Nagorno Karabakh: falsi ambientalisti e rischio umanitario (Osservatorio Balcani e Cuacaso 19.12.22)

Il 3 dicembre scorso un gruppo di azeri in abiti civili ha bloccato la strada Stapanakert-Goris all’altezza dell’intersezione Shusha/i – Karin Tak/ Dișaltı. Il gruppo di persone ha dichiarato di essere mosso da motivazioni di tipo ambientale  . Per mezza giornata il collegamento fra Nagorno Karabakh e Armenia è risultato interrotto e la situazione si è sbloccata non facilmente con l’intervento dei peacekeeper russi.

L’intero episodio va ascritto in un complesso contesto in cui risulta evidente che Baku sta premendo per procedere con il negoziato, non si fida di Yerevan, e sta tirando vari fili in contemporanea per indirizzare il processo verso i propri interessi, da una posizione di forza.

Per Baku e Ankara questa è una rarissima congiuntura storica. Non solo l’Azerbaijan è uscito vincitore nel conflitto del Karabakh e ha dimostrato di aver messo insieme un esercito contro cui l’Armenia non può combattere, ma le due storiche potenze regionali con le quali da trecento anni ci si contende il Caucaso, ovvero Russia e Iran, sono travagliate da situazioni molto critiche che le pongono in grande isolamento internazionale. Un nuovo fronte sarebbe per entrambe difficile da gestire. L’occasione è quindi rara, e Baku e il suo alleato turco la stanno interpretando con piena consapevolezza.

Una delle fila che tira Baku riguarda la presenza militare russa in Karabakh. I peacekeepers russi sono accusati di lasciar transitare armi. Sulla tv azera vengono apertamente criticati e c’è persino una canzone che intona che il loro visto per l’Azerbaijan sta per scadere. Un recente sondaggio dice che l’80% degli azeri si pone negativamente verso i peacekeepers russi. L’Azerbaijan è stato sempre molto geloso della propria indipendenza militare, di essere stato da subito una delle poche repubbliche post sovietiche a non avere basi russe. La stazione radar di Qabala, l’unico presidio rimasto in mano russa, è tornato sotto il controllo di Baku nel 2012. Ora la presenza militare russa nella zona fa apparire quella del 2020 come una vittoria mutilata, e Baku non manca di ricordare in ogni singola dichiarazione pubblica che l’esercito russo è sul suo territorio de jure solo temporaneamente.

Prima della comparsa degli “ambientalisti” c’era stata una feroce polemica, partita dal ministero della Difesa azero. Ogni giorno i peacekeepers emettono un bollettino delle proprie attività in cui ci si riferisce al Nagorno Karabakh e alle località in modo non in linea con i toponimi azeri. È sempre stato così, dall’inizio della missione 2 anni fa. Ma ora il ministero della Difesa di Baku esige che nel bollettino vengano indicati i toponimi azeri e che il Nagorno Karabakh venga menzionato come area economica, come è stato deliberato dalla fine della guerra a Baku. I peacekeepers sostengono di non aver mai cambiato registro linguistico e che sia una polemica sterile. Per l’uso di toponimi come Stepanakert, Mardakert, la scelta sarebbe motivata dalla prassi commutata dal periodo Sovietico e le mappe ad esso afferenti. Il centro russo-turco di monitoraggio utilizza i toponimi indicati da Baku.

L’inizio dell’occupazione

La strada è stata sbloccata – stando a Baku – dopo aver ottenuto garanzie che si sarebbero attivati dei controlli su tutto ciò che transita fra Armenia e Nagorno Karabakh. Questo ha scatenato un ginepraio di illazioni, fra cui quella secondo la quale gli azeri avrebbero creato un check point sul corridoio armeno-karabakhi, informazione smentita sia dalle autorità de facto che dai peacekeepers, che dovrebbero ora secondo gli accordi dotarsi di scanner a raggi x e dell’occorrente per monitorare i carichi in transito.

Il 3 dicembre quindi è stato riaperto il transito verso le 3 del pomeriggio. Ma non è finita qui. Una delegazione azera è entrata nel Karabakh armeno, per la prima volta in decenni.

La delegazione composta da dipendenti del ministero dell’Ecologia e delle risorse naturali, un dipartimento del ministero dell’Economia e della AzerGold, azienda mineraria, si sono recati nel quartier generale dei peacekeepers a Khojali. Durante la discussione gli emissari di Baku hanno sollevato la questione dello sfruttamento delle risorse minerarie e dell’impatto ambientale di attività che non sono registrate in Azerbaijan, e quindi considerate illegali. Verso le 6 sono tornati a Shusha.

Un secondo incontro nella stessa sede si è tenuto il 7 dicembre. La delegazione è stata scortata dai peacekeepers al loro quartier generale  dove ha avanzato delle proposte per attivare il monitoraggio delle attività estrattive e per rendere noto che attività non registrate che comportano sfruttamento delle risorse non possono essere tollerate.

È in questa occasione che ha partecipato anche il segretario del Consiglio di sicurezza del Nagorno Karabakh. Quindi un rappresentante del governo de facto del Nagorno Karabakh ha preso parte ad un incontro attraverso il quale Baku ha iniziato a muovere i primi passi per esercitare la propria sovranità sul territorio che ad oggi rimane nel limbo del presidio militare russo, con 120.000 abitanti armeni che hanno espresso chiara volontà di non essere parte dell’Azerbaijan.

Lo sviluppo

La delegazione azera ha lamentato di non essere riuscita a visitare i siti minerari che sarebbero il casus belli della “mobilitazione ambientalista” e di conseguenza l’episodio del 3 dicembre è divenuto la porta di ingresso di una nuova strategia di pressione su Armenia e Nagorno Karabakh: il blocco temporaneo della strada, lo strategico passaggio di Lachin, è diventato un presidio permanente, organizzato con tende e con un numero crescente di attivisti che hanno continuato ad arrivare da varie regioni dell’Azerbaijan.

Nonostante Baku sostenga che la società civile azerbaijana stia esprimendo le proprie legittime preoccupazioni sullo sfruttamento del territorio, osservatori dentro e fuori l’Armenia vedono in questi episodi una strategia operata dal governo azero per esercitare pressione su Armenia e Nagorno Karabakh.

La situazione umanitaria

È un atto di forza con contorni meno violenti che la guerra aperta, ma che sta comunque creando una situazione umanitaria insostenibile. Il Karabakh dipende dall’Armenia e con questo cordone ombelicale chiuso, 120.000 abitanti vedono messi a rischio l’approvvigionamento di cibo, medicine, cure sanitarie. Il blocco infatti permane ed è consentito solo il transito a mezzi dei peacekeepers.

Al blocco stradale si è aggiunto il blocco dei rifornimenti di gas. Dal 13 al 16 dicembre infatti ha smesso di arrivare gas in Karabakh e sono cominciati i razionamenti di vari combustibili.

Dure le critiche a Baku da parte di UE e Stati Uniti, i primi a esprimere preoccupazione per il quadro umanitario che si sta delineando. L’ennesima delusione per l’Armenia, con Mosca che reagisce tardi, e attraverso una mediocre dichiarazione della portavoce del ministero degli Esteri mentre il controllo del corridoio è responsabilità dei peacekeepers per cui, molto semplicemente, toccherebbe a loro uno sgombero di una attività che viola gli accordi stipulati, come ha sottolineato il primo ministro armeno Nikol Pashinyan  . Il 19 dicembre, sempre su Twitter Pashinyan,  ha così descritto la situazione: “Da 8 giorni il corridoio di Lachin è chiuso dall’#Az e la gente del Nagorno Karabakh è bloccata per le strade al freddo, le famiglie si trovano su lati diversi del blocco. I cittadini con gravi problemi di salute sono privati ​​di medicine e servizi sanitari.”

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