Parla il premier dell’Artsakh assediato. “Non potete ignorarci” (Lanuovabq 04.03.23)

Da due mesi prosegue la nuova crisi del Nagorno Karabakh (Artsakh), la regione a maggioranza armena incastonata nel mezzo dell’Azerbaigian e in lotta per l’indipendenza. L’Azerbaigian sta bloccando il corridoio di Lachin. Dopo la guerra del 2020, è rimasta l’unica strada che collega il Nagorno Karabakh con l’Armenia. La Bussola ha intervistato il Ministro di Stato Ruben Vardanyan. “Possiamo sopravvivere? Sì, ma non è più una vita normale. Tutto è in crisi, perché l’intera economia è chiusa, c’è carenza di ogni cosa, dal carburante alle medicine e al cibo, la catena di approvvigionamento non funziona più”. “Una delle ragioni di questi blocchi è che abbiamo detto che dovete negoziare con noi, non potete ignorarci”.

 

Ruben Vardanyan

Da due mesi prosegue la nuova crisi del Nagorno Karabakh, la regione a maggioranza armena incastonata nel mezzo dell’Azerbaigian e in lotta per l’indipendenza. L’Azerbaigian sta bloccando il corridoio di Lachin. Dopo la guerra del 2020, è rimasta l’unica strada che collega il Nagorno Karabakh con l’Armenia, da cui dipende per ogni bene di prima necessità. La crisi è umanitaria.

Dal punto di vista politico, le ragioni dell’Azerbaigian sono ancora senza una spiegazione, se non quella di indurre gli armeni della regione indipendentista a piegarsi. La stampa azera (e di conseguenza anche quella parte di media europei che ne seguono la narrazione) attribuisce molte delle colpe al nuovo Ministro di Stato nominato a novembre dal presidente: Ruben Vardanyan. Cinquantaquattrenne, nipote di un sopravvissuto del genocidio armeno del 1915, nato a Erevan (Armenia), ma divenuto uomo d’affari di grande successo a Mosca, è per questo considerato dalla stampa avversaria come “emissario del Cremlino”. È però un fatto che dal 2021 sia diventato cittadino armeno e l’anno dopo, rinunciando alla cittadinanza russa, abbia accettato di supervisionare il governo della Repubblica di Artsakh, il nome politico armeno del Nagorno Karabakh. Era uno degli imprenditori, banchieri, filantropi più ricchi e corteggiati, vincitore di numerosi riconoscimenti nazionali e internazionali, ma ora ha scelto di guidare il governo di una repubblica con 120mila abitanti, che non è riconosciuta internazionalmente ed è uno dei più pericolosi luoghi del mondo. E giusto per iniziare il suo mandato, l’Azerbaigian gli impone un blocco totale, un vero assedio. La Nuova Bussola Quotidiana lo ha incontrato (virtualmente) nel suo studio a Stepanakert.

Signor Ministro di Stato, come mai, da miliardario ha scelto l’Artsakh?
Con mia moglie abbiamo preso questa decisione nel 2008, quando ho guadagnato per la prima volta molto denaro, e ne abbiamo discusso con mio figlio. Ci siamo detti che il mondo stava subendo una grande trasformazione, con molte crisi e sfide, e che volevamo lasciare ai nostri figli non tanto i soldi, quanto un mondo migliore; per questo abbiamo deciso che era meglio spendere la nostra ricchezza per la filantropia. La seconda ragione è la guerra del 2020. Ero molto legato all’Artsakh, il luogo di cui mi sono innamorato a prima vista, l’ho visitato molte volte, mio figlio vi ha fatto il servizio militare, mia figlia ci ha vissuto per anni, mia nonna era originaria di qui, e sentivo un legame molto stretto con questa terra e la sua gente. È orribile quello che è successo nel 2020. Ho tenuto discorsi pubblici che sono stati seguiti da milioni di persone ed ho ricevuto una reazione piuttosto emotiva. L’esperienza della guerra è stata come passare una linea rossa: «È ora che tutti capiscano cosa è possibile fare per l’Artsakh». E poi nel 2022, quando ho visto quello che stava accadendo in Artsakh di nuovo, quando gli azeri stavano lentamente entrando nei villaggi e iniziando a prendere il controllo del nostro Paese, mi sono detto: questo è il momento di fare una scelta, o continui a fare filantropia ed essere una persona generosa ma solo emotivamente legata alla causa, oppure diventare responsabile ed iniziare ad agire in prima persona. È per questo che mi piace la frase di Amedeo Modigliani, uno dei miei artisti preferiti: “La vita è un dono: dai pochi ai molti: di coloro che sanno o che hanno a coloro che non sanno o che non hanno”. Ci sono vari modi di fare filantropia e per me è importante restituire alla mia nazione quel che mi ha dato.

Quanto è grave la situazione nell’Artsakh dopo più di un mese di blocco del corridoio di Lachin?
Siamo in difficoltà da ben 54 giorni. Non stiamo vivendo una situazione catastrofica, come Haiti dopo il terremoto. E nemmeno un assedio in cui la popolazione muore di fame perché è completamente privata del rifornimento di cibo, come era a Leningrado (nel corso dell’assedio tedesco del 1941-44, ndr). Direi che stiamo subendo una forte pressione da parte dell’Azerbaigian. Non abbiamo più normali consegne di cibo. Nessuno può lasciare l’Artsakh o entrare. Possiamo sopravvivere? Sì, ma non è più una vita normale. Tutto è in crisi, perché l’intera economia è chiusa, c’è carenza di ogni cosa, dal carburante alle medicine e al cibo, la catena di approvvigionamento non funziona più. Possiamo continuare a prendere qualcosa grazie a quel che ci viene fornito dalle truppe di pace russe e può passare la Croce Rossa. Il fatto di non poter uscire ha condizionato la psiche della gente. Non credono più nel futuro. Come nel lockdown durante la pandemia.

Le forze di pace russe non stanno intervenendo per tenere aperto il corridoio di Lachin. Perché?
Il loro mandato di peacekeeping è molto delicato, non possono usare armi, non hanno molti soldati in zona, vogliono evitare combattimenti. E non dimentichiamo che a bloccare il corridoio di Lachin sono civili, non militari. Ufficialmente non è lo Stato, non è l’esercito, ma sono manifestanti che fermano il traffico sulla strada. Quindi è ancora più difficile usare la forza militare contro di loro.

Cosa pensa degli ambientalisti azeri che stanno bloccando la strada, considerando che ufficialmente si tratta di una manifestazione ambientalista?
Quante manifestazioni libere ci saranno mai state in Azerbaigian nell’ultimo trentennio, dall’indipendenza ad oggi? Tutte le manifestazioni sono state represse. Nessuno crede che questa protesta sul corridoio di Lachin sia reale. È una manipolazione: è il governo azero che usa studenti e Ong. Noi abbiamo mandato lettere all’Azerbaigian e alle organizzazioni internazionali, chiedendo di mandare esperti per verificare di persona l’origine della protesta ambientalista (cioè la riapertura delle miniere, ndr). Ma l’Azerbaigian non accetta nessuno che non siano i loro esperti.

La nuova Comunità Politica Europea, riunita a Praga, aveva combinato un incontro fra Azerbaigian e Armenia. Ed eravamo tutti convinti che si potesse raggiungere un compromesso. Cosa è andato storto?
Una cosa è la tensione fra Armenia e Azerbaigian, tutt’altra è la questione dell’Artsakh. Noi vogliamo l’indipendenza dall’Azerbaigian sin dai tempi in cui eravamo tutti nell’Urss, dal 1988. La pace potenziale fra Armenia e Azerbaigian non cambia la nostra situazione. Il gruppo di Minsk, cioè Stati Uniti, Francia e Russia, cerca di risolvere il problema, ma l’Azerbaigian non accetta alcun consiglio perché ci considera come un problema interno. Una delle ragioni di questi blocchi è che abbiamo detto che dovete negoziare con noi, non potete ignorarci, se volete trovare una soluzione, dobbiamo aprire i negoziati su questo punto.

Gli Usa ospitano una grande popolazione armena. Lei pensa che gli Stati Uniti possano intervenire in futuro?
Sì e no. Gli Stati Uniti sono lontani e pensano soprattutto a Stati più grandi: alla Russia, all’Iran, alla Turchia, l’Armenia è troppo piccola per loro. Ma comunque hanno già giocato un ruolo importante, assieme alla Russia, per fermare la guerra del 2020, facendo forti pressioni sull’Azerbaigian. Ritengono inaccettabili le operazioni di pulizia etnica e altre violazioni dei diritti e degli standard umanitari. Ci potrebbero fornire un grande aiuto con un ponte aereo, perché l’Azerbaigian non fermerebbe voli dagli Stati Uniti. Potrebbero fornirci assistenza alimentare e umanitaria e, potenzialmente, imporre anche sanzioni allo Stato azero, per la sua politica inaccettabile.

Il Parlamento Europeo ha condannato il blocco con una risoluzione del 19 gennaio, su basi umanitarie. Cosa pensa dell’azione dell’Ue?
Il problema, per l’Unione Europea, è che alle parole non seguono i fatti. Probabilmente perché l’Azerbaigian le fornisce petrolio e gas, con contratti molto vantaggiosi. Lanciare bei proclami è sempre un bene. Ma non abbastanza.

Cosa pensa del silenzio, relativo, dei media europei?
Quando vivi in un periodo con così tante crisi assieme, pandemia, guerre, shock economici… è difficile che la gente voglia leggere notizie di qualche altra tragedia. Secondo: anche i problemi interni all’Europa sono tanti e gravi. Terzo, e ancor più importante si dovrebbe pensare alla solidarietà per tante altre parti del mondo e non solo per la nostra regione. Noi non forniamo abbastanza informazioni, forse non stiamo facendo un buon lavoro. Ma siamo troppo lontani, la gente non riesce ad interessarsi.

Conta il fatto che siete alleati della Russia?
Probabile, ma in Europa c’è sempre stato un grande rispetto per la democrazia. E l’Artsakh è una democrazia. Si sono alternati quattro capi di governo di Stato, abbiamo le elezioni, abbiamo un’opposizione vera e una società aperta. L’Azerbaigian, al contrario, è una tipica autocrazia, dove una sola famiglia comanda e non c’è alcuna libertà, nessuna democrazia, nessun rispetto per i diritti umani.

*Intervista effettuata via Zoom, consulenza per la traduzione di Patricia Gooding-Williams

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