Intervista ad Antonia Arslan (Mangialibri 21.10.19)

Raggiungo Antonia Arslan al telefono prima della sua partecipazione a Pordenonelegge 2019. Spirito indomito, vivace, scrittrice e poetessa che si adopera per il ricordo dello sterminio del popolo armeno di cui lei è figlia e per recuperare la memoria di poetesse e scrittrici che, nei secoli, sono colpevolmente finite tra le pieghe della storia. Conversazione piacevolissima e grande affinità di pensiero fanno di questa intervista una cosa preziosa.

Gran parte delle tue opere è dedicata alla cura della memoria del popolo armeno. Quanto è importante la letteratura per la memoria?
È una bella domanda. Ci sono molte testimonianze dirette dei sopravvissuti alle tragedie e sono importantissime perché ci danno dati reali, ma non sono letteratura. Quando alcune di queste testimonianze diventano un libro e cioè si trasformano in letteratura, in qualcosa di pensato per i lettori, per esempio in un romanzo che ha quindi una struttura precisa, ha dei personaggi che si muovono dentro una storia allora restano, mentre invece le testimonianze quando i protagonisti muoiono vanno perdute.

Ti chiedo, esiste una gerarchia dei genocidi? Un ordine decrescente? Penso per esempio al massacro di Srebrenica di cui si parla pochissimo. Come si spiega la dimenticanza della tragedia del 1915?
Esiste conoscenza di serie A e di serie B. Grazie al negazionismo turco e al silenzio delle nazioni europee, degli armeni non si è più parlato dopo il trattato di Losanna, ma non solo riguardo al genocidio ma anche in ambito artistico la cultura millenaria armena è stata completamente silenziata. Si parlò molto del massacro, tutti i giornali parlavano dell’Armenia e questa è una cosa che va sempre ripetuta perché tutti sapevano, all’epoca. Però dopo il trattato di Losanna con cui le potenze vincitrici si misero d’accordo riguardo all’impero ottomano che diventò la Turchia, la parola “armeno” scomparve, non solo non si parlò più del genocidio ma anche in ambito artistico la cultura millenaria armena è stata completamente silenziata. È il primo esempio del Novecento di un avvenimento scottante che viene silenziato per così tanti anni (ben ottanta). È la nostra generazione che solleva la pesante coltre di silenzio. Adesso stanno uscendo volumi dedicati alla raccolta di tutti gli articoli che sono usciti sui giornali degli Stati Uniti fino al 1920 sulla questione armena, grazie anche all’aiuto economico di alcuni sponsor armeni. Mentre dopo la Seconda guerra mondiale col processo di Norimberga non si è più potuto tacere, per gli Armeni il percorso è stato molto più lungo. Ma ci sono altre tragedie altri massacri di cui non si parla più: tu prima mi hai citato Srebrenica ma anche lo sterminio degli ucraini, dai 5 ai 7 milioni di contadini lasciati morire di fame perché il governo sovietico, guidato da Stalin, non voleva più che quella terra fertile venisse coltivata dagli ucraini.

Sembra che il recupero della memoria sia parte integrante della tua vita. Da dove nasce il tuo percorso di riscoperta di poetesse e scrittrici del passato?
Nasce un po’ per caso. Ho collaborato ad un saggio che trattava del romanzo popolare tra Ottocento e Novecento, scritto da studenti universitari (a quell’epoca insegnavo all’università di Padova). In questo libro erano già presenti due scrittrici. Allora ho provato a vedere quante donne scrivevano in quel periodo e poi via via mi sono interessata alla scrittura femminile anche dei periodi precedenti.

In relazione alla domanda precedente, esiste una sostanziale differenza tra il linguaggio femminile e il linguaggio maschile, nella poesia come nella letteratura?
Oggi non più. Perché oggi la donna può fare qualsiasi mestiere, l’esperienza le si è aperta. Certamente nell’Ottocento era ovvio che ci fosse una dissezione abbastanza radicale: primo perché gli uomini studiavano di più e utilizzavano un linguaggio più “raffinato” che spesso però era molto distante dai lettori. Se tu prendi un libro di successo degli anni fino a prima dell’Unità d’Italia, di un autore uomo, leggi e trovi un linguaggio che oggi veramente non possiamo tollerare, mentre il linguaggio utilizzato da una qualsiasi scrittrice è molto più tollerabile. Le donne nel secondo Ottocento leggono e scrivono tanto e soprattutto diventano professioniste, molte si mantengono scrivendo e sanno raggiungere il loro pubblico di lettori, che sono soprattutto lettrici perché le donne cominciano a essere alfabetizzate. Le autrici venivano anche molto rispettate dai colleghi maschi e questo è dimostrato dai carteggi, per esempio le lettere tra Neera e Verga o Capuana.

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