“L’altra guerra”, il Nagorno Karabakh (Il Mondo 20.11.23)

La storia di un conflitto mai sopito che si è “risolto” con la cancellazione dell’enclave armena in territorio azero e senza mai raggiungere la pace

Verrebbe quasi da consigliare agli armeni di scrivere un libro, intitolarlo Spare, e tentare così di abbandonare il ruolo del “minore” per avere quel risalto, storicamente, sempre negato. La storia del secondogenito di Re Carlo non è certo paragonabile a quella degli armeni del Nagorno Karabakh, ma che questi abbiano sofferto di una sorta di sindrome da “messa in ombra” agli occhi del mondo, ricostruendone i processi storici che li hanno coinvolti, sembra innegabile. La riprova arriva nel 2023 quando, nonostante la guerra in Ucraina, il mondo si concentra su quanto accade nell’enclave armena in territorio azero, è il 19 settembre, ma il 7 ottobre l’attenzione si sposta sul Medio Oriente a causa dell’attacco di Hamas a Israele che dà il via a un nuovo vortice di violenze nella Striscia di Gaza.

Per ricostruire la storia del Nagorno Karabakh, però, è utile tornare al 1917. A seguito della Rivoluzione russa il territorio viene inglobato dalla Federazione Transcaucasica che, nel giro di poco, si suddivide in Armenia, Azerbaigian e Georgia. È l’Azerbaigian a rivendicare la sovranità sulla provincia e, nonostante la Repubblica dell’Armenia montanara sia contraria, nel 1919 il controllo del territorio viene riconosciuto al governo azero dalle potenze alleate; lo status viene poi ufficialmente determinato durante la Conferenza di pace di Parigi, decisione vista dall’Azerbaigian come riconoscimento delle proprie rivendicazioni ma criticata duramente dall’Armenia. Importante ricordare che in quegli anni la popolazione della regione è armena per il 95%.

È il 1920 e la Transcaucasia viene conquistata dalla Russia che prima promette di assegnare il Karabakh all’Armenia, ma poi – al fine di ottenere favori dalla neonata Turchia – decide di assegnare la provincia (insieme a quella di Nakhchivan) al filoturco Azerbaigian, riservando invece all’Armenia lo Zangezur. Nasce a questo punto l’Oblast Autonoma del Nagorno Karabakh (parte della Repubblica Socialista Sovietica Azera): è il 1923 e il territorio inizia a godere di una sostanziale autonomia politica. Una stagione destinata a non durare a lungo.

Ancora prima dello scioglimento dell’Unione Sovietica nel 1991, infatti, le rivendicazioni riemergono con forza. Nuovi moti esplodono nel 1988 quando il Nagorno Karabakh chiede l’annessione all’Armenia; gli scontri provocano due vittime azere, in risposta avviene un vero e proprio “pogrom”, una violenta sollevazione popolare contro la minoranza armena, e in tre giorni, secondo le fonti governative, muoiono 26 armeni e 6 azeri (anche se alcune informazioni del Congresso americano parlano di centinaia di vittime).
Il massacro, avvenuto a Sumgait, è il prologo di quanto avviene nelle settimane a seguire in altre città, come Spitak e Ghugark, e provoca un esodo di popolazione sia armena sia azera che per sfuggire alle violenze cerca di fare ritorno in patria. Nel 1989 le violenze raggiungono picchi mai visti e l’Unione Sovietica decide in prima battuta di aumentare i poteri alle autorità azere con l’obiettivo di controllare la regione, ma una sessione unita del Soviet Supremo armeno e del Consiglio Nazionale del Nagorno Karabakh proclama l’unificazione con l’Armenia; in tutta risposta a Baku nel gennaio del 1990 si svolge una nuova azione di violenza indiscriminata verso la popolazione armena da parte degli azeri. Alla violenza si risponde con altra violenza, con Mosca che inverte la rotta e appoggia la parte armena inviando truppe a sopprimere il Partito del Fronte Popolare dell’Azerbaigian provocando l’uccisione di 122 rivoltosi azeri mentre il segretario del Soviet Supremo, Michail Gorbačëv, accusa il Fronte Popolare di voler instaurare una repubblica islamica in Azerbaigian. Alla fine delle ostilità a uscirne vincitrici sono le forze armene che riescono non solo a espellere l’esercito azero dalla regione ma anche a occupare parzialmente 7 distretti azeri limitrofi al Nagorno Karabakh, incluso il corridoio di Lachin che unisce la regione all’Armenia.

L’anno seguente l’Azerbaigian lascia l’Unione Sovietica per dar vita alla Repubblica; pochi giorni dopo il Soviet del Nagorno Karabakh vota per la costituzione di una entità statale autonoma. La battaglia diplomatica continua e dopo alcuni mesi l’Azerbaigian vota per l’abolizione dello statuto autonomo del Karabakh. Interviene però la Corte Costituzionale sovietica che respinge la decisione, dichiarando che la questione non è più materia sulla quale l’Azerbaigian ha potere di legiferare.

È il 10 dicembre 1991 quando il Nagorno Karabakh approva il referendum confermativo, seguono le elezioni politiche e, il 6 gennaio 1992, viene proclamata ufficialmente la Repubblica. Il 31 gennaio iniziano i bombardamenti azeri sulla regione: si apre così la Prima guerra del Nagorno Karabakh che finirà solo nel 1994, con l’accordo di cessate il fuoco firmato a Biškek il 5 maggio.

Alla fine del conflitto, dopo circa 30 mila morti, il Nagorno Karabakh si consolida come repubblica de facto (non riconosciuta dalla comunità internazionale). A causa della guerra l’intera popolazione azera dell’Armenia e del Nagorno Karabakh, oltre che dei distretti caduti sotto il controllo armeno, fugge in Azerbaigian, centinaia di civili azeri vengono massacrati il 26 febbraio 1992 a Khojaly da parte dell’esercito armeno e di un reggimento russo. Da parte azera il malcontento permane e Baku lamenta la perdita del proprio territorio chiedendo la rivendicazione del principio di integrità territoriale, mentre gli armeni rivendicano il principio di autodeterminazione dei popoli.

Nel 2002 ha avvio il Processo di Praga, una serie di incontri tra leader dell’Armenia e dell’Azerbaigian sotto la Presidenza del Gruppo di Minsk dell’OSCE – l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa – che ha come obiettivo la stipula di un accordo di cessazione del conflitto armato e la promozione del processo di pace. Il gruppo, che vede alla co-presidenza Francia, Russia e Stati Uniti, ha al suo interno esponenti di Bielorussia, Germania, Italia, Portogallo, Paesi Bassi, Svezia, Finlandia e Turchia, e sperimenta un nuovo metodo di contrattazione che non prevede “nessun programma, nessun impegno, nessun negoziato, ma una discussione libera, su qualsiasi questione proposta dall’Armenia, dall’Azerbaigian o dai copresidenti”, ma lo stallo non viene superato. Si giunge poi alla dichiarazione di Madrid del 2007 e a quella di Meiendorf dell’anno seguente, accordi sottoscritti da Armenia e Azerbaigian, ma senza la partecipazione delle autorità della Repubblica separatista. Il primo atto ufficiale scritto dopo la fine della Prima guerra del Nagorno Karabakh è proprio quello russo, ma una pace vera e consolidata non viene raggiunta e la situazione viene definita di “conflitto congelato”, anche se il sangue continua a scorrere, dato che periodicamente viene aperto il fuoco sul confine e soldati, di entrambe le parti, continuano a morire. Nell’aprile 2016 avviene una nuova escalation azera, detta “guerra dei quattro giorni” che altro non sembra essere che una prova generale della guerra del 2020; in questa occasione viene raggiunto un accordo di cessate fuoco con la mediazione della Russia e l’appoggio degli Stati Uniti.

Nel 2017 la Repubblica del Nagorno Karabakh approva una nuova Costituzione e cambia nome in Repubblica di Artsakh (anche se entrambi i nomi restano ufficiali). Dal 1994, alla fine del primo conflitto, truppe armene e azere sono rimaste a presidiare la linea di contatto dell’Artsakh – il confine creato dall’accordo di Biškek – e proprio lungo questa linea il 27 settembre 2020 ha inizio la Seconda guerra del Nagorno Karabakh. A dare il via allo scontro sono le forze di Baku che lanciano diversi attacchi missilistici e aerei – le autorità azere parlano di controffensiva di un attacco armeno, ma l’ingente dispiego di uomini e mezzi sembra dare la riprova che si trattasse di un attacco premeditato e pianificato, non una semplice rappresaglia – e dichiarano la riconquista, smentita dalle autorità del Nagorno Karabakh, di diverse zone contese. Si susseguono attacchi e tregue che riescono a durare solo poche ore; ad avere la meglio sono le truppe azere che avanzano verso il confine con l’Armenia, ma a destare la massima preoccupazione è la presa della città di Hadrut, che dimostra l’intenzione azera di conquistare non solo i distretti al di fuori dell’Oblast originaria, ma anche del territorio storicamente appartenente alla Repubblica separatista.

La guerra continua fino al 9 novembre, nelle ultime settimane i colpi inflitti dalle truppe di Baku sono sempre più forti, anche grazie all’utilizzo di droni turchi e israeliani; dall’inizio di novembre i civili fuggono in massa dalla Repubblica di Artsakh a causa del timore che cada anche la capitale, Stepanakert. Durante il conflitto muoiono circa 7 mila persone.

L’accordo di tregua, siglato dal presidente azero İlham Aliyev, dal primo ministro armeno Nikol Pashinyan e dal presidente russo Vladimir Putin, prevede che 1.960 peacekeeper russi siano posti nella regione per almeno cinque anni in modo da proteggere il corridoio tra il Nagorno Karabakh e l’Armenia e che siano le forze turche, come deciso da Baku, a provvedere alla pace per la parte azera. Per l’Azerbaigian, che ottiene il ritiro delle forze armene dai territori occupati, la “dichiarazione costituisce la capitolazione dell’Armenia. Questa affermazione pone fine all’occupazione di anni”, come sostiene il presidente Aliyev, mentre a Yerevan si scatena il malcontento della popolazione armena.

L’accordo, però, lascia aperte diverse questioni: prima su tutte non viene menzionato lo status futuro del Nagorno Karabakh, ma anche la posizione russa diventa cruciale. Oltre al dislocamento di una forza di pace nella regione, il Cremlino deve risolvere la questione della demarcazione di una nuova frontiera tra Armenia e Azerbaigian – impresa ardua giacché ai tempi dell’Unione Sovietica non esistevano confini chiari – ma è presente anche una nuova questione. Con l’invasione russa in atto in Ucraina – che aggrava ulteriormente il grado di instabilità della regione caucasica – viene meno il ruolo da mediatore di Mosca e a seguito delle sanzioni imposte dalla comunità internazionale alla Russia l’Azerbaigian si trova a essere un Paese essenziale sia per il transito delle esportazioni energetiche russe sia come fonte di materie prime per gli Stati europei.

Consapevole di poter contare su una posizione privilegiata, Baku attacca nuovamente il confine con l’Armenia occupando alcune zone strategiche tra il 12 e il 14 settembre 2022. Nel dicembre 2022 alcuni sedicenti attivisti ambientalisti azeri si impegnano a bloccare il passaggio di mezzi e persone nel corridoio di Lachin (che l’Azerbaigian nel trattato di pace del 2020 si era impegnato a tenere aperto), ad aprile l’esercito prende il posto degli attivisti e istituisce un checkpoint; con la chiusura dell’unico collegamento con l’Armenia vivere in Nagorno Karabakh è sempre più difficile, con le forniture di medicinali e alimentari sempre più scarse e continue mancanze di gas ed elettricità. A fronte di tale situazione il premier armeno Nikol Pashinyan spiega non si possa parlare “di una preparazione al genocidio, ma di un processo di genocidio in corso” e a causa della mancata protezione russa davanti all’attacco azero l’Armenia inizia a smarcarsi dal Cremlino tanto da cercare di riallacciare i rapporti con la Turchia (i due Paesi non hanno rapporti diplomatici dal 1993, nonostante fossero già complicati prima, a causa del genocidio armeno avvenuto durante la Prima Guerra Mondiale), storica alleata azera.

Si arriva così ai fatti più recenti, l’attacco azero al Nagorno Karabakh del 19 settembre 2023. A giustificare i bombardamenti Baku parla di “attività antiterroristiche nel Nagorno Karabakh” per “ripristinare l’ordine costituzionale” nella regione, dato che secondo Baku lo scoppio di una mina anticarro posta dagli armeni ha provocato la morte di quattro militari e due civili azeri. Il giorno seguente, con la mediazione dei peacekeeper russi, si giunge a un accordo per il cessate il fuoco.

Ormai completamente incrinate le relazioni tra Armenia e Russia (che era stata avvertita preventivamente dell’attacco), i media russi attribuiscono la responsabilità all’Armenia e l’ex presidente Dmitrij Medvedev individua Pashinyan come responsabile, a causa della sua decisione di far allontanare il Paese dall’orbita russa (“reo” inoltre di esercitazioni militari al fianco degli Stati Uniti).

Dal Nagorno Karabakh vengono denunciate violazioni del cessate il fuoco, mentre un esodo di massa coinvolge i civili della Repubblica dell’Artsakh e li costringe a fare ritorno in Armenia – più dell’80% degli abitanti armeni della Repubblica, oltre 100mila persone, ha lasciato la regione – e la Corte penale internazionale parla espressamente del pericolo di un nuovo genocidio e di pulizia etnica. Il 28 settembre viene siglato un accordo che impone la fine dell’esistenza della Repubblica dell’Artsakh dal primo gennaio 2024. A seguito della firma il portavoce del Cremlino Dmitrij Peskov ha definito quella del Nagorno Karabakh una questione interna azera, a dimostrazione del disinteresse russo. Il 18 ottobre successivo il premier armeno alla sessione plenaria del Parlamento europeo ha attaccato apertamente Mosca, accusandola di inazione.

Finisce così, dunque, la storia del Nagorno Karabakh, protagonista dell’“altro” conflitto che sembra destare scarsa preoccupazione in Occidente, nonostante l’importanza della regione caucasica – confinante con la Turchia a Ovest, con la Russia a Nord, con l’Asia a Est e con il Medio Oriente a Sud – e dei due oleodotti e due gasdotti che passano proprio nel territorio del Nagorno Karabakh. In tutta la storia della Repubblica separatista non è mai stato firmato un accordo di pace – di cui adesso si fanno i primi accenni -, una pace che ad oggi sembra impossibile da raggiungere perché troppo dipendente dalle logiche di Paesi più forti del Nagorno Karabakh, destinato a rimanere il “minore”, Spare.

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