Le macerie di Aleppo e lo sguardo di Gregorio XX (Ilsole24ore 27.02.16)

Quanti di voi, in questi ultimi mesi, hanno sentito parlare di Aleppo! Una città bellissima e piena di storia, che ho avuto la possibilità di visitare qualche anno fa e che oggi è ridotta a un cumulo di macerie. In questi giorni ho incontrato un uomo ottantaduenne, nativo proprio di Aleppo, Gregorio Pietro XX, Patriarca della Chiesa armeno-cattolica. Una “persona di varia umanità”, come si diceva un tempo sulle riviste di studi classici. E così mi è apparso nel mio ufficio; un uomo che per la sua notevole attenzione verso gli altri è oggi un punto di riferimento nei rapporti diplomatici con la Siria e il Libano.

Era già in pensione – mi ha raccontato – quando nel 2015 il Sacro Sinodo lo ha indicato come Patriarca. «Sai – mi ha detto – prima di accettare, ho fatto di tutto per avere la benedizione di Papa Francesco. Non me la sentivo di accettare, data la mia età e date anche le difficoltà in cui stiamo come Chiesa armena e come cristiani di Oriente». La benedizione e l’incoraggiamento arrivarono subito da Francesco, un uomo, anch’egli avanti negli anni, ma che non smette di sorprendere per i suoi gesti e per le sue parole! Anche l’amico e fratello Gregorio Pietro XX mi ha sorpreso; mi ha confidato di guardare con preoccupazione alla situazione siriana e ai profughi, soprattutto ai bambini. «Sono tanti – mi ha detto – e molti non sono accompagnati!». Il suo sguardo un po’ malinconico è cambiato solo quando gli ho assicurato che, dopo aver parlato con il cardinale Bagnasco, come Chiesa italiana e attingendo alle risorse dell’8×1000, avremmo sicuramente contribuito alla ristrutturazione dell”“Orfanotrofio Agagianian” in Libano, destinato ai minori provenienti dalla Siria. Credetemi, il suo volto portava impressi i segni e l’angoscia dei racconti delle famiglie siriane che vediamo aggirarsi per la nostra Europa. Accogliendo la sua richiesta di sostenere questo progetto mi è parso di asciugare un po’ quelle lacrime e aprire qualche varco di speranza. Lo so, è troppo poco!

Di recente ho letto un bel libro di un siriano armeno, Jamil Boloyan, un professore universitario che insegna a Lecce, autore del Richiamo del sangue. Oggi noi che viviamo più o meno sereni, anche se a Piazza San Pietro e per le nostre strade di tanto in tanto spunta doverosamente l’esercito, non possiamo capire che cosa vuol dire avere il richiamo del sangue, sapere di avere la guerra in casa, sapere di avere la propria famiglia in quei luoghi. Gregorio XX mi ha fatto notare un aspetto ancora più drammatico della storia che vive il suo popolo: gli armeni portano il senso della tragedia, come un lamento impresso in loro e ben sintetizzato nei famosi romanzi della Arslan: i genocidi non sono tutti uguali, purtroppo. Gli armeni fanno ancora tanta fatica a veder riconosciuto il loro massacro, il loro Olocausto, per il quale, invece, ha avuto parole chiare Papa Francesco. Il Patriarca mi faceva notare con amarezza che, dopo le parole del Santo Padre, il governo italiano ritenne di non prendere una posizione ufficiale: non è compito dei governi decidere che cosa sia successo, i genocidi sono affari degli storici, fu detto. Mi piacerebbe capire di più su tutto questo! Gregorio XX mi ha ricordato con uno sguardo a tratti riconoscente i Paesi che riconoscono il genocidio armeno; tra questi la Svezia, la Lituania la Svizzera, la Finlandia, la Russia, la Slovacchia, la Grecia, la Polonia e il Vaticano. Nella Turchia di Erdogan, oggi, nonostante la scarsa libertà, come racconta anche l’Arcivescovo Zekiyan, nonostante le polemiche con il Papa, si possono tenere conferenze sulla cultura armena e concerti in memoria del genocidio. Loro sperano che giungano esponenti del governo turco e, pur considerando le difficoltà, anche segnali più chiari dall’Italia.

Abbiamo ricordato insieme la intensa e commovente mostra che si è tenuta al Vittoriano, «Armenia, il popolo dell’Arca», articolata in maniera complessa e dotta, in sette sezioni ricche di reperti archeologici, codici miniati, opere d’arte, illustrazioni e documenti, tra cui il testo di Antonio Gramsci e promossa dal ministero della Cultura armeno e dall’Ambasciata della Repubblica d’Armenia in Italia. Facendo memoria di qualche mia lettura giovanile, ho riletto col Patriarca quello che lo stesso Antonio Gramsci scrisse nel 1916: «L’Armenia non ebbe mai, nei suoi peggiori momenti, che qualche affermazione platonica di pietà per sé o di sdegno per i suoi carnefici; “le stragi armene” divennero proverbiali, ma erano parole che suonavano solo, che non riuscivano a creare dei fantasmi, delle immagini vive di uomini di carne ed ossa. Sarebbe stato possibile costringere la Turchia, legata da tanti interessi a tutte le nazioni europee, a non straziare in tal modo chi non domandava altro, in fondo, che di essere lasciato in pace. Niente mai fu fatto, o almeno niente che desse risultati concreti. Dell’Armenia parlava qualche volta Vico Mantegazza nelle sue prolisse divagazioni di politica orientale. La guerra europea ha messo di nuovo sul tappeto la questione armena. Ma senza molta convinzione. Alla caduta di Erzerum in mano dei russi, alla probabile ritirata dei turchi in tutto il Paese armeno non è stato dato nei giornali neppure lo stesso spazio che all’atterramento di uno “Zeppelin” in Francia. Gli armeni che sono disseminati in Europa dovrebbero far conoscere la loro patria, la loro storia, la loro letteratura. È avvenuto in piccolo per l’Armenia ciò che è avvenuto in grande per la Persia. Chi sa che i più grandi arabi (Averroè, Avicenna ecc) sono invece… persiani? Chi sa che quella che si è soliti chiamare civiltà araba è invece in gran parte persiana? E così quanti sanno che gli ultimi tentativi di rinnovare la Turchia furono dovuti agli armeni e agli ebrei? Gli armeni dovrebbero far conoscere l’Armenia».

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