli sforzi per normalizzare le relazioni” (Agenzia Nova 25.09.24)

Il primo ministro armeno Nikol Pashinyan e il presidente turco Recep Tayyip Erdogan si sono incontrati a margine della 79ma sessione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite in corso a New York. Lo ha riferito l’ufficio del primo ministro in una nota

I due leader hanno discusso in modo dettagliato dei passi già compiuti e egli accordi esistenti nell’ambito del processo di normalizzazione delle relazioni tra Armenia e Turchia, sottolineando la disponibilità a proseguire il processo di risoluzione delle controversie senza precondizioni e a dare un nuovo impulso alle relazioni. Il primo ministro Pashinyan ha informato il presidente Erdogan sulla situazione attuale del processo di risoluzione delle controversie tra Armenia e Azerbaigian, sulla disponibilità a firmare l’accordo sulla risoluzione delle relazioni e sull’iniziativa “Crocevia della pace” del governo armeno. Durante l’incontro Erdogan ha regalato a Pashinyan il suo libro “Un mondo più giusto è possibile”. Erdogan ieri, nel corso del suo intervento all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, ha ribadito la volontà di “stabilire legami diplomatici, politici ed economici con l’Armenia”. Secondo Erdogan, gli sviluppi che possono essere raggiunti nel processo di pace in corso tra Azerbaigian e Armenia avranno un “impatto positivo” anche sulla normalizzazione delle relazioni tra Ankara e Erevan.

New York: il ministro Tajani incontra gli omologhi di Armenia e Azerbaigian (Aise 25.09.24)

NEW YORK\ aise\ – A margine della Settimana di Alto Livello della 79ma Assemblea Generale delle Nazioni Unite, il vice presidente del Consiglio e ministro degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, Antonio Tajani, ha incontrato i ministri degli Esteri dell’Armenia, Ararat Mirzoyan, e dell’Azerbaigian, Jeyhun Bayramov.
“Seguiamo con la massima attenzione gli sviluppi nel Caucaso Meridionale, regione strategica per il nostro Paese e per l’intera Europa. L’Italia è in prima linea per facilitare il raggiungimento di un’intesa di pace globale tra Jerevan e Baku” ha dichiarato il ministro Tajani, ricordando altresì “l’importante ruolo che l’Unione Europea può giocare per una mediazione nel processo negoziale e per una soluzione stabile e sostenibile”. (aise)


 

Armenia, il corridoio della discordia (Altrenotizie 24.09.24)

Nel cuore del Caucaso, una regione caratterizzata da secoli di rivalità etniche, contese territoriali e scontri geopolitici, sta emergendo una nuova questione capace di ridefinire i fragili equilibri dell’area: il Corridoio Zangezur. Situato nella parte meridionale dell’Armenia, questo stretto tratto di terra è diventato il fulcro di tensioni tra Armenia, Azerbaigian e Turchia, con implicazioni che superano ampiamente i confini locali, giungendo a coinvolgere grandi potenze come la Russia e l’Iran, oltre che l’Unione Europea e gli Stati Uniti.

Il Corridoio Zangezur è una fascia strategica che separa l’Azerbaigian dal suo exclave, il Nakhchivan, e che confina direttamente con l’Iran. Questo lembo di terra è diventato un elemento cruciale nel conflitto post-bellico tra Armenia e Azerbaigian, in particolare dopo la guerra del 2020 per il controllo del Nagorno-Karabakh. L’accordo di cessate il fuoco mediato dalla Russia ha lasciato una scia di questioni irrisolte, una delle quali è proprio l’apertura di una via di comunicazione terrestre che colleghi l’Azerbaigian al Nakhchivan, bypassando l’Armenia e aggirando il controllo armeno sulle principali arterie di collegamento.

Il governo azero, sostenuto apertamente dalla Turchia, ha avanzato la richiesta di creare un corridoio attraverso il territorio armeno di Zangezur, che garantirebbe a Baku non solo un passaggio diretto verso la repubblica autonoma di Nakhchivan ma anche un accesso strategico alla Turchia, alleata chiave dell’Azerbaigian. Tuttavia, l’Armenia vede in questa proposta una minaccia alla propria sovranità e una possibile perdita di controllo su una parte del proprio territorio. Per queste ragioni si oppone fermamente a tale soluzione.

La questione del Corridoio di Zangezur non è un semplice disaccordo di confine, ma una miccia potenzialmente esplosiva in una regione in cui le tensioni tra potenze locali e internazionali sono costantemente alimentate da rivalità storiche e interessi economici. La Russia, tradizionalmente considerata la principale garante della sicurezza armena e presente militarmente nella regione, si trova in una posizione ambigua. Da un lato, Mosca non può permettersi di perdere l’Armenia come alleato strategico nel Caucaso meridionale, ma dall’altro è anche legata all’Azerbaigian da interessi energetici e commerciali. Un’apertura del corridoio potrebbe consentire alla Russia di consolidare la sua influenza sulla regione attraverso un maggiore controllo delle vie di comunicazione e dei flussi energetici, ma potrebbe anche indebolire la posizione armena e alimentare instabilità.

L’Iran, dal canto suo, vede con estrema preoccupazione la prospettiva di un corridoio sotto controllo azero e turco lungo i suoi confini settentrionali. Teheran ha storicamente mantenuto rapporti stretti con l’Armenia come contrappeso all’influenza turca e azera nella regione. Un corridoio di Zangezur gestito da Baku e Ankara rappresenterebbe per l’Iran non solo una minaccia geopolitica, ma anche un rischio per la sua sicurezza nazionale, poiché faciliterebbe l’influenza turca nel Caucaso e nei paesi dell’Asia centrale, tradizionalmente considerati parte della sfera di interesse iraniana.

A livello globale, le grandi potenze occidentali osservano con attenzione l’evolversi della situazione. L’Unione Europea, pur sostenendo ufficialmente l’integrità territoriale dell’Armenia, è interessata a mantenere stabili relazioni con l’Azerbaigian, importante fornitore di gas e petrolio, soprattutto in un contesto segnato dalle velleità di sganciarsi in ambito energetico dalla Russia. Gli Stati Uniti, nel frattempo, tentano di bilanciare il proprio appoggio storico all’Armenia, dovuto anche alla significativa diaspora armena presente nel paese, con la necessità di mantenere aperti i canali diplomatici e commerciali con l’Azerbaigian e la Turchia, quest’ultima membro fondamentale della NATO ed entrambi ritenuti cruciali per la sicurezza energetica dell’Occidente.

La questione del Corridoio di Zangezur rischia quindi di alimentare ulteriori scontri militari e diplomatici tra Armenia e Azerbaigian, con possibili ripercussioni a catena per l’intera regione del Caucaso e oltre. La delicatezza del momento richiederebbe soluzioni diplomatiche equilibrate che tengano conto degli interessi di tutte le parti coinvolte, evitando una nuova escalation di violenza.

Nel breve termine, l’esito delle negoziazioni sul corridoio sarà determinato dalla capacità delle potenze locali e internazionali di trovare un compromesso che garantisca la sicurezza e la sovranità dell’Armenia, ma che, al tempo stesso, risponda alle aspirazioni economiche e geostrategiche dell’Azerbaigian e della Turchia. In ogni caso, la partita che si sta giocando nel Caucaso non è solo locale: i nuovi equilibri di potere che si andranno a formare avranno inevitabilmente ripercussioni su tutto lo scacchiere eurasiatico.

Di fronte a questo scenario, è evidente che il Corridoio di Zangezur rappresenti più di una semplice via di comunicazione; esso è un simbolo delle nuove dinamiche geopolitiche che stanno ridisegnando i confini dell’influenza in Eurasia. E, come spesso accade in questi contesti, il destino di una piccola regione può avere conseguenze globali di ampia portata.

Yerevan e Baku al bivio, la Russia fa la voce grossa (Osservatorio Balcani e Caucaso 24.09.24)

Nonostante le speranze che un accordo tra Armenia e Azerbaijan potesse essere siglato o firmato entro novembre di quest’anno, la situazione appare sempre più incerta mentre la Russia entra di nuovo nella mischia

24/09/2024 –  Onnik James Krikorian

Quattro anni dopo l’inizio della guerra dei 44 giorni tra Armenia e Azerbaijan, e un anno dopo l’esodo di 100mila armeni etnici dalla regione separatista del Nagorno Karabakh, le speranze che ci potesse essere una nuova opportunità per risolvere il conflitto stanno svanendo.

Sebbene Yerevan, sostenuta da Francia e Stati Uniti, creda che sia possibile prima di novembre, Baku sostiene che nessun accordo finale può essere firmato finché non saranno rimosse quelle che considera rivendicazioni territoriali, sebbene espresse indirettamente, nella costituzione armena. Yerevan sostiene invece che è l’Azerbaijan a presentare tali rivendicazioni sul suo territorio.

In ogni caso, novembre sarà anche un mese cruciale per definire finalmente un accordo o almeno fare progressi significativi. Le presidenziali americane del 5 novembre potrebbero segnare un cambiamento nella politica nei confronti della regione.

Il prossimo vertice della Comunità politica europea si terrà il 7 novembre in Ungheria, prima che Baku ospiti la Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici di quest’anno (COP 29) l’11 novembre. Sebbene l’Armenia sia stata invitata a partecipare, non ha ancora preso una decisione a riguardo.

In una rara dichiarazione congiunta di Yerevan e Baku dello scorso dicembre, tuttavia, l’Armenia ha sostenuto la candidatura dell’Azerbaijan per ospitare l’evento.

All’inizio di quest’anno è seguito uno storico accordo sul ritorno dei villaggi non enclave sotto il controllo dell’Armenia dall’inizio degli anni ’90, così come l’inizio della delimitazione e della demarcazione dei confini su quella parte del confine condiviso.

Il 30 agosto le parti hanno firmato i regolamenti per la futura demarcazione dei confini, che dovranno essere approvati dalla corte costituzionale e ratificati dal parlamento.
Tuttavia, permangono altri ostacoli. Entrambe le parti hanno confermato che sono stati concordati 13 dei 17 articoli di un accordo sulla normalizzazione delle relazioni. Dei restanti quattro, tre sono stati parzialmente concordati, mentre uno rimane uno scoglio importante.

Alla fine di agosto, l’Armenia ha rimosso tutti e quattro i punti e ha restituito il documento modificato a Baku dichiarandosi pronta a firmare immediatamente i punti concordati. L’Azerbaijan ha criticato la mossa e ha ribadito che non si potrà firmare nulla di definitivo senza un accordo su tutti gli articoli.

Invece, Baku afferma che potrebbe essere pronta a siglare quei punti concordati come documento provvisorio, continuando a negoziare sui restanti quattro. A meno che l’Azerbaijan non ritiri la sua insistenza nel cambiare la costituzione armena, sembra improbabile che un accordo di pace possa essere firmato prima del 2027, quando il primo ministro armeno Nikol Pashinyan ha in programma di cambiarla comunque tramite referendum.

L’anno scorso Pashinyan aveva riconosciuto il problema con il preambolo costituzionale e continua a ribadire che l’Armenia non ha più rivendicazioni territoriali sull’Azerbaijan. Il presidente azero Ilham Aliyev, tuttavia, non sembra fidarsi della sua parola o della posizione di chi potrebbe arrivare al potere in futuro.

L’opposizione armena e molti commentatori nazionali sostengono che il premier armeno ha disperatamente bisogno di un accordo di pace se vuole affrontare con agio le prossime elezioni parlamentari che si terranno entro metà giugno 2026.

Avendo basato il suo primo incarico del dopoguerra sul successo del suo tanto pubblicizzato programma di pace, il primo ministro andrebbe incontro ad un fallimento se non ne uscisse nulla di concreto. I suoi detrattori lo accusano già di aver fatto concessioni unilaterali a Baku. Parlando ad una conferenza a Yerevan la scorsa settimana, Pashinyan ha ribadito questa posizione: “C’è solo una garanzia di sicurezza: la pace”, ha detto al pubblico.

Tuttavia, c’è un certo senso di ansia evidente anche tra i suoi alleati nella società civile e tra gli osservatori solidali all’estero, soprattutto dopo la visita del presidente russo Vladimir Putin a Baku il 19 agosto.

Mentre il suo governo continua a segnalare un orientamento verso gli Stati Uniti e l’Unione Europea, la Russia potrebbe rivolgere di nuovo alla regione la sua attenzione, precedentemente distratta dall’Ucraina.

Yerevan continua a dipendere da Mosca per la sua energia e per la sua economia in particolare. All’inizio di questo mese, Pashinyan ha accettato un invito dal presidente russo Vladimir Putin a partecipare al prossimo incontro dei BRICS a Kazan in ottobre.

I BRICS, un blocco geopolitico fondato da Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica nel 2009, si è da allora espanso per includere altri paesi come l’Iran, ed è sempre più considerato un potenziale rivale del G7. All’inizio di questo mese, la Turchia ha fatto domanda per entrare nel blocco.

La partecipazione del presidente azero Ilham Aliyev sia al vertice dei BRICS che a quello dei leader della Comunità di stati indipendenti del mese prossimo in Russia fa temere ad alcuni che anche la Russia possa tentare di influenzare i negoziati tra Armenia e Azerbaijan.

Con la rivalità geopolitica in aumento nel Caucaso meridionale ad un ritmo senza precedenti, soprattutto per lo sblocco  dei trasporti regionali, non si sa se Armenia e Azerbaijan possano siglare o firmare un documento.

Ciò che è chiaro, tuttavia, è che le settimane prima di novembre potrebbero dimostrare se un accordo di pace verrà raggiunto prima che l’Armenia entri nel suo prossimo ciclo elettorale a partire dall’anno prossimo.

Yerevan sembra temere che Mosca tenti di interferire. Il 18 settembre, Yerevan ha annunciato di aver impedito un tentativo di colpo di stato armato da parte di cittadini armeni ed ex residenti del Karabakh, presumibilmente addestrati in Russia.

Il 20 settembre, la portavoce del ministero degli Affari Esteri russo Maria Zakharova ha ricordato a Yerevan i vantaggi che trae come membro dell’Unione economica eurasiatica guidata dalla Russia. “Il 90% del grano che va in Armenia […] proviene dalla Russia. Forse allora potete contattare la Federazione russa […] per discutere della vostra sicurezza alimentare”, ha affermato.

E poiché l’Armenia dipende dalla Russia anche per la sua energia, l’ex ambasciatore statunitense all’OSCE Daniel Baer e vicepresidente senior del Carnegie Endowment si è espresso minacciosamente in una recente udienza del Congresso. “Gli armeni devono essere preparati a sopportare alcuni inverni freddi”, ha affermato.

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ARMENIA: Vite al confine. Seminare fiori per arginare le erbacce (East Journal 24.09.24)

Da aprile 2024 in Armenia sono in corso proteste contro il governo, il quale ha avviato trattative con l’Azerbaigian finalizzate alla demarcazione dei confini contesi da anni tra le due nazioni. A partire da questi fatti, si vuole raccontare cosa significa vivere lungo la frontiera.

Il processo bilaterale avviato dalle due nazioni segna un cambio di rotta: per la prima volta, dopo trent’anni di guerra, Baku e Yerevan si impegnano ad affrontare le dispute territoriali con la diplomazia e non con le armi. La diatriba risale a prima delle guerre del Nagorno Karabakh, quando i due Stati avevano sottoscritto l’accordo di Alma-Ata del 1991, con il quale si sanciva la nascita della CSI e si definivano i confini degli stati membri. Nonostante il trattato, sia Armenia che Azerbaigian non hanno mai rispettato l’accordo, contestando di volta in volta le mappe a seconda degli interessi e dei rapporti di forza che si presentavano. Ora, invece, i governi esultano di fronte al riconoscimento reciproco delle carte sovietiche, laddove si trovavano trincee e terre di nessuno ora si piantano cippi e reticolati. Nonostante i proclami istituzionali, all’annuncio della cessione di alcuni territori all’Azerbaigian gran parte del Paese è sceso in piazza a protestare. In particolare, si tratta di quattro villaggi nella regione di Tavush conquistati dall’Armenia nella guerra del ‘92-94 e considerati oggi particolarmente strategici per la presenza di importanti gasdotti, oltre che per la vicinanza all’autostrada che collega il Tavush con la Georgia. Le motivazioni del malcontento sono anche relative alla sicurezza degli abitanti, infatti, con l’avvicinamento del confine, gli agricoltori della zona temono di non poter più coltivare le proprie terre essendo maggiormente esposti agli attacchi dell’Azerbaigian. Il timore è che il presidente azero Aliyev non si accontenterà di queste concessioni ma, al contrario, dopo la firma avanzerà altre pretese.

 

Arnie e vecchie macchine agricole in un campo. Foto di Sebastiano Teani

 

I manifestanti lamentano dunque l’iniquità della cessione, ennesima testimonianza della superiorità militare di cui gode Baku. D’altro canto, se in questo momento Yerevan sostenesse un braccio di ferro con Baku si riaprirebbe l’opzione militare e Pashynian sa bene che l’Azerbaigian potrebbe prendersi con la forza i quattro villaggi in poco tempo, con il rischio di non fermarsi a quelli. Sarà compito del governo cercare un delicato equilibrio tra rivendicazioni interne e pressioni esterne, per evitare l’ennesima escalation o, peggio, uno scontro diretto che in questo momento l’Armenia non sarebbe in grado di sostenere.

Nelle strade di Yerevan si intrecciano proteste e repressione, si incontra una società civile a favore della soluzione diplomatica e sostenitori dell’opposizione accampati nelle piazze. Muovendosi in questo intrico di contraddizioni, più volte è capitato di sentir dire che la vita nei villaggi di frontiera non è molto diversa da quella nella capitale. Frasi che non trovano riscontro nelle testimonianze di chi il confine lo abita davvero.

 

La strada per Nerkin Khndzoresk. Foto di Sebastiano Teani

 

Samvuel rimane perplesso quando gli riportiamo queste parole, lui che abita a Nerkin Khndzoresk non può immaginarsi niente di più distante dalla sua vita della frenesia e dei palazzi di Yerevan. Siamo nella provincia di Goris, nell’estremo sud-est del paese, in un piccolo villaggio fondato nel 1983 e raggiungibile solamente attraverso una strada disastrata che si snoda per diversi chilometri lungo il confine, sorvegliata dalle postazioni trincerate dell’esercito nemico. Il villaggio è stato fondato dalle autorità sovietiche con il dichiarato intento di arginare le incursioni provenienti dalla vicina RSS d’Azerbaigian (Repubblica Socialista Sovietica). Ciononostante, gli sconfinamenti si verificano ancora oggi, con incursioni da parte di soldati azeri che valicano il confine per rubare bestiame o accaparrarsi di terreno, spostando sempre più in là il limite. Molti contadini armeni, come Samvuel, non possono più coltivare terre di loro proprietà perché minacciati dai militari.

 

Samvuel nella via dove abita. Foto di Sebastiano Teani

 

Il villaggio raccoglie 70 famiglie adagiate in una conca lambita su tre lati dal confine, una spina di terra armena conficcata nel fianco dell’Azerbaigian. Le postazioni dell’esercito azero attorno al paese sono aumentate dopo la disfatta del Nagorno Karabakh del settembre scorso, arrivando alle attuali quindici. “Di notte vediamo movimenti di macchine e mezzi oltre il confine” racconta Samvuel, “probabilmente stanno rinforzando le posizioni o progettando qualcosa, speriamo la prima delle due”. È paradossale pensare che, nonostante il tangibile senso di pericolo, nessuno degli abitanti voglia andarsene da Nerkin Khndzresk. L’incentivo a rimanere arriva anche dal governo, il quale stanzia sussidi per chi erige nuove abitazioni lungo le zone di confine. Narek, il padre 73enne di Samvuel, ci dice entusiasta che stanno costruendo dieci nuove case per accogliere gli sfollati del Nagorno Karabakh. “Le persone del Karabakh sono ingegnose, arricchiranno sicuramente la comunità”.

 

Case in costruzione per gli sfollati del Nagorno Karabakh. Foto di Sebastiano Teani

 

“Da noi si dice: piantare fiori per arginare le erbacce” continua Narek, “sono le persone che rendono sicuro il confine. Qui c’è la mia attività, la mia terra, la mia vita. Anche se venissero gli azeri preferirei morire qui combattendo che andarmene”. Sulla quotidianità aleggia una cappa pesante, tutti gli abitanti vivono con il pensiero assillante di poter essere costretti a scappare da un momento all’altro. C’è già pronto un piano di evacuazione per donne e bambini, anche se in realtà nessuno di loro abbandonerà il villaggio, tutti vogliono restare per combattere. Nonostante questo pericolo costante, in questo punto la frontiera non è presidiata dall’esercito ma solo dal National Security Service, corpo di intelligence governativo nato dalle ceneri del KGB.

 

Narek di fronte alla casa dove abita con la susua famiglia. Foto di Kevork Hayrabedian

 

L’NSS non può intervenire militarmente ma deve limitarsi all’osservazione del confine, richiedendo l’intervento delle Forze Armate in caso di necessità. Questa mancanza amplifica il senso di abbandono e gli abitanti si sentono osservati dalle postazioni trincerate, sanno che i soldati nemici seguono costantemente i loro movimenti dalle feritoie.

Quando è scoppiata la prima guerra tra Armenia e Azerbaigian, nel 1992, gli eserciti erano sguarniti e privi dell’equipaggiamento essenziale, spesso anche delle divise, perciò i primi scontri furono assalti all’arma bianca. “Per combattere usavamo quello che avevamo: accette e falcetti”, ricorda Narek. Gli armeni sono riusciti a vincere nel ‘94 perché erano più motivati e compatti, “ma ora la solfa è cambiata, gli azeri hanno droni e armi all’avanguardia [molti dei quali forniti da Israele, ndr], noi solamente vecchi fucili in soffitta”. Mentre Samvuel cuoce sulla brace i Khorovats – tipici spiedi armeni, Narek ci spiega come, alla fine della guerra, il governo intimò a tutti i cittadini armeni di riconsegnare le armi, ma Nerkin Khndrzersk insorse e costrinse le autorità a concordare una deroga in virtù della particolare situazione del villaggio. Per questo gli abitanti sono tra i pochi autorizzati a tenere i fucili e quasi tutte le case sono dotate di un rifugio sotterraneo, con tanto di feritoie da cui sparare rimanendo al coperto. Samvuel ci mostra il rifugio in cui sono sempre pronti a riparare in caso di attacco e che funge anche da cantina, stracolmo di barattoli di conserve, verdure sottaceto e frutta in agrodolce. L’ultima volta che l’hanno usato è stato nel settembre del 2022, quando l’Azerbaigian ha sferrato un attacco in varie aree di confine ed è penetrato in territorio armeno per diversi chilometri, anche grazie all’uso di bombardamenti ed artiglieria pesante, causando centinaia di morti tra militari e civili.

 

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Areg nel rifugio sotterraneo. Foto di Sebastiano Teani

 

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Narek, Samvuel e il figlio Areg. Foto di Sebastiano Teani

 

Hermine e Davit sono i vicini di Samvel e abitano nell’ultima casa del villaggio, a poche centinaia di metri dal confine. Grazie all’aiuto di Near East Foundation sono riusciti ad aprire un panificio adiacente alla loro abitazione, servendosi dello stesso stanzone in cui, durante la guerra del 2020, offrivano rifugio ai soldati impegnati al fronte. Il salone era stracolmo di brandine dove i militari potevano riposare, mentre Hermine cucinava per loro. “Nell’arco di 5 mesi sono circa 5000 i soldati passati di qui”, racconta, “nel frattempo Davit combatteva al fronte e al telefono mi diceva che andava tutto bene, anche se non era vero”. Il laboratorio è anche dotato del tipico forno a pozzo con cui si cuoce il lavash, pane tradizionale che viene cotto sulle pareti incandescenti di pietra. “Preparare il lavash è un arte complessa e nessuno che sia in grado di farlo vuole venire a vivere quaggiù” sospira sconsolata Hermine, guardando il forno spento e impolverato. “Lavoro sempre di notte, sapere che sono sveglia quando tutti dormono mi illude di poter proteggere i miei cari”. Quando nel 2020 hanno bombardato il villaggio, il figlio piccolo di Hermine e Davit era convinto che fosse stata la madre a non farli colpire. “Lui credeva che fossi una supereroina e io gliel’ho lasciato credere”. Quando all’alba finisce di lavorare e vede i contadini che si dirigono alle stalle può finalmente coricarsi.

 

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Il rifugio sotterraneo usato come cantina. Foto di Kevork Hayrabedian

 

Quando Hermine deve allontanarsi dal villaggio è doppiamente contenta: quando sale in macchina, perché sente di potersi lasciare alle spalle la tensione, anche solo per qualche ora; e quando torna, felice di non aver mollato e di essere di nuovo lì. “Anche se non c’è una chiesa nel villaggio, io sento che questa terra è sacra”.

 

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Hermine di fronte alla sua abitazione. Foto di Kevork Hayrabedian

 

Nonostante vivano questa tensione quotidianamente, non c’è rassegnazione nei loro volti, Samvuel ci mostra con orgoglio la novità: da poco è riuscito a far arrivare nella sua stalla un impianto idroponico con cui coltivare foraggio per gli animali in ogni stagione, con cicli di crescita di soli 8 giorni. Oltre al lavoro, seppur incessante, Samvuel, sua moglie ed Hermine insegnano nella scuola di paese, investendo molto nell’educazione delle nuove generazioni. Davit, invece, dopo aver distribuito il pane a tutte le famiglie del villaggio, va a lavorare il terreno su cui ha appena piantato mille alberi.

 

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Narek va al lavoro nelle stalle. Foto di Kevork Hayrabedian

 

Mille alberi di cui vuole credere che suo figlio potrà raccogliere i frutti, e così i figli dei suoi figli. Questi alberi testimoniano silenziosi la resistenza quotidiana di questa gente, la dignità e la tenacia che sovrastano le barbarie e i soprusi. Gli abitanti di Nerkin Khndzoresk affrontano ogni giornata con orgoglio e amara consapevolezza. “È al costo della nostra stessa vita che costruiamo qualcosa per il villaggio”.

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CAUCASO: MENTRE IL MONDO SI PREPARA ALLA GUERRA, IN ARMENIA POTREBBE “SCOPPIARE” LA PACE (Difesa On Line 23.09.24)

(di Andrea Cucco)
23/09/24

Mentre mezzo pianeta si prepara alla guerra, nel Caucaso sembra finalmente aprirsi una strada verso la pace dopo oltre un secolo di tensioni. Le crisi tra Armenia e Azerbaijan non sono infatti nuove, hanno radici nel XIX secolo quando rivalità etniche e religiose emersero già sotto l’Impero Russo.

Nel 1921, l’Unione Sovietica assegna il Nagorno-Karabakh, una regione a maggioranza armena, all’Azerbaijan, creando una frattura territoriale. Il contenzioso rimane sopito fino alla fine degli anni ’80, quando il Nagorno-Karabakh dichiara la volontà di unirsi all’Armenia, scatenando scontri violenti.

Dopo il crollo dell’URSS, nel 1991, scoppia una guerra su larga scala che termina nel 1994 con un cessate il fuoco e il controllo armeno sulla regione. Le tensioni persistono per decenni, con sporadici scontri armati.

Nel settembre 2020 scoppia l’ennesimo conflitto, noto come la “Guerra dei 44 giorni”, che culmina con un cessate il fuoco mediato dalla Russia (che è rimasta sostanzialmente ad osservare la sconfitta dell’alleato armeno). L’Azerbaijan riesce a riconquistare una parte significativa del territorio perso durante la prima guerra del Nagorno-Karabakh. La tregua ha cambiato gli equilibri della regione, ma non ha risolto la questione territoriale.

Nel settembre 2023 il Nagorno-Karabakh subisce l’ultima violenza dopo aver subito un lungo blocco di beni di prima necessità, come cibo e medicine: l’Azerbaijan lancia un’offensiva militare che porta alla resa delle forze armene e al controllo totale della regione. Oltre 100.000 armeni fuggono in Armenia, creando un esodo di massa. La Repubblica del Nagorno-Karabakh termina il 1° gennaio 2024. La regione è da quel momento completamente sotto il controllo azero.

Nonostante la presenza di un vincitore ed uno sconfitto, la guerra non potrà dirsi conclusa senza un vero accordo di pace. Un epilogo che, liberando o creando nuove linee di comunicazione e commercio, potrebbe far ulteriormente decollare un’economia già oggi in forte crescita.

Durante una nostra recente visita a Yerevan abbiamo incontrato il vice ministro degli Esteri armeno, Paruyr Hovhannisyan, che ci ha raccontato i progressi fatti nelle trattative con l’Azerbaijan.

Possiamo parlare dello stato attuale delle negoziazioni con l’Azerbaijan per il trattato di pace?

Sì, penso che, nonostante tutte le difficoltà, abbiamo fatto progressi negli ultimi mesi. La parte preambolare e 13 dei 17 articoli totali dell’accordo di pace sono già stati accettati dalle parti. Tra i quattro capitoli rimanenti, tre sono già quasi completamente concordati, ci sono solo alcune questioni di formulazione. In sostanza, rimane un solo articolo da discutere.

Quindi non siamo mai stati così vicini e recentemente il mio primo ministro ha proposto di rendere pubblico all’Azerbaijan che potremmo firmare tutto ciò che abbiamo già concordato.

È possibile conoscere l’unico articolo che è ancora in discussione?

Non è molto importante, non posso rivelarlo poiché le negoziazioni sono ancora in corso. Ma possiamo dire che non è l’articolo più importante. La cosa più significativa per questo accordo è che i principi fondamentali per l’istituzione della pace sono tutti concordati, come lo sono tutti gli elementi necessari per stabilire normali relazioni, inclusi i punti per l’istituzione di rapporti diplomatici e una commissione bilaterale per monitorare l’attuazione del trattato.

Anche senza l’articolo in questione l’accordo è valido e rilevante.

Se ci fosse la possibilità di incontrarsi, potremmo completare in un’ora e firmare o approvare il testo!

Penso che le negoziazioni siano per lo più concluse. Potrei dire che con l’ultima versione che abbiamo scambiato, abbiamo raggiunto questo livello.

Di recente siamo anche riusciti a firmare le regole di procedura per la delimitazione dei confini, che facevano parte dei colloqui di pace. Questo è il primo documento che abbiamo mai firmato con l’Azerbaijan, letteralmente MAI. Significa che non ci sarà più il pretesto “non esiste un confine”.

Con l’accordo si avvierà un vero lavoro di delimitazione – che è una delle parti più importanti della normalizzazione delle relazioni – e, infine, l’apertura delle comunicazioni nella regione. Siamo pronti ad aprire i confini per avere il trattamento più libero per le comunicazioni, i collegamenti energetici, qualsiasi cosa. Ma avverrà sotto la nostra sovranità e giurisdizione, non dovrebbe esserci controllo militare o di sicurezza di un paese terzo. Questa è una questione basilare per noi.

Con una volontà politica dall’altra parte, potremmo raggiungere la pace anche oggi, anche ora.

La pressione sull’Armenia è nel frattempo aumentata.

Abbiamo fatto tutti i compromessi possibili e il nostro impegno per la pace è stato dimostrato recentemente con una serie di passi e dichiarazioni. Siamo davvero pronti a firmare in qualsiasi momento.

Sarà possibile, dopo il trattato di pace, cambiare anche le relazioni con la Turchia?

Lo spero, perché siamo stati in un dialogo molto attivo con la Turchia, un’attività senza precedenti. Ci sono state telefonate e incontri tra Erdogan e Pashinyan. Ci sono stati numerosi incontri con i ministri. Un ministro ha partecipato a un forum dopo il terremoto1 e ha consegnato assistenza umanitaria.

Purtroppo, queste relazioni sono sempre state ostaggio dei colloqui con l’Azerbaijan. Credo che con il raggiungimento della pace ci dovrebbe essere un progresso anche in quella direzione. Sfortunatamente, un certo numero di misure che avevamo concordato è rimasto in sospeso per quasi due anni, se non di più. Parliamo dell’apertura del confine per i cittadini di paesi terzi, come lei, o per i diplomatici, come me o turchi. Purtroppo, anche quegli accordi non sono stati implementati. Penso che l’eccessiva influenza dell’Azerbaijan su questa questione abbia sabotato i progressi con la Turchia.

Se ci fosse la volontà politica, saremmo pronti a impegnarci immediatamente. Questo confine, che è stato sigillato dall’inizio degli anni ’90, è l’unico confine della Guerra Fredda che rimane ancora sigillato. Naturalmente, ciò avrebbe un impatto molto positivo sull’intero Caucaso meridionale: stiamo parlando di comunicazioni, energia, vari progetti regionali. Tutto questo avrebbe un effetto molto positivo sulla pace, ma anche sulle prospettive economiche e di sviluppo.

Alla luce del raffreddamento delle relazioni con la Russia – che vi ha vergognosamente tradito (non solo per ’30 denari’, data l’utilità odierna della Turchia e dell’Azerbaigian per Mosca) – qual è la strategia dell’Armenia per diversificare le sue alleanze di sicurezza?

In questi giorni, le parole più frequenti che si sentono in Armenia durante conferenze e discussioni sono “diversificazione” e “resilienza”.

Penso che sia sempre negativo dipendere troppo da un singolo attore, anche se il miglior amico, anche se il miglior partner; dipendere, o dipendere eccessivamente, indebolisce le tue opzioni. E purtroppo, nel caso dell’Armenia, ci è sempre mancata questa strategia.

Una delle priorità dell’attuale governo è proprio quella di diversificare, non solo le opzioni economiche e le capacità difensive, ma anche, in generale, la nostra politica estera ed economia, e con ciò ricostruire o costruire la nostra resilienza, che deve essere rafforzata.

Ma probabilmente lei è più interessato alle nostre capacità difensive… La recente decisione del Consiglio dell’Unione Europea di ammettere l’Armenia, consentendo al paese di utilizzare il meccanismo della European Peace Facility2, è un passo molto importante in questa direzione, portando il settore della difesa dell’Armenia in linea con gli standard europei, beneficiando di progetti specifici.

Le missioni EUMCAP ed EUMA4 sono state utili?

È stato l’esempio più tangibile di una reazione rapida da parte dell’UE quando l’Armenia è stata attaccata nel 2022. Abbiamo inviato lettere al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, alla CSTO, alla Russia con un accordo bilaterale e all’UE. L’Unione Europea è stata quella che ha reagito. Questo contributo è stato raggiunto a Praga.

In origine, doveva essere sottoscritto durante il vertice della Comunità Politica Europea, c’era l’incontro quadrilaterale con Charles Michel, il presidente Macron, Aliyev e Ban, e l’accordo era di avere questo strumento su entrambi i lati. In seguito, l’Azerbaijan ha respinto questa opzione, iniziando a criticare la missione umanitaria per varie argomentazioni ridicole, come lo spionaggio e altro. La missione europea è stata molto positiva e ha ridotto il numero di vittime.

La componente di sicurezza più importante è ancor oggi rappresentata dagli osservatori europei, che svolgono un ruolo stabilizzante molto importante con la loro presenza ai nostri confini, anche se non sono armati e hanno solo binocoli; con la loro presenza ed i loro rapporti inviati a Bruxelles danno alla popolazione armena, che vede ogni giorno la bandiera europea, un senso di sicurezza.

Presto ci uniremo alle missioni CSDP3 dell’Unione Europea, e questo sarà un nuovo passo avanti. Abbiamo anche avviato nuove cooperazioni. Abbiamo iniziato un dialogo politico e di sicurezza con l’UE l’anno scorso.

Altre iniziative?

Abbiamo attivato i contatti con la NATO, abbiamo attivato la cooperazione bilaterale con paesi come India, Francia, Grecia e altri.

Aspettiamo di poter attivare la cooperazione anche con paesi come Italia, Germania e Paesi Bassi in questo settore. Naturalmente, tutto ciò non è mai diretto “contro” nessun paese, ma è solo per ricostruire le nostre capacità difensive.

Che non possono contare su budget azeri…

Assolutamente, non possiamo permetterceli. Ma non possiamo nemmeno trascurare completamente il settore. Il nostro desiderio di modernizzare le nostre capacità di difesa è molto naturale.

Quello che mi ha sorpreso nel suo paese è vedere come sia cambiata la cultura popolare da semplici aspetti: gli edifici più vecchi hanno ancora scritte in cirillico, ma tutte le nuove insegne sono in inglese o armeno. Sembrano indicare che il popolo armeno si sia sentito profondamente tradito dalla Russia…

Tutti gli accordi che avevamo stipulato non hanno funzionato, che siano stati con la CSTO o bilaterali, o con i peacekeeper nel Nagorno-Karabakh. Gli armeni in Armenia, e gli armeni che sono stati forzatamente allontanati dal Nagorno-Karabakh, si sentono ovviamente traditi.

Nessuno degli accordi, e nemmeno un singolo punto della dichiarazione trilaterale firmata tra Armenia, Azerbaijan e Russia, ha avuto effetti.

Il risultato è stata una catastrofica situazione umanitaria, con 150.000 persone ora forzatamente sfollate in Armenia, e con molti elementi tragici.

Per questo costruire una nostra resilienza è fondamentale per preservare la nostra indipendenza, la nostra integrità territoriale, la nostra stessa esistenza. È la principale questione per il governo attuale, e tutti questi sforzi per stabilire la pace, per diversificare le nostre opzioni, in questa regione così difficile, puntano a questo.

Avete sospeso la partecipazione alla CSTO con la Russia. È una decisione definitiva o è solo un “messaggio”?

Prima abbiamo pensato che fosse solo un messaggio, ma questa decisione sembra definitiva: non c’è stata nessuna risposta. Non abbiamo visto nessun passo da parte dell’organizzazione che garantisse la nostra sicurezza o sostenesse i nostri sforzi.

Non vedo argomenti per cui questa decisione dovrebbe essere revocata. Non abbiamo visto nessun progresso e alcuni membri di questa organizzazione, come la Bielorussia con il suo presidente, hanno detto apertamente che hanno aiutato l’Azerbaijan a pianificare l’operazione. Lo hanno persino celebrato! Questa è la situazione.

E all’Armenia… “Nessuno è interessato a voi, l’unica opzione è unirvi all’Unione tra Russia e Bielorussia!” Messaggi come questi dimostrano l’inutilità dell’organizzazione.

Dall’altra parte un invito nella NATO sembra impossibile vista la vicinanza tra Russia e Turchia…

Ci sono altre opzioni. Ho menzionato l’Unione Europea, le cooperazioni bilaterali con molti paesi, e ci sono nuove possibilità.

È un tema complesso. La sicurezza è un’area molto sensibile e specifica, e dobbiamo essere molto cauti con i nostri passi. Ma penso che questo sia l’approccio del governo attuale: essere il più cauti possibile, ma lavorare attivamente, ripeto, sulla diversificazione.

Un’ultima domanda riguardo ai vostri confini. Siete tra la Turchia e l’Azerbaijan, e a sud avete l’Iran, con cui intrattenete buone relazioni. In questo momento, cercate tuttavia di mantenere buone relazioni con un Occidente che non vede di buon occhio Teheran…

I rapporti con l’Iran sono i più antichi che abbiamo: condividiamo più di 2.500 anni di storia. Le relazioni sono anteriori alla Grecia, alla Georgia e l’Impero Romano.. Né i greci né Roma sono arrivati fino a noi, ma già esistevano rapporti con noi. Naturalmente, abbiamo accumulato relazioni civili e culturali con l’Iran nel corso del tempo, a volte difficili.

Di recente quel paese ha giocato un ruolo importante per noi, sia per la nostra comunità armena che per il patrimonio culturale, alcuni monasteri vicino al Monte Ararat sono stati restaurati con il suo aiuto. Le relazioni sono davvero “multisfaccettate”.

L’Iran ha preservato i confini esistenti, che per noi sono molto importanti: ha chiarito, in ogni occasione, sia quando ci sono state retoriche avverse da Baku o da Mosca, che “non avrebbe tollerato cambiamenti nei confini esistenti tra i nostri paesi, con la forza o altri mezzi”. Il messaggio è stato uno dei fattori che hanno impedito nuovi attacchi, nuove escalation, nuove guerre.

Anche per il commercio e l’energia l’Iran è un paese fondamentale. Queste relazioni svolgono un ruolo stabilizzante.

Ci sono anche interessanti possibilità di trasporto che collegano il Mar Nero con il Golfo Persico e l’India. Speriamo di poter giocare un ruolo in progetti di comunicazione ed energetici in questo senso.

Riflettendo sulle tensioni tra Iran e Israele e la vendita di armi da parte di quest’ultimo all’Azerbaijan…

La situazione in Medio Oriente è complicata. Come sapete abbiamo una presenza a Gerusalemme. Siamo custodi di luoghi sacri. La chiesa armena ha grandi proprietà in Israele e c’è una grande comunità armena in Iran con rappresentanti in parlamento.

È interessante osservare i vostri buoni legami con l’India: lì insegnano il concetto di karma: “quello che fai ora lo pagherai in futuro”!

È vero. Abbiamo legami con l’India da molto tempo. Ci sono chiese armene a Calcutta, Madras, e in molte altre città. Anche durante il periodo sovietico, quando Indira Gandhi visitò Mosca, venne anche in Armenia. Durante quel periodo, i legami avevano un significato storico e culturale profondo per noi.

È un partner importante per il nostro settore della difesa, e un paese chiave nelle cooperazioni internazionali, come l’ONU, l’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai, BRICS e altre.

Lo sviluppo della partnership con l’India è tra le nostre priorità, ed è il nostro partner principale in Asia meridionale. Speriamo di espandere queste relazioni.

Stiamo sviluppando anche legami con i paesi arabi. Attualmente, i nostri più grandi partner commerciali sono gli Emirati Arabi Uniti e il Qatar, che sta aumentando la sua presenza. Abbiamo inoltre stabilito relazioni diplomatiche con l’Arabia Saudita lo scorso anno, che erano assenti da molto tempo. Le nostre relazioni con paesi come Iraq, Siria e Libano sono antiche, con grandi comunità armene. Il presidente dell’Egitto è venuto in Armenia all’inizio di quest’anno. Le relazioni con il mondo arabo si stanno sviluppando molto rapidamente.

Forse potrete insegnare lentamente i diritti umani a qualcun altro che ne ha bisogno?

È un altro buon aspetto. Stiamo diventando un esempio nell’intera regione ed è stato riconosciuto da vari rating internazionali. La nostra partecipazione a vari summit sulla democrazia a diversi livelli è apprezzata dall’UE, dagli Stati Uniti e da altri partner.

L’Armenia è sempre stata impegnata su questo fronte, fin dal crollo dell’Unione Sovietica. Probabilmente siamo stati l’unico paese in cui non erano al potere i leader comunisti precedenti, ma un uomo proveniente dalla comunità accademica. Siamo stati l’unico paese in cui il cambiamento nel ’91 è stato totale. Il partito comunista è stato rimosso dal potere. Penso che sia stato l’unico caso, se lo confrontiamo con tutti gli altri paesi dell’ex Unione Sovietica.

1 Il 6 febbraio 2023 un sisma devastante, di magnitudo 7.8, ha causato gravi danni strutturali e un numero elevato di vittime

2 L’European Peace Facility (EPF) è uno strumento dell’Unione Europea creato per rafforzare le capacità di difesa e sicurezza dei partner al di fuori dell’UE. Si concentra su missioni di pace, gestione delle crisi e sostegno militare, finanziando l’equipaggiamento e le capacità necessarie per migliorare la sicurezza globale. L’Armenia è stata recentemente ammessa a questo programma, che le permette di accedere a risorse per potenziare la sua sicurezza nazionale e diversificare le alleanze strategiche.

3 Le missioni CSDP (Common Security and Defence Policy, o Politica di Sicurezza e Difesa Comune) dell’Unione Europea sono operazioni civili e militari mirate a promuovere la pace, la stabilità e la sicurezza internazionale. Queste missioni possono includere la gestione delle crisi, il mantenimento della pace, la formazione di forze di sicurezza locali, e la prevenzione dei conflitti. L’UE opera sotto il mandato del CSDP per rispondere a sfide globali come il terrorismo, la pirateria e le crisi umanitarie.

4 La EUMCAP, avviata nel 2022, era una missione di monitoraggio temporanea e limitata. Successivamente, nel febbraio 2023, è stata sostituita dalla EUMA, una missione più ampia e prolungata, con l’obiettivo di contribuire alla stabilità nelle aree di confine tra Armenia e Azerbaigian, monitorando la situazione e sostenendo gli sforzi di pace.

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