Il Canto spezzato dei poeti (Pangea 24.04.20)

“E STANOTTE DI NUOVO NELLE CHIESE INNUMEREVOLI CADAVERI INNOCENTI”. IN MEMORIA DEL GENOCIDIO ARMENO: IL CANTO SPEZZATO DEI POETI

Chi crede che il poeta sia nulla sbaglia di diversi gradi e svariate latitudini. Proprio quel ‘nulla’ garantisce al poeta di essere tutto: addirittura, il canto di un luogo, di una alberatura, di una civiltà. Così, in ogni lato della Storia, si assiste alla triste replica della medesima passione: il potere, per giustificare se stesso, assassina il poeta – per un poeta che muore, ce ne saranno altri, fasulli burattini, riflessi demoniaci, che lo negano, leccando i piedi al potente. Se è vero, come ha scritto Roman Jakobson, che quella sovietica fu “una generazione che ha dissipato i suoi poeti”, che a Berlino i libri venivano passati al rogo e a Roma gli scrittori erano spediti in esilio, ciò che accadde in Turchia 105 anni fa origina l’irragionevole. I Giovani Turchi, con cristallina spietatezza, cercarono di estirpare una nazione, la sua identità, i suoi cantori. Per fortuna, la grande letteratura armena, pur ammazzata, è sopravvissuta, con dote di incanti e ombre. Nel 2017 le Edizioni Ares hanno raccolto come “Benedici questa croce di spighe…” una “Antologia di scrittori armeni vittime del Genocidio”, per la cura della Congregazione Armena Mechitarista e un invito alla lettura di Antonia Arslan. Da quella antologia, in memoria, ritagliamo parte dell’introduzione della Arslan e alcuni testi esemplari.

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Come una folgore improvvisa che taglia in due un paesaggio, come un terremoto inaspettato che apre voragini e scuote ogni cosa costruita dall’uomo, così siamo abituati a immaginare l’inizio del genocidio degli armeni, quella notte del 24 aprile 1915, quando – su decisione del governo dei Giovani Turchi – furono arrestati uno dopo l’altro nella capitale Costantinopoli i principali esponenti della comunità armena nell’impero ottomano. Fra loro anche molti scrittori, giornalisti e poeti, perché la parola poetica in Oriente è importante: è amata, cantata, ripetuta, riconosciuta come la voce profonda del popolo. Una retata ben organizzata e letale. Nessuno spiegò loro niente. Furono contati accuratamente, fu verificata la loro identità, e dopo qualche ora furono fatti salire su un treno e avviati verso l’esilio. Questo gli venne detto, e così li tennero quieti; ma il programma reale era di dividerli, mandandoli verso diverse destinazioni: e poi di ucciderli un poco alla volta, preferibilmente con imboscate sulle strade poco sicure dell’interno dell’Anatolia – come in effetti avvenne. Pochissimi i sopravvissuti; ma erano uomini di penna, e scrissero, e raccontarono, anche in nome dei loro compagni che non avrebbero più potuto parlare. Così è avvenuto che le ombre degli scrittori assassinati sono riemerse un poco alla volta: sono diventati personaggi reali, protagonisti del racconto infinito di quella tragedia incombente che venne realizzata giorno dopo giorno, con l’astuzia di tenere i prigionieri all’oscuro del loro destino, fino all’ultimo momento dicendo e non dicendo, alternando minacce e apparente bonomia e rispetto, ingannandoli con raffinata doppiezza.

Daniel Varujan, il grande poeta che apre la raccolta, fu barbaramente ucciso insieme ad alcuni compagni di sventura il 26 agosto 1915. Nel momento dell’arresto, non aveva nessun sospetto del destino che l’aspettava; ma aveva dovuto affrontare la deportazione senza preavviso verso una destinazione sconosciuta, prima caricato su un treno, poi su carri per strade impraticabili, per arrivare infine nella minuscola cittadina rurale di Chankiri. Là credette di essere relativamente al sicuro: in esilio, ma vivo, e con la possibilità di ricevere lettere e sostegno da parenti e amici rimasti nella capitale. Ma era solo la quiete minacciosa prima della tempesta. Come in un infernale gioco di scacchi le vite degli esiliati vennero prese un po’ alla volta, capricciosamente, secondo gli ordini che venivano da Costantinopoli, dall’onnipotente ufficio del ministro degli Interni Talaat, presso il quale i loro supplichevoli e disperati telegrammi si accumulavano suscitando – è lecito crederlo – una perversa soddisfazione. Ma Varujan, raccontano le testimonianze dei pochi superstiti, si distingueva perché continuava a lavorare, a scrivere incessantemente…

Fra i primi uccisi, oltre a Varujan, furono i poeti Siamantò e Rupen Sevag. Erano quasi coetanei: Siamantò, dalla vena lirica fiammeggiante e nostalgica, imbevuto di un romantico amor di patria; Sevag, laureato in medicina, oltre a molte poesie autore di una serie di toccanti racconti, aveva sposato una ragazza tedesca che tentò in tutti i modi di convincerlo a restare a Losanna. Eppure anche lui ritornò in patria, come Varujan, come il mechitarista padre Garabed der Sahaghian e tanti altri giovani intellettuali, attirati dalla speranza che la situazione sarebbe cambiata, fiduciosi nella nuova democrazia turca. La particolare importanza della deportazione e dell’annientamento dell’élite armena della capitale risiede proprio nel fatto che essi furono conseguenza di un abilissimo inganno, di cui oggi sono state rivelate le circostanze e i segreti accordi che lo precedettero. Ma loro erano giovani, idealisti, ingenui e forse un po’ troppo sicuri di sé e della forza luminosa del progresso… Eppure a me sembra quasi più importante ascoltarli, leggere le loro parole, i loro pensieri, che conoscere le loro storie, che infine purtroppo si somigliano tutte. Sono storie di illusioni e di tradimenti subiti, di un amore fervido e altruistico per la propria cultura e per il proprio popolo, ma anche della pietà per gli oppressi e della generosa sensibilità verso la liberazione dei miseri.

Antonia Arslan

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Notte sull’aia

Dolce notte estiva. La testa abbandonata sull’aratro
l’anima sacra del contadino riposa sull’aia.
Nuota il grande Silenzio tra le stelle divenute un mare.
L’infinito con diecimila occhi ammiccanti mi chiama.

Cantano di lontano i grilli. Nelle acque del lago
questa notte si celebrano le nozze segrete delle naiadi.
La brezza agitando il salice sulla sponda del ruscello
risveglia dei canti su accordi sconosciuti.

Nel profumo del serpillo, disteso in cima a un covone
io lascio che ogni raggio tocchi il mio cuore,
e m’inebrio del vino della grande botte dell’Infinito
dove un passo sconosciuto schiaccia le stelle cadenti.

È squisito per il mio spirito tuffarsi nell’onda luminosa di azzurro,
naufragare – se è necessario – nei fuochi celesti;
conoscere nuove stelle, l’antica patria perduta,
da dove la mia anima caduta piange ancora la nostalgia del cielo.

È dolce per me sollevarmi sulle ali del silenzio,
ascoltare soltanto il respiro imperturbabile dello Spazio,
finché i miei occhi si chiudano in un sonno magico,
e sotto le mie palpebre rimanga l’Infinito con le sue stelle.

Così, così si addormenta tutta la gente del villaggio;
il pastore sul suo carro, sotto la trapunta che stilla luce,
la sposa in cima a un covone, scoperto dallo zefiro il seno
dove la Via Lattea svuota il suo latte brocca dopo brocca.

E così, avendo dormito un giorno sotto lo sfavillìo del cielo,
i miei genitori contadini mi concepirono con tenerezza,
mi concepirono fissando lassù i loro occhi buoni
sulla più grande Stella, sulla Fiamma più splendente.

Daniel Varujan

Da Il canto del pane (trad. Antonia Arslan e Chiara Haiganush Megighian)

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Sogno di tortura

Sera di primavera e di massacri,
la mia anima è ancora uno zampillo di vendetta
proteso furiosamente verso l’alto,
e le foglie, simili ad anime disperate,
cadono sopra l’acqua chiara delle vasche e su noi tutti,
e dagli abissi voci di appestati,
e verso gli abissi in affannosa ricerca di aiuto
grida di morenti, vite già morenti.
E stanotte di nuovo nelle chiese
innumerevoli cadaveri innocenti,
sopra il mio tetto una scrosciante pioggia di ferro,
sotto il mio cranio una bufera d’incendi,
e sopra l’acque che scorrono appaiono martiri crocifissi…
E con la sera di pioggia e di supplizio
un incalzante terrore di massacro
di città in città…
nella mia anima uno spavento infernale di uragano…
una bara vuota sotto le mie misere dita,
e dall’alto di infiniti marmorei scaloni
– oh venite in soccorso! – corpi decapitati
marciano su di me…
Ma voi, anime fraterne della tortura e delle sere,
prima dell’irruzione della tempesta e dei barbari stasera
tenacemente e virilmente scegliete la vostra via…

Siamantò

Da Fiaccole di agonia e di speranza (trad. p. Mesrop Gianascian)