Il 24 aprile 1915 cominciava il genocidio degli Armeni (CDS Blog 23.04.20)

di Luca Agostoni

(laboratorio giornalismo e storia Università statale di Milano)

Con il termine di genocidio armeno si indicano le deportazioni e i massacri compiuti dai turchi nei confronti degli armeni tra il  1915 e il 1917, che causarono circa 1,5 milioni di morti, corrispondenti ai 2/3 della popolazione armena presente nei territori dell’Impero ottomano. Questa ecatombe viene preceduta dai pogrom compiuti nel 1894-1896 dal sultano Abdul Hamid II e da quelli del 1909 ad opera del neonato governo dei Giovani turchi. È proprio la loro presa di potere e in modo particolare l’affermazione dell’ala più radicale della formazione a far sì che fosse organizzato e messo in pratica quello che è definito “il primo genocidio del XX secolo”. La motivazione principale è da ricercarsi all’interno dell’ideologia panturchista dei Giovani Turchi, volenterosi di ricostruire lo Stato su una base nazionalista e sull’omogeneità etnica e religiosa; proprio per questo la popolazione armena, di religione cristiana e sempre più attratta dagli ideali di libertà e democrazia occidentali, con le sue richieste di autonomia poteva rappresentare un ostacolo non indifferente al progetto governativo. A ciò si deve anche aggiungere la necessità di espropriare i beni e le terre degli armeni, indispensabile in un momento di grande crisi dell’Impero ottomano e che serviranno da base economica per la futura Repubblica turca instaurata da Mustafa Kemal, meglio conosciuto come Atatürk, “il padre dei Turchi”.

La notte del 24 aprile 1915, 2345 persone appartenenti all’élite armena di Costantinopoli vengono arrestate ed eliminate con l’accusa di alto tradimento. Inizia così il genocidio e la sua gestione è affidata all’Organizzazione speciale, una forza paramilitare formata in gran parte da ex detenuti e criminali, che opera con l’appoggio del governo e con l’aiuto di consiglieri tedeschi. Il massacro viene organizzato in due fasi: in un primo momento i maschi adulti sono chiamati a prestare servizio nell’esercito e poi passati per le armi mentre molti altri civili o vengono giustiziati sul posto oppure sono costretti a marce estenuanti attraverso il deserto di Der es Zor, durante le quali molti muoiono di fatica. La seconda fase vede come punto di riferimento Aleppo, centro di raccolta dei sopravvissuti, e molti altri campi di concentramento minori: come sostiene lo storico francese Bernard Bruneteau, “la strategia adottata dai turchi consisteva innanzi tutto nel lasciare marcire per settimane i deportati nei campi di transito alla periferia di Aleppo, per poi spostarli da un campo di concentramento all’altro lungo l’Eufrate, fino alla fine di un processo di selezione naturale. Ammassati all’aperto morivano a migliaia”.

Nel 1923, con la nascita della Repubblica Turca, Kemal blocca i processi richiesti dalla comunità internazionale e con lo scoppio della Seconda guerra mondiale il genocidio armeno cade dimenticato visto che la Turchia diviene un alleato strategico per l’Occidente; sembra uno scherzo del destino, ma il governo turco firma persino la Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio dell’Onu del 1948. Lo sterminio è ancora negato tutt’oggi dall’amministrazione di Ankara: in primo luogo la posizione ufficiale respinge l’esistenza di un piano orchestrato dal governo ma considera la carneficina una triste conseguenza della guerra; altre argomentazioni considerano sia la minaccia filorussa costituita dagli armeni sia, sul piano semantico, l’anacronismo della stessa parola “genocidio”, che non esiste prima del 1943. Il negazionismo turco ha danneggiato il rapporto non solo con la comunità internazionale, visto che a partire dal 1965 ben 29 Paesi hanno riconosciuto ufficialmente il massacro, ma soprattutto con l’Unione europea, alla luce della volontà della Turchia di entrarvi a far parte. Le posizioni più intransigenti a questo proposito sembrano essere quelle rappresentate dalla Francia, che considera perfino un reato la negazione di quel crimine, e quella di papa Francesco che più volte ha parlato apertamente di genocidio armeno e ha invitato la Turchia a fare i conti con il proprio passato, suscitando l’indignazione del presidente Erdogan.

Quest’ultimo, prima da primo ministro e poi da presidente della Repubblica, si è trovato a fronteggiare una forte opposizione interna rappresentata soprattutto dal mondo degli intellettuali: proprio per far fronte a ciò, parlare apertamente di genocidio è un reato punibile con la reclusione da sei mesi a due anni, in base all’art. 301 del codice penale turco, in quanto “vilipendio dell’identità nazionale”. Lo hanno fatto il premio Nobel per la letteratura Orhan Pamuk, la scrittrice Elif Shafak, ma soprattutto il giornalista Hrant Dink, condannato a 6 mesi di reclusione e successivamente assassinato nel 2007 da un ultranazionalista. Perfino il sociologo e storico Taner Akçam sottolinea come “La Turchia non ammette il genocidio perché quel crimine fu commesso dai padri della patria. Riconoscere le loro responsabilità significa mettere in discussione l’ideologia nazionale turca e l’identità stessa della nazione”, parole che nel 1976 gli valgono una condanna a 10 anni di reclusione, che riesce ad evitare rifugiandosi in Germania. Questo argomento è stato oggetto anche di numerose canzoni, ma è soprattutto in ambito cinematografico che si verifica un’esplosione dei film che trattano questo tema, basti pensare a “La masseria delle allodole”, basato sull’omonimo romanzo di Antonia Arslan, oppure “Il padre” di Fatih Akim, regista di origine turca che ha subito minacce per le sue posizioni.

Nonostante il supporto di molti paesi, quello del genocidio armeno non è ancora un fatto universalmente riconosciuto; basti pensare all’atteggiamento ambiguo di una potenza mondiale come quella degli Stati Uniti d’America che, nonostante alcuni colloqui preliminari sotto l’amministrazione Obama e nonostante nel 2019 sia la Camera che il Senato abbiano approvato la mozione sul riconoscimento del genocidio armeno, lasciano ancora la questione irrisolta.