Pallottole e Petrolio: un libro per aiutare il Nagorno Karabakh (Assadakah 12.05.21)

ANN – Letizia Leonardi – Il 27 settembre 2020 l’Azerbaijan, con il supporto della Turchia e l’impiego di mercenari jihadisti provenienti dalla Siria, ha attaccato la piccola repubblica armena de facto dell’Artsakh (Nagorno Karabakh). Dopo la fine della recente sanguinosa guerra, tanti sono gli interrogativi sul futuro degli armeni della Repubblica d’Artsakh e le conseguenze di questa situazione precaria nel Caucaso. “Pallottole e Petrolio”, il libro appena pubblicato di Emanuele Aliprandi, racconta i quarantaquattro giorni di violenti combattimenti, gli Intrecci geopolitici, l’ombra inquietante della Turchia di Erdogan, le questioni energetiche che toccano da vicino anche l’Italia, exit strategy mancate e future vie d’uscita alla ricerca di una pace ancora lontana. Gli utili derivanti dalla vendita di questo interessantissimo libro, che si acquista direttamente su Amazon al prezzo di 15 euro, saranno devoluti per attività a sostegno della causa degli armeni dell’Artsakh.

Per saperne di più abbiamo intervistato l’autore di “Petrolio e Pallottole”, Emanuele Aliprandi. – Dopo la fine della guerra in Artsakh come è la situazione sul territorio e come sono i rapporti tra azeri e armeni che sono tornati nelle zone ora sotto il controllo dell’Azerbaijan? L’attacco azero del 27 settembre alla repubblica armena de facto del Nagorno Karabakh (Artsakh) ha azzerato decenni di trattative negoziali condotte con difficoltà dal Gruppo di Minsk dell’Osce e ha riproposto l’opzione bellica come la carta vincente nei conflitti territoriali. Rispetto al tavolo negoziale, in particolare i cosiddetti “Princìpi di Madrid”, la parte armena non solo ha perso tutti i distretti al di fuori dell’ex oblast sovietica (Regione Autonoma del Nagorno Karabakh, NKAO) ma anche significative porzioni di territorio all’interno della stessa. Su circa 11.000 km2 anteguerra, il territorio attualmente controllato dagli armeni non dovrebbe superare i 3.000 km2; le truppe russe di pace sono un esile baluardo difensivo tra le parti. Nei territori ora sotto controllo azero non ci sono più armeni perché costretti alla fuga. La popolazione della repubblica, prima dell’attacco dell’Azerbaijan, era di circa 150.000 abitanti, oggi nel territorio armeno dovrebbero esserne rimasti al massimo circa 120.000. – Si sta facendo qualcosa per proteggere il patrimonio artistico e archeologico armeno presente nelle zone conquistate dagli azeri? Questo è uno dei tasti dolenti del dopoguerra. Gli azeri nei territori ora sotto loro controllo stanno eliminando ogni traccia di armenità. Alcune chiese sono state distrutte, lo stesso Aliyev ha dato esplicito ordine di rimuovere tutte le iscrizioni armene dagli edifici civili e religiosi. Ci sono centinaia di siti (dal semplice katchkhar al monastero) in quelle regioni ma la loro sorte sembra segnata. L’Unesco ha proposto sin dalla fine della guerra di inviare una commissione di esperti per censire tale patrimonio architettonico ma fino ad oggi l’Azerbaijan non ha dato l’autorizzazione. – Cosa si sta facendo per prevenire ulteriori scontri nell’immediato futuro? Al momento la tenuta della tregua è affidata al contingente russo. Ciò non ha impedito che si verificassero violenti scontri a dicembre in una vallata della regione di Hadrut che, completamente isolata, era rimasta sotto controllo armeno ma che gli azeri hanno occupato in violazione dell’accordo. Altri scontri si sono avuti nello stesso periodo in un paio di villaggi nella regione di Shushi. I russi in virtù dell’accordo del 9 novembre dovrebbero rimanere per cinque anni prorogabili di altri cinque, salvo disdetta di una delle parti (che sarà presumibilmente quella azera). La situazione al momento rimane molto tesa. – L’azione diplomatica con quali Paesi sta andando avanti e quali sarebbero le alleanze nel prossimo futuro per tenere testa alle pretese dell’Azerbaijan sul territorio del Nagorno Karabakh? Dietro l’attacco azero c’è indubbiamente la Turchia che è intervenuta pesantemente nel Caucaso non solo con il supporto logistico (aerei, droni Bayraktar, ingaggio dei mercenari jihadisti) ma con la precisa volontà di risolvere rapidamente la questione armena. Erdogan si era espresso duramente nello scorso giugno con frasi particolarmente forti nei confronti degli armeni, seguito a ruota da Aliyev. La teoria panturanica di un’unica nazione turca dalla Cina al Mediterraneo è ritornata di moda ad Ankara e Baku: come nel 1915, gli armeni costituiscono (con l’Armenia e l’Artsakh) un ostacolo a tale progetto. La partita nel Caucaso meridionale è molto più complicata di quel che sembri e non è certo limitata a una mera contesa territoriale. Più attori politici insistono su quel fronte, le alleanze non sono nette e non va dimenticata la questione energetica. Su questa, e sulle ricadute per l’Italia, ho dedicato un capitolo del mio libro. – Il ruolo della Russia quale sarà? Partner storico dell’Armenia ma con buoni rapporti anche con l’Azerbaijan, la Russia ha lasciato che il conflitto procedesse fino al punto voluto per poi imporre uno stop alle ostilità (in questo facilitata anche dall’abbattimento da parte degli azeri di un suo elicottero sui cieli dell’Armenia). Non è questa la sede per dilungarci sui rapporti politici tra Mosca e l’attuale amministrazione a Yerevan ma è innegabile che la minor sensibilità armena negli ultimi due anni verso l’alleato strategico alla fine è costata un duro prezzo. Detto questo la Russia non può certo abbandonare l’Armenia e la sua azione, in questi ultimi mesi, dimostra che i legami sono ancora molto forti. Per il momento le forze russe svolgono ruolo di interposizione ma aiutano anche la popolazione dell’Artsakh in questa fase di ricostruzione (edilizia, sminamento, assistenza sanitaria…). – Quali sono le necessità della popolazione e ci sono organizzazioni che si stanno occupando di creare dei sistemi per inviare con facilità aiuti umanitari? Una buona parte della popolazione che era fuggita negli ultimi giorni del conflitto è rientrata nei territori ancora sotto controllo armeno. Coloro che risiedevano nelle zone ora occupate dagli azeri stanno cercando sistemazioni alternative, alcuni sono rimasti sfollati in Armenia o in altri Paesi. La vita apparentemente è ritornata alla normalità ma le ferite della guerra sono ancora evidenti e si faranno sentire nei prossimi anni soprattutto da un punto di vista economico. L’Artsakh stava puntando al turismo, era quasi autosufficiente dal punto di vista energetico grazie alle risorse idroelettriche e dal punto di vista agricolo. Ora sarà necessario ricostruire lo Stato con gli azeri a una manciata di chilometri da Stepanakert e dagli altri insediamenti. Alcune organizzazioni (anche della Diaspora armena) stanno già operando per aiutare la popolazione anche con raccolte fondi su progetti mirati di rinascita. Credo che il primo obiettivo da raggiungere nell’arco di un paio di anni sia quello di dare una nuova casa a chi l’ha persa. – Cosa si può fare per sensibilizzare la Comunità Internazionale ad aiutare l’Artsakh per ottenere il riconoscimento dell’indipendenza? Ho dedicato l’ultima parte del mio lavoro allo studio di possibili soluzioni pacifiche al conflitto. Ritengo che sia elemento imprescindibile il riconoscimento della statualità armena dell’Artsakh non essendo realistico che la popolazione possa essere assoggettata al regime azero. L’armenofobia che abbiamo visto anche in questi ultimi mesi (cito tra gli altri il macabro “parco della vittoria” allestito a Baku) dimostrano che una convivenza è al momento impossibile. Altre soluzioni possono essere adottate per mettere in sicurezza questo piccolo territorio e farlo crescere in pace con il vicino. L’Unione europea dovrebbe spingere in tal senso perché non ha nulla da guadagnare dalla totale sconfitta armena e dalla rinascita di un nuovo impero “ottomano”. Riconoscere l’Artsakh, anche solo nel piccolo territorio rimasto libero, potrebbe impedire nuovi attacchi militari da parte di Turchia e Azerbaigian.

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