Il genocidio degli armeni e la «Masseria delle allodole» (Rassegna 22.07.18)

La cena è servita. La festa, i sorrisi, le canzoni, gli auguri, le foto, le danze, una certa allegria disinvolta, una complicità capricciosa, i riti di una vecchia famiglia patriarcale, come di un tempo sospeso sull’abisso che cerca le giuste cadenze per andare avanti. Poi la tragedia è servita. Ruvida e violenta, come una ghigliottina che cala improvvisa e si abbatte con fragore di urla. Un buco nero che tutto inghiotte e cancella. Una delle ferite più aguzze che ha squarciato le coltri del Novecento, si imprime con dilaniante sconquasso nel corpo drammatico della tradizionale Festa del Teatro di San Miniato (siamo alla 72esima puntata).

La ferita, ancora aperta, andata in scena l’altra sera in piazza del Duomo, è il genocidio degli armeni, un secolo fa, una verità non restituita che aspetta giustizia, sempre caparbiamente negata dai turchi. Ma non è tanto la tragedia in sé, raccontata da Antonia Arslan nel romanzo La masseria delle allodole, apocalittico trapasso dalla pacificata, secolare convivenza di etnie diverse alla delirante deriva nazionalista impressa dal nuovo governo democratico dei Giovani Turchi, a interessare il regista Michele Sinisi (che insieme a Francesco Maria Asselta ha curato la riduzione). Per la Arslan la masseria fu un gesto simbolico, il riappropriarsi a posteriori di una indentità, traumaticamente recisa al tempo del massacro.

Per Sinisi la masseria, con tutte le storie, le gioie e i dolori, sussurri e grida, che ci stanno dentro e rimbombano fuori, è un contenitore di riflessi (e riflessioni) che si proiettano inquieti sul mondo di oggi, un canovaccio da «sperimentare» anche poeticamente, un mosaico di espressioni drammaturgiche che rimbalzano dal teatrino brechtiano all’avanspettacolo epistolare, dal kammerspiel alla ballata popolare, dallo studio televisivo al set cinematografico, dalla liturgia del corpo eucarestia al materialismo del corpo feticcio, dal posto delle fragole alle fragole e sangue.

In un susseguirsi di scene madri che tolgono il respiro e affollano l’udito, cullati dalle canzonette di Aznavour e dai vocalismi di Antony and the Johnsons, l’eco dei «fatti» si mescola, nella coralità dell’impianto scenico di Federico Biancalani, con l’esasperata amplificazione tecnologica, fra schermi e microfoni.
Finché la vicenda precipita, inghiottita in un mare di grucce, effetto domino con gli occhiali, le scarpe, i capelli «esposti» ad Auschwitz, la masseria della Shoah. Repliche fino al 25 luglio.

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Il genocidio degli armeni raccontato in piazza Duomo (Il Tirreno 22.07.18)

SAN MINIATO. Per i fratelli Taviani, che lo girarono nel 2007, “La masseria delle allodole” fu un film necessario. L’occasione, attraverso le pagine del romanzo di Antonia Arslan, di esplorare le ferite, per meglio dire le piaghe, che incidono il corpo del “secolo breve”: il Novecento.

Per Michele Sinisi, regista dello spettacolo prodotto dall’Istituto del Dramma Popolare insieme a Elsinor e Arca Azzurra, e che con quel titolo (in ricordo anche di Vittorio Taviani recentemente scomparso) ha debuttato l’altra sera nella cornice di piazza del Duomo, a chiusura della Festa del Teatro di San Miniato numero 72, a noi è parso essere piuttosto un originale, sensibile grimaldello per aprire porte e scardinare finestre sugli scenari che agitano il mondo di oggi: in un inquietante parallelismo di coincidenze ideologiche, avventurismi bellicosi, repressioni e violenze, estremismi e intolleranze.

Le pagine della Arslan, che attraversano le atrocità del genocidio del popolo armeno perpetrato dai turchi un secolo fa, e vissuto in prima persona dalla famiglia dell’autrice, non cadono nel vuoto. Sono specchi del presente, riflessi e riflessioni, materia viva da trattare “modernamente”, anche in fase di sceneggiatura e di montaggio, in ottica scenografica, non come un residuato televisivo, un format didascalico carico di naturalismo a rapido effetto e facile presa.

Sinisi osa. Espande l’intreccio, tonifica l’impianto, rischia l’eccesso, la moltiplicazione dei piani e delle interferenze, coniuga il realismo con il simbolismo, e coraggiosamente inquina la tavolozza. Che procede coralmente come una “grande abbuffata”, anche concretamente trattata, tra ricette, frutta, verdura e grigliata.

L’inizio è narrativo. La grande casa armena, dove la convivenza con i turchi è scandita nel tempo dal rispetto reciproco, è in festa. Si balla, si canta, si chiacchiera, si scherza, si gioca, si amoreggia, la cucina è pronta, la tavola è imbandita, niente lascia trapelare il dramma che di lì a poco si abbatterà come un maglio distruttivo.

Si discute di tutto, scienza, poesia, religione, amore, sesso, ornitologia. È il teatro della vita. Vissuta su un set cinematografico, con quella “giraffa” che accompagna i dialoghi, li amplifica, e quelle riprese incollate sui volti che rimbalzano in presa diretta sullo schermo. Moderni selfie.

Poi le traiettorie si incrinano. La festa è finita. La danza si spegne in una silenziosa pantomima di anime morte. La violenza che si scatena come un calvario riflesso nel corpo del Cristo in croce, è una nuova partitura di cui non si conoscono i confini. E i profili.

Giustamente Sinisi del genocidio armeno, della deportazione, degli stupri, delle atrocità, delle torture, del massacro di uomini inerti, fa decantare la distanza che insorge nell’attualità di un manipolo di agenti

in assetto antisommossa che sperpera fiumi di selvaggia violenza. Alla fine sarà l’allodola, leggendaria creatura, a uscire viva dal pestaggio, a farsi materno rifugio, a materializzarsi come mascotte di una nuova vita.


A san Miniato va in scena la tragedia de “Il grande male” degli Armeni (AciStampa 22.07.18)

Ci sono tragedie che non possono mai concludersi, che rimangono a scavare solchi profondi di dolore nonostante gli anni, i decenni, i secoli. Sono ancora oggi vita quotidiana  la tragedia del popolo armeno, il suo genocidio spietato, il Grande Male, come per triste tradizione viene chiamato, e, insieme, la sua storia millenaria e la sua fede, la “resistenza” di questa entità inscindibile: il popolo e la sua fede.

Esistono opere d’arte che, pur nella trasfigurazione lirica, perpetuano questa presenza, la rendono viva, contemporanea. E’ questo il caso del romanzo di Antonia Arslan “La masseria delle allodole”, pubblicato nel 2004 e già diventato un classico. Trasposto in chiave cinematografica,  nel commovente film diretto dai fratelli Taviani, ora e’ stato adattato per una messa in scena teatrale, altrettanto emozionante e poetica.

Per la regia di Michele Sinisi, dunque, con lo scenografo Federico Biancalani e con il drammaturgo Francesco Maria Asselta, con una decina di interpreti, tra cui Marco Cacciola e Stefano Braschi, “La masseria delle allodole” va in scena in questi giorni nell’ambito della annuale Festa del Teatro/Fondazione Istituto Dramma Popolare di San Miniato, una manifestazione che ha alle spalle una tradizione consolidata di valore e di successo, che ha come coordinate-guida la ricerca spirituale della parola e dell’atto teatrale, insieme al dialogo interreligioso.

Un’occasione in più per tornare a quel romanzo così importante, in cui la Storia insanguinata -il genocidio degli Armeni perpetrato dai turchi durante la Prima Guerra mondiale – prende corpo nella vicenda di una famiglia, ricostruita dall’autrice sul filo di ricordi dolci e dolorosi allo stesso tempo, a volte allontanati dalla stessa memoria per non doverne sopportare il peso.

La Masseria è il luogo della vita felice, il rifugio, il sogno perduto per sempre eppure scintillante di una luce eterna. Qui, proprio nella pacifica e remota masseria, dove la famiglia al centro della narrazione passa i momenti di svago, di villeggiatura, al riparo dal caldo e dai travagli quotidiani, irrompono un giorno i soldati turchi che uccidono, seviziano,   deportano.

L’orrore arriva fino al cuore dei luoghi della pace, dei ricordi, nel tempo delle lunghe chiacchierate a tavola o nel giardino ricco di, piante e di frutta. Imbratta e devasta la bellezza, fa calare una nube oscura su ogni cosa, su ogni essere vivente. Il mito della Grande Turchia, processato dai Giovani Turchi, ingoia la vitalità mite della gente armena, al profumo dei gelsomini, così tenacemente risuscitato dalla forza dei ricordi della Arslan, si perse nell’amore del sangue versato,  nelle macerie in cui quasi si estinse la famiglia di Yerwant, vissuta e prosperità “nella piccola città”, dalle fattezze fiabesche dell’Anatolia perduta.

Lo spettacolo in scena a San Miniato rappresenta il pranzo, l’ultimo, della famiglia riunita in campagna, rievocandone gli umori, i litigi, i rapporti, i sogni, i progetti, e parallelamente il dialogo tra alcuni rappresentanti del, potere turco, che progettano a tavolino il genocidio, cercando di darne una “giustificazione”, una motivazione, in realtà presentando il volto oscuro della voglia di distruzione, di predominio,  di sopraffazione, di avidità.

La fine della rappresentazione coincide con la fine della storia, con la distruzione fisica, in un silenzio allucinato, di ogni cosa, tranne un flebile canto di allodole,  ormai consapevoli  he ogni essere vivente puo’ cedere al male, che “esiste quando Dio non c’è”. Nelle note di scena il regista Sinisi spiega che “nella seconda parte, durante la strage, l’intero gruppo di attori giocherà tragicamente a far crollare tutto ciò  he si sarà costruito in scena nella, prima parte intorno al tavolo, durante quella vita bella nella masseria. Senza parole, l’intera struttura della prima parte collasserà. Gli unici suoni saranno quelli  che un’allodola in scena ricorderà dopo la strage, avvenuta sotto gli occhi di tutti, come del resto avviene a noi tutti i giorni. Seduti nelle nostre poltrone”.

Il romanzo, torniamo a sottolineare, ha un valore, oltre che intrinsecamente letterario, di testimonianza dolente e un  j’accuse potente che molto ha contribuito, in questi anni, a far scuotere le coscienze in tutto il  mondo nei confronti di quelle stragi che in molti modi, ma soprattutto con il silenzio, si è tentato di cancellare, di negare, e ancora si continua a farlo.

Antonia Arslan, “La masseria delle allodole”, Rizzoli editore, pp.233


Alla Festa del Teatro di San Miniato va in scena “La masseria delle allodole” (Vaticanews 21.07.18)

Si è aperta a San Miniato, in provincia di Pisa, la 72.esima edizione della Festa del Teatro. L’iniziativa è promossa ogni anno dalla Fondazione Istituto Dramma Popolare di San Miniato grazie al sostegno di numerose realtà locali come la diocesi, il Comune e la Fondazione Cassa di Risparmio

Adriana Masotti – Città del Vaticano

Il romanzo “La masseria delle allodole” di Antonia Arslan, dal quale i fratelli Paolo e Vittorio Taviani trassero nel 2007 un film di successo, sul genocidio degli armeni, vede rappresentata in questi giorni la sua prima versione teatrale. A proporla è la Fondazione Istituto Dramma Popolare di San Miniato nell’ambito della Festa del Teatro di San Miniato che si concluderà il 25 luglio prossimo. La regia è di Michele Sinisi, con lo scenografo Federico Biancalani e con il drammaturgo Francesco Maria Asselta. Una decina gli interpreti tra cui Stefano Braschi e Marco Cacciola.

Il genocidio armeno simbolo del male

“La masseria delle allodole” racconta uno degli eventi più drammatici del ‘900: il genocidio degli armeni da parte dei turchi durante la prima guerra mondiale, ricostruito sul filo dei ricordi familiari e consegnato alla memoria collettiva in un intreccio di storia e poesia.
Molte le ragioni che hanno portato alla scelta di questo lavoro per l’edizione di quest’anno del Festival. “La ragione principale – spiega ai nostri microfoni il presidente dell’Istituto Dramma Popolare, Marzio Gabbanini – è che il dramma popolare intende rimanere in linea con la sua missione. E la sua missione è quella di affrontare problemi di attualità, di affrontare tutte quelle questioni che pongono interrogativi sul nostro esistere. C’ è parso dunque il momento di riprendere il discorso già affrontato dai nostri celeberrimi concittadini, i fratelli Taviani, su una realtà, il genocidio degli armeni, che è stata a lungo sottaciuta, e di affrontarlo anche in forma teatrale. Tutti gli spettacoli del Festival hanno avuto negli anni lo stesso filo conduttore: bisogna costruire ponti, fare inclusione, accoglienza, dialogare tra le religioni. Questo è il messaggio: rispettare tutti,  proprio perché anche oggi si assiste a forme di persecuzione e di violenza sulle minoranze, soprattutto per motivi religiosi”. (Ascolta l’intervista a Marzio Gabbanini, sulla Festa del Teatro di San Miniato)

Un doveroso omaggio ai fratelli Taviani

San Miniato è la città dei fratelli Taviani, nel marzo scorso la morte di Vittorio, il più anziano: anche questo è uno dei motivi della scelta di mettere in scena “La masseria delle allodole”.
“Sì, noi abbiamo voluto omaggiare i fratelli Taviani di cui siamo orgogliosi e siamo molto addolorati che Vittorio, il fratello maggiore, sia morto. Loro hanno affrontato la tematica del genocidio degli armeni e hanno fatto un film celeberrimo, e noi abbiamo deciso di portarlo in teatro. Noi siamo il teatro dello spirito, il teatro del cielo, non siamo un teatro confessionale e non abbiamo nemmeno la pretesa di dare risposta a questi interrogativi. La nostra missione è di far riflettere su questi problemi”.  Il Teatro popolare, prosegue Gabbanini, “è un teatro che si deve rappresentare sui sagrati delle chiese, nelle piazze, nelle fabbriche, dove la gente si incontra, senza rinunciare alla qualità degli spettacoli e io credo che anche quest’anno ci si sta riuscendo”.

La versione teatrale del regista Sinisi

Portando in scena questo testo nell’ambito del Festival di San Miniato, Michele Sinisi racconta la struggente nostalgia per una terra e una felicità perdute.
Diversi i linguaggi narrativi utilizzati: “Nel mio teatro le parole sono presenti – spiega il regista – l’azione verbale è presente ma condivide sulla scena lo stesso ruolo con altri segni che appartengono ad altre possibilità comunicative: segni pittorici, scultorei, musicali, strumentali… Tutto questo concorre nel mio modo di far teatro a costruire un corpo narrativo che è contemporaneo e popolare nell’accezione per cui noi oggi nella comunicazione ormai strutturalmente adoperiamo segni ed elementi tecnici che ci permettono di comunicare anche a distanza ma che formano anche la consapevolezza degli altri”. (Ascolta l’intervista a Michele Sinisi su “La masseria dell’allodole” a San Miniato)

Un gesto d’amore senza uno scopo è la vera rivoluzione

Il nostro lavoro su “La masseria delle allodole”, spiega Sinisi, si focalizza su una continua azione scenica sviluppata in un pranzo durante il quale si parla di scienza, di poesia, di amore, di Dio, di musica e di contrasti generazionali. È la vita nella sua semplicità e bellezza. A questa prima parte segue l’irruzione dei turchi. E qui assoluto protagonista è il male, la cattiveria più brutale di cui l’essere umano può essere capace. Ma confrontarsi con il male può servire ad allontanarci dal compierlo ancora? “Io credo – afferma il regista – che questo possa essere utile nella misura in cui però si capisce che quel male, quell’esperienza, quella possibilità è interna a ciascuno di noi”. Il punto è comprendere che l’innocenza come quella legata ai nostri primi anni di vita, risulta la vera cifra vincente di tutte le storie. “Nel rapporto con la nostalgia e nel ricordo delle cose che non sono più, nello sfuggevole piacere di qualcosa che è stato il bene- conclude Sinisi – c’è un continuo rinnovare quell’esperienza di un amore e un darsi agli altri senza interesse, senza uno scopo. E penso che questo sia il vero gesto rivoluzionario in questo momento della nostra storia”.