Il difficile (ma possibile) accordo di pace tra Armenia e Azerbaijan (L’inkiesta 13.12.23)

I governi di Armenia e Azerbaijan stanno facendo passi concreti verso la normalizzazione delle relazioni, a neanche tre mesi dall’offensiva azera nel Nagorno-Karabakh che ha posto fine – con l’espulsione dell’ottanta per cento della popolazione armena locale – a trent’anni di conflitto etno-territoriale. Dopo la vittoria schiacciante sulla nazione rivale, Baku sembra disposta ad accogliere il desiderio di “pacificazione preventiva” di Yerevan, e un trattato di pace potrebbe essere firmato già entro la fine dell’anno. I negoziati sono mediati separatamente da Stati Uniti, Unione europea (in particolare Francia e Germania), Russia e in parte dall’Iran. La settimana scorsa il premier armeno Nikol Pashinyan e il presidente azero Ilham Aliyev hanno annunciato con una dichiarazione congiunta di voler cogliere «un’opportunità storica per raggiungere una pace a lungo attesa nel Caucaso meridionale», sottolineando l’intenzione «di arrivare a un accordo fondato sul rispetto dei principi di sovranità e integrità territoriale».

L’ultima affermazione è significativa, poiché il timore dell’Armenia è che dopo la disfatta nel Nagorno-Karabakh – che era un’enclave etnicamente armena in territorio azero – l’Azerbaijan decida di attaccare direttamente il suolo armeno per impadronirsi della provincia del Syunik, e creare una continuità territoriale con il Naxçıvan, l’exclave azera che confina con l’Iran e la Turchia. In questo modo Baku e Ankara realizzerebbero il sogno geopolitico di creare un corridoio pan-turco che unisce l’Anatolia ai paesi dell’Asia Centrale attraverso il Caucaso e il Mar Caspio.

Per scongiurare questa escalation, a novembre il governo armeno ha proposto a tutti i paesi vicini di partecipare a un progetto di pacificazione, e riaprire i collegamenti stradali e ferroviari bloccati per decenni a causa del conflitto latente con Turchia e Azerbaijan, trasformando l’Armenia nel crocevia del Caucaso meridionale. Tra i punti della dichiarazione Yerevan-Baku c’è il rilascio dei prigionieri di guerra: trentadue armeni e due azeri, anche se rimangono diverse questioni da risolvere. Pashinyan vuole uno scambio di prigionieri che comprende «tutti in cambio di tutti», ma l’Azerbaijan non intende liberare i sei leader politici armeni del Nagorno-Karabakh.

Tuttavia, la dichiarazione congiunta è stata accolta con soddisfazione dai paesi mediatori, in particolare gli Stati Uniti. Il segretario di Stato americano Antony Blinken adesso vuole organizzare un incontro a Washington con gli omologhi di Armenia e Azerbaijan.

Otre alla diplomazia però, Yerevan sta cercando l’appoggio militare dei paesi occidentali, trovando in Parigi il partner principale per ricostruire le proprie forze armate dopo decenni di dipendenza da Mosca. L’Ue sta anche organizzando una missione tecnica in Armenia che valuterà le esigenze di sicurezza del paese, prima di avviare un piano di aiuti militari “non letali”.

Per l’Armenia la fine infausta della disputa nel Nagorno-Karabakh rappresenta un momento spartiacque della storia, che segna la fine di un’era di rigorosa appartenenza alla sfera d’influenza russa, ed è questo il fattore più destabilizzante sul futuro del paese. Mosca infatti è irritata dalle aperture del governo armeno all’Occidente, ma Yerevan afferma che il Cremlino non solo è venuto meno al suo impegno di proteggere l’alleato, ma ha tradito gli armeni allineandosi alle posizioni di Baku e Ankara per convenienza.

Le relazioni russo-armene hanno iniziato a inasprirsi nel 2020, quando la Russia è rimasta neutrale mentre l’Azerbaijan lanciava un attacco su vasta scala nel Nagorno-Karabakh, riconquistando una parte significativa del territorio conteso. Dopo aver mediato la tregua, Mosca ha schierato duemila soldati come peace-keeper, ma negli anni successivi le truppe azere continuarono a lanciare piccole e ripetute incursioni.

Ciò avrebbe dovuto attivare il sistema di mutua difesa dell’Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva (Csto), un sorta di Nato dello spazio post-sovietico guidata dalla Russia a cui appartiene anche l’Armenia, ma il Cremlino è rimasto a guardare. Fino a settembre di quest’anno, quando l’Azerbaijan ha lanciato l’offensiva finale per catturare il resto del Nagorno-Karabakh e spingere all’esodo di massa la popolazione armena locale.

Abbandonata da una Russia che si è data come missione esistenziale la distruzione dell’Ucraina sacrificando tutto il resto, l’Armenia ha guardato altrove. Se prima acquistava quasi tutte le armi dalla Russia, ora sta firmando accordi con l’India e con la Francia.

A settembre la moglie di Pashinyan ha consegnato personalmente un pacco di aiuti a Kyjiv, e ottobre il parlamento armeno ha ratificato lo statuto di Roma della Corte penale internazionale, che significa che ora Vladimir Putin non può visitare l’Armenia senza rischiare l’arresto. Pashinyan per adesso esclude azioni di rottura più destabilizzanti, come l’uscita dalla Csto o l’espulsione delle forze armate russe presenti nel paese, ma sta tracciando la strada di una nuova Armenia.

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