La rimozione dell’Artsakh (Il Manifesto 27 12.23)

VIAGGIO IN ARMENIA. Tra gli sfollati della regione separatista del Nagorno Karabakh, costretti a lasciare in blocco le loro case lo scorso settembre dopo l’offensiva dell’esercito azero. «Non si tratta solo di una contesa territoriale – racconta Monika -, è una questione che riguarda la nostra identità». Per la diaspora, spiega il ricercatore Figari Barberis, «la resa diventa lo spettro di un altro genocidio»

 

«Queste scarpe sono tutte rovinate, piene di graffi, ma ora non me la sento di buttarle», dice Mary Asatryan mentre percorre il viale del Tsitsernakaberd, il memoriale del genocidio armeno. Dall’alto, osserva i tipici palazzi in pietra rosa di Erevan. «Le ho indossato per quasi un anno durante il blocco – indica, ridendo, le sue sneakers – erano le uniche che avevo».

Mary ha 27 anni ed è figlia della diaspora. Dopo essere cresciuta a Mosca e aver studiato in Belgio, decide di trasferirsi in Nagorno Karabakh, la repubblica separatista armena inserita de iure nei confini dell’Azerbaigian. In questo Stato de facto, da cui proviene una parte della sua famiglia, diventa assistente dell’ombudsman, il difensore civico per i diritti umani.

NEL DICEMBRE 2022, a meno di due mesi dal suo arrivo, un gruppo di “eco-attivisti” azeri blocca però il Corridoio di Lachin, l’unica strada che collega la regione con l’Armenia e il resto del mondo, con il pretesto di «impedire il trasporto di armi e risorse naturali». Negozi e farmacie si svuotano progressivamente, iniziano le interruzioni di gas ed elettricità. Presto la paralisi diventa totale, e scoppia così una crisi umanitaria: anche ai convogli della Croce Rossa e ai peacekeepers russi viene bloccato il passaggio. «C’è stato un momento in cui c’era solo, ogni tanto, del pane non lievitato, razionato e distribuito con dei voucher. Stavamo in fila giornate intere, ma spesso finiva prima del proprio turno» ricorda Mary.

La situazione precipita il 19 settembre, quando, dopo 9 mesi di blocco, l’Azerbaigian lancia un’offensiva militare. In 48 ore le autorità dell’Artsakh – come viene chiamata la repubblica dagli armeni – vengono costrette alla resa. L’attacco scatena un esodo di massa e, in pochi giorni, la quasi totalità degli abitanti fugge verso il Corridoio di Lachin, abbandonando la casa e tutti i propri averi.

«ABBIAMO TRASCORSO tre giorni e tre notti in auto per raggiungere il confine, su un percorso che di solito si fa in un’ora e mezza. Decine di persone viaggiavano ammassate nei rimorchi dei camion. Alcuni, per paura che l’esercito azero devastasse i cimiteri, avevano riesumato le bare dei propri cari portandosele dietro – prosegue Mary – da allora mi sono trasferita qui a Erevan».

Basta alzare gli occhi per le vie della capitale, così come nei villaggi più piccoli, per rendersi conto di quanto la questione dell’Artsakh sia ben impressa nel paesaggio urbano e rurale armeno. I murales dei giovani combattenti caduti nei conflitti degli anni ‘90 e del 2020 ricoprono le pareti spoglie di molti palazzi sovietici, striscioni commemorativi contornano le strade. A Goris, la prima città dell’Armenia per chi proviene dal Corridoio di Lachin, la bandiera del Nagorno Karabakh sventola nella piazza principale. Proprio qui hanno fatto tappa tutti gli sfollati, raggiungendo poi le case, gli hotel o gli edifici non residenziali messi a disposizione dal governo per l’emergenza. Altri, invece, si sono appoggiati a amici e parenti che già vivevano oltre confine.

I ricordi di una vita lasciata alle proprie spalle
I ricordi di una vita lasciata alle proprie spalle

Secondo i dati della Croce rossa internazionale, a oggi il 70% dei 101.000 sfollati registrati si è trasferito nell’area di Erevan e nei distretti limitrofi, in migliaia ancora ospitati negli alloggi temporanei.

A gravare sulle scelte di chi ha dovuto reinventarsi una nuova vita ha pesato anche la questione della ricerca di una residenza a lungo termine. La capitale negli ultimi anni ha più volte registrato un’impennata nei prezzi degli affitti. Non da ultimo dallo scoppio del conflitto in Ucraina, quando un gran numero di espatriati russi – in prevalenza specialisti del settore tecnologico – si è trasferito in città per lavorare da remoto.

IN BASE A STIME della Croce rossa, diversi sfollati sarebbero ancora in movimento da un rifugio o da una regione all’altra, in cerca di sistemazione permanente e di una fonte di reddito.

«Quando siamo arrivati qui c’erano più di 100 persone. Pensavamo di rimanere solo qualche giorno, visto che non eravamo neanche riusciti a farci una doccia, ma poi abbiamo deciso di rimanere», racconta Nora Gasparyan, un’insegnante di scuola elementare fuggita insieme alla figlia e al marito. Dopo aver dormito un paio di giorni in macchina, Nora giunge in una vecchia colonia estiva riadattata a rifugio temporaneo tra le valli dell’Armenia meridionale. «I colori di queste montagne mi ricordano quelli di casa mia – aggiunge – e questo mi aiuta a sentirmi ancora un po’ là».

 

CON IL SUPPORTO di un’associazione locale, i residenti della colonia si riorganizzano per ritrovare una quotidianità: un medico adibisce una stanza ad ambulatorio, mentre l’ex insegnante organizza delle lezioni. «Abbiamo iniziato a preparare i bambini per l’inserimento nelle scuole del circondario, e per metterli al passo dei nuovi compagni». Sulla cattedra, di fianco ai sussidiari, conserva un’ampolla d’acqua e un barattolo di terra raccolti nella sua città.

«Incontrerete molti rifugiati che hanno portato con sé un frammento della terra su cui sono nate», spiega Monika Sargsyan, direttrice della fondazione umanitaria Kasa. «Per noi – continua la donna – è da lì che viene la forza. È una credenza che ha radici profonde, che vanno fino alle leggende sui re dell’Età antica».

USCENDO DALL’AULA, le due donne si dirigono verso la sala comune, dove i residenti si ritrovano per il caffè. Su una parete è appesa una foto in bianco e nero: ritrae Monte Melkonian, uno dei partigiani più famosi della prima guerra del Nagorno-Karabakh (1992-1994).

Nato negli Stati uniti, Melkonian era tornato nella terra dei suoi antenati a combattere per l’Artsakh, che considerava un bastione per evitare lo sconfinamento azero verso il mondo armeno. «Non si tratta solo di una contesa territoriale – aggiunge Monika -, la battaglia per l’Artsakh coinvolge in qualche modo la nostra stessa identità».

Questa terra dalla storia tormentata custodisce infatti un valore culturale per gli armeni, grazie anche alla presenza di antichi siti religiosi che testimoniano la continuità della loro presenza nella regione, e quindi anche la loro autoctonia.

DAL CONFLITTO DEGLI ANNI ‘90, si sono però aggiunti altri significati simbolici, che per alcuni hanno anche a che fare con un sentimento di rivalsa dopo il genocidio del 1915. «Gli odierni azeri, benché parlino una lingua molto simile al turco, non sono discendenti dei turchi ottomani. Non erano parte della stessa entità politica durante il genocidio armeno del 1915», spiega Cesare Figari Barberis, dottorando in Relazioni Internazionali presso il Graduate Institute di Ginevra e specializzato nell’area caucasica. «Per molti armeni – prosegue il ricercatore – quello del Nagorno Karabakh è diventato però un conflitto contro un mondo turcofono allargato. Si può vedere per esempio nell’uso del termine “turco”, che gli armeni utilizzano per riferirsi sia agli azerbaigiani che ai turchi di Turchia». Questo vale in particolar modo per i membri della diaspora, per cui «la resa diventa lo spettro di un secondo genocidio, di una rimozione storica e culturale da una regione in cui si sentono popolazione autoctona», conclude.

UN TIMORE che il presidente dell’Azerbaigian Ilham Aliyev non ha di certo contribuito a placare quando, in occasione della prima visita ufficiale nella regione appena riconquistata, si è fatto riprendere mentre calpestava una bandiera dell’Artsakh nell’ex palazzo del governo.

Camminando verso la fiamma eterna del memoriale, Mary Asatryan volta le spalle ai condomini di Erevan. «Ho sempre letto quella parte di Storia sui libri, ma mi era sempre sembrata così lontana – riprende – eppure fuggendo dall’Artsakh ho avuto l’impressione che la storia si stesse ripetendo, nel sentir dire alla gente intorno a me “sembra di essere nuovamente nel 1915″».

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