Come ho conciliato le mie due identità (Tempi.it 03.05.17)

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Della mia infanzia parigina ricordo la differenza apparentemente insuperabile fra la parte paterna armena e la parte materna ebraica della mia famiglia. I miei parenti armeni erano quasi tutti vecchi, dignitosi, un poco freddi e distanti, non vi erano molti bambini della mia età e parlavano sempre del loro passato di magnati del petrolio a Baku e della crudeltà degli azeri, cugini e alleati dei turchi, non meno atroci nella loro furia antiarmena.

Dalla parte ebraica, c’era molta più vita, molti cugini, molto calore, ma spesso si parlava di arresti, di gente nascosta (a cominciare da mia mamma), di zie e zii che non tornarono mai dai campi di sterminio. Si parlava anche di Raissa Bloch, la cugina che era stata consegnata ai tedeschi dalla gendarmeria svizzera perché aveva dei documenti falsi in cui il suo nome fittizio era scritto in modo incoerente: una volta Mirail, l’altra Miraille. Aveva scelto questo pseudonimo in memoria di suo marito Mikhail Gorlin che era stato arrestato e mandato ad Auschwitz prima di lei.

Ma io da piccolo non legavo mai le due esperienze storiche. Più tardi, sentii parlare del genocidio armeno e mi indignavo contro gli aguzzini turchi e quasi mi rallegravo quando sentivo alla radio le notizie di liquidazioni di diplomatici turchi da parte di gruppi clandestini armeni in lotta contro il negazionismo turco e contro l’indifferenza del mondo. E poi man mano crescendo, capii tutto ciò che univa le due parti della mia storia familiare, le due componenti della mia identità complessa. Capii che quando le forze di Nuri Pasha, il fratello del sinistro Enver Pasha, attaccarono la Transcaucasia nel 1918 e assediarono Baku, continuavano il progetto genocidiario del triumvirato Talaat Pasha, Enver Pasha, Djemal Pasha.

Capii che in quest’estensione della guerra fuori dai confini dell’Impero ottomano, la presenza degli armeni in Transcaucasia era considerata come un ostacolo alla creazione di una grande entità panturaniana da Edirne al Turkestan cinese. Capii meglio perché i racconti familiari su fanciulle di quattordici anni vendute come schiave sessuali a vecchi ufficiali turchi, su bambini buttati nell’aria e raccolti alla loro caduta dalle sciabole o dai pugnali dei carnefici, assomigliavano tanto alla lunga enumerazione di crimini orribili che gli ottomani perpetrarono contro i suddetti armeni del Sultano fra 1894 e 1916. Le atrocità commesse in Transcaucasia sono state il prolungamento cronologico e l’estensione geografica del Metz Yeghern, del grande massacro degli armeni nell’Impero Ottomano.

Parallelamente capii anche tutto ciò che univa la catastrofe della distruzione dell’ebraismo europeo, come la chiamava a ragione Raul Hilberg, alla tragedia armena. In entrambi casi, possiamo vedere un tentativo di eliminare anche nei territori nuovamente conquistati, due minoranze nazionali considerate come inassimilabili, la cui esistenza era percepita come un ostacolo alla ricerca di una purezza etnica, panturaniana da un lato, pangermanica dall’altro.

Nei due casi, gli storici possono ricostruire i prodromi della tragedia (dal 1894, inizio dei massacri hamidiani per quanto riguarda gli armeni; dai pogrom contro gli ebrei in Ucraina, perpetrati negli anni 1918-1920 dai nazionalisti ucraini che in un secondo tempo, durante la Seconda guerra mondiale, prestarono la mano ai nazisti nella Shoah), la pianificazione del massacro, i mezzi usati: deportazioni; uso di vagoni piombati in cui si moriva di sete; incendi di sinagoghe con tutta la popolazione ebraica dello shtetl dentro e incendi di chiese armene dove erano incastrati tutti gli armeni del villaggio; fucilazioni massicce; bagni di sangue e, in genere, la volontà comune di sradicare assolutamente la presenza ebraica in Europa e la presenza armena in Asia Minore.

Anche il fatto di mandare gli armeni di Istanbul a Deir ez-Zor, nel deserto siriano, fa pensare alle deportazioni verso i campi della morte. L’unica differenza era che i turchi non avevano trasformato lo sterminio in un’industria come lo fecero i tedeschi. Anche le marce forzate degli armeni nell’immenso deserto cappadocico fanno pensare alle colonne di detenuti che le SS portarono con loro durante la loro ritirata davanti alle forze sovietiche.

E poi riflettendo meglio sulla similitudine fra le due tragedie e leggendo il libro di Vahakn N. Dadrian, German Responsibility in the Armenian Genocide: A Review of the Historical Evidence of German Complicity, ho capito il ruolo nefasto dei militari tedeschi, alleati degli ottomani nell’organizzazione e nella perpetrazione della strage. Inoltre, l’ammirazione di Hitler per Atatürk e il patto di amicizia fra la Germania nazista e la Turchia di Ismet Inönu, firmato il 18 giugno 1941, mi fecero percepire che, al di là della complicità dei tedeschi con i turchi nel genocidio armeno, vi era un’affinità elettiva, una macabra Wahlverwandtschaft fra il panturanismo e il pangermanismo, fra il nazismo e la dittatura kemalista.

Molti anni dopo la mia emigrazione in Israele, visitai l’equivalente armeno di Yad Vashem, il museo di Tsitsernakaberd su una collina all’uscita di Yerevan e mi sembrò molto simile a Yad Vashem prima dell’apertura del nuovo museo nel 2005. Ebbi anche la piacevole sorpresa di vedere che durante una visita che effettuò a Tsitsernakaberd, il rabbino capo ashkenazita di Israele di allora, Yona Metzger, aveva piantato un albero per manifestare la sua solidarietà alla memoria del genocidio armeno. Questo e altre prese di coscienza riconciliarono le due parti della mia identità e mi fecero intuire che il combattimento contro la relativizzazione della Shoah doveva passare per il riconoscimento dell’ampiezza della catastrofe armena.

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