Pro Armenia. Gli ebrei raccontano il genocidio fantasma. Panorama.it

Nel giorno della Memoria un toccante libro di Giuntina fa luce sul primo genocidio del Novecento, quello degli armeni per mano dei Giovani turchi

Pro Armenia. Gli ebrei raccontano il genocidio fantasma

Anna Mazzone

Nel 1939, poco prima dell’invasione della Polonia, Adolf Hitler tenne un discorso al comando delle SS, in cui ordinò come procedere per la “soluzione finale” e lo sterminio degli ebrei attraverso un universo concentrazionario fatto di sangue e orrore. Quando qualcuno dalla platea gli fece notare che sterminare milioni di ebrei non sarebbe passato inosservato, Hitler rispose: “Chi si ricorda oggi dello sterminio degli armeni?”. Anche in questo Hitler è stato sconfitto. Non si può cancellare un popolo né la sua memoria. E a mantenere vivo il ricordo del genocidio armeno per primi sono stati proprio quattro ebrei.

“Armeni, fratelli miei, è un ebreo che vi sta parlando…”. Nel giorno della Memoria che ricorda l’Olocausto degli ebrei nella Germania nazista della Seconda guerra mondiale e a settanta anni dalla liberazione del campo di concentramento di Auschwitz, la casa editrice La Giuntina dà alle stampe Pro Armenia. Voci ebraiche sul genocidio armeno, un libro toccante e coraggioso a cura di Fulvio Cortese e Francesco Berti, che racconta dello sterminio degli armeni per mano dei Giovani turchi nel 1915.

Toccante perché le voci narranti di Metz Yeghern, il Grande male come lo chiamano gli armeni, sono quelle di quattro ebrei. Coraggioso perché, a distanza di cento anni dal massacro degli armeni, il loro genocidio è ancora negato dai carnefici. Nessuna traccia sui libri di scuola di tanti Paesi europei, nessuna traccia nei libri di scuola della Turchia del presidente Recep Tayyip Erdogan.

E, a quanto sembra, nessuno traccia nemmeno nelle commemorazioni che si terranno il 24 aprile a Berlino, visto che il ministro degli Esteri tedesco, Frank Walter Steinmeir, ha recentemente dichiarato che “Il governo (tedesco) è informato delle iniziative programmate dalle comunità armene per il centenario degli eventi del 1915. Ma al momento non è previsto il patrocinio queste iniziative”. Rispondendo nel Bundestag a una serie di domande dei deputati di Die Linke, il capo della Diplomazia tedesca ha detto che non c’è “certezza storica” del genocidio armeno e che, per questo, la questione va risolta tra Turchia e Armenia. .

Pro Armenia. Voci ebraiche sul genocidio armeno  è un volume che gronda sangue e memoria. La prefazione di Antonia Arslan squarcia il velo di racconti serrati e tragici. Le parole di Lewis Einstein, André Mandelstam, Aaron Aaronsohn e Rapahel Lemkin rievocano un genocidio fantasma, che aleggia sull’Europa e la cui testimonianza impone una doverosa riflessione. Il racconto in tempo reale di questi quattro ebrei è ancora più significativo perché Einstein, Mandelstam, Aaronsohn e Lemnkin furono tra le poche voci a cercare di portare all’attenzione del mondo quello che nel 1915 stava succedendo in Turchia. All’epoca i tedeschi erano a conoscenza e non fecero nulla per fermare l’eccidio, rendendosi storicamente complici dei Giovani turchi e del massacro di più di 1 milione e mezzo di armeni.

Sfilano nelle pagine di Pro Armenia le immagini di madri, padri, bambini, anziani, ragazzi e ragazze, un intero popolo sterminato, cacciato dalle proprie case, umiliato, offeso, torturato. I vagoni merce che trasportavano gli armeni a morire nel deserto non erano marchiati dalla svastica del Terzo Reich, ma dalla Mezzaluna dell’impero ottomano, tuttora nella bandiera della Repubblica turca. Immagini di morte e disperazione in bianco e nero, che prendono corpo e vita, che respirano plasticamente attraverso il racconto di chi c’era e ha provato a salvarli.

Quattro uomini giusti, quattro ebrei. Furono tra i pochi a squarciare il velo dell’indifferenza su un genocidio che era il tragico antipasto della mattanza ebraica cui il mondo avrebbe assistito solo un pugno di anni dopo. Le quattro voci dei “fratelli” ebrei degli armeni provarono a lanciare l’allarme, tentatono di fermare l’eccidio in una disperata corsa contro il tempo. Ma la comunità internazionale colpevolmente volse lo sguardo altrove.

Oggi, a cento anni dal genocidio armeno, non è più possibile chiudere gli occhi e – anzi – è un dovere tenerli bene aperti. Perché, se – come dice Elie Wiesel – l’ultimo atto di un genocidio è la sua negazione, la demonizzazione dell’altro, l’antisemitismo e l’armenofobia galoppante, alimentata negli ultimi anni sia dall’Azerbaijan che dalla Turchia, è il segnale che un nuovo genocidio potrebbe ancora compiersi, perché laddove non esiste “memoria”, il Grande male può nuovamente affilare i suoi artigli.

Ebrei ed armeni, uniti nella memoria e nella condivisione di un passato di morte e di una ferita lacerante che si riapre ogni volta che la comunità ebraica e quella armena entrano nel mirino di antisemiti e armenofobi. Non è casuale che nel giorno della memoria della Shoah il presidente armeno Serzh Sargsyan abbia indirizzato alla comunità ebraica mondiale un discorso, dicendo che “E’ verità incontestabile che relegare le vittime di genocidi all’oblio e al negazionismo, soprattutto se di Stato, rappresenti un altro passo dello stesso crimine. E si tratta di un doppio crimine perché viene commesso non solo contro delle vittime innocenti ma anche contro il nostro presente ed il nostro futuro”.

Ma c’è una speranza. In un’Europa segnata da un antisemitismo crescente, la Fondazione per la Memoria della Shoah e la Fondazione per l’Innovazione politica, hanno diffuso i risultati di una ricerca sulla “Memoria nel Ventesimo secolo”. Un’inchiesta condotta su 31.172 giovani tra i 16 e i 29 anni in 24 Paesi del mondo. Il 77% dei giovani intervistati crede che nel 1915 in Turchia andò in scena il genocidio degli armeni. E in Italia i numeri sono addirittura più alti. Nonostante il silenzio dei libri di Storia, l’87% dei ragazzi italiani interpellati non ha dubbi nel dire che quello degli armeni fu un genocidio.

Alla faccia di Hitler e delle sue convinzioni assassine, la Storia ha già parlato. E questo vale per gli ebrei, per gli armeni e per i ruandesi. I tre popoli che nel Ventesimo secolo hanno attraversato l’inferno del genocidio e ne custodiscono la memoria, tramandandola affinché non succeda mai più.

Pro Armenia. Voci ebraiche sul genocidio armeno

a cura di Fulvio Cortese e Francesco Berti

Prefazione di Antonia Arslan

Edizioni La Giuntina

pag. 140, euro 12


http://espresso.repubblica.it/visioni/cultura/2015/01/26/news/dagli-armeni-alla-shoah-il-novecento-secolo-dei-genocidi-1.196375

Dagli armeni alla Shoah, il Novecento secolo dei genocidi

Un secolo fa gli armeni. E settant’anni fa gli ebrei. Due tragedie unite in un libro in uscita, che mostra come il secolo scorso sia stato percorso dall’idea malsana della pulizia etnica

di Wlodek Goldkorn

27 gennaio 2015

Le scarpe degli internati conservate nel campo di Auschwitz Quando si parla di genocidi, deportazioni di massa, uccisioni su scala industriale; quando ai nostri occhi di spettatori postumi si presentano immagini di uomini, donne, bambine e bambini (tanti) condotti verso la morte (da pochi), è difficile reprimere l’impulso di chiedere: «Ma perché non si sono ribellati?». Di fronte a una evidente superiorità numerica delle vittime rispetto ai loro aguzzini non è facile capire la presunta rassegnazione o peggio passività di chi sta per essere assassinato. Nasce da questa nostra incredulità, da questa nostra incapacità di immaginare l’inimmaginabile l’idea che le vittime avessero rinunciato alla diginità e all’onore.

La domanda: «Perché non vi siete ribellati?» risuonò nell’aula del tribunale di Gerusalemme durante il processo di Adolf Eichmann, rivolta dal pubblico ministero Gideon Hausner ai testimoni supersiti della Shoah. Ne è nato un libro polemico, non privo di rancore: “La banalità del male” di Hannah Arendt.

In concomitanza con la Giornata della memoria (il 27 gennaio di settant’anni fa Auschwitz fu liberata dall’Armata rossa) l’editore Giuntina ha pubblicato un piccolo e prezioso libro. Non parla della Shoah, o almeno non direttamente. Si intitola “Pro Armenia. Voci ebraiche sul genocidio armeno” (a cura di Fulvio Cortese e Francesco Berti) con la prefazione di Antonia Arslan. A pagina 33 del volume si trova una frase che, sebbene scritta 45 anni prima del processo Eichmann, letta oggi, clamorosamente rovescia la questione posta da Hausner: «Alla domanda del perché non si ribellarono è facile rispondere». L’autore è Lewis Einstein, diplomatico americano, esperto della Turchia, morto nel 1967 all’età di novant’anni. E il testo, uno dei quattro del libro, lo ha composto nel 1917, due anni dopo il massacro che costò la vita a un milione di esseri umani, colpevoli solo di essere nati armeni.

Einstein spiega le ragioni per cui le vittime non si ribellarono così: «L’intero Paese era sotto le armi e con la legge marziale, la resistenza organizzata diventava impossibile». Esattamente la ragione per cui solo pochi ebrei, qualche decennio dopo, si ribellarono ai nazisti. Ma il diplomatico va oltre: racconta come a «Izmit (…) il vescovo rivestito dei suoi più bei paramenti sacerdotali, guidò il suo gregge, cantando l’inno che si dicesse cantassero i figli d’Israele quando fuggirono dall’Egitto». La fuga dall’Egitto era una marcia verso la libertà. Qui invece l’autore rovescia il testo e la tradizione biblica e aggiunge: «E così partirono, quasi sempre verso la morte». In altre parole: nessun carnefice è in grado di togliere la dignità alla vittima, se la vittima della sua dignità rimane cosciente.

Gli armeni furono sterminati in due ondate successive. La prima nel 1893-1894, ad opera del sultano Abdul Hamid II. L’accusa rivolta loro era quella di fomentare i disordini e di lavorare per la distruzione dell’impero ottomano. Furono ammazzate 200 mila persone. La seconda ondata, quella di un vero genocidio, nel senso che un’intera cultura venne sradicata assieme ai suoi portatori e ai suoi segni materiali (case, chiese, cimiteri) sugli altopiani dell’Anatolia, risale al 1915. La prima guerra mondiale era in corso.

La Turchia, governata da nazionalisti che in apparenza volevano modernizzare il paese, era nemica della Russia e nelle file delle armate dello zar c’erano molti soldati armeni. A Costantinopoli degli armeni cittadini turchi non ci si fidava. Occorreva quindi sbarazzarsi di loro. La ricostruzione della storia e del contesto in cui il massacro avvenne è, nel libro, opera di Raphael Lemkin, ebreo polacco, giurista, inventore, nel 1944, della parola genocidio scomparso nel 1959 a New York (ai suoi funerali parteciparono appena sette persone). I suoi studi su cosa significhi l’assassinio e la cancellazione di un intero popolo risalgono ai primi anni Venti, quando lesse resoconti del processo intentato a Berlino a un giovane armeno imputato di aver ucciso Mehmet Talaat, ex ministro del governo turco, considerato il principale responabile della sorte subita dai suoi confratelli.

Le sofferenze dagli armeni – per altro raccontate in forma romanzata da Antonia Arslan (l’autrice, appunto della prefazione a questo libro) in “La masseria delle allodole” (da cui i fratelli Taviani trassero l’omonimo film) – in questo libro sono narrate da Aaron Aharonson, sionista, agronomo talentuoso e uomo che in Palestina si mise contro i turchi al servizio dei britannici. Nel suo testo racconta di «treni stipati con 60-80 armeni in carri merci». E poi, con un tocco degno di un raffinato scrittore presenta il caso di un uomo sui 45 anni, elegante, che viene catturato a Costantinopoli assieme a un bambino di tre anni e portato al commissariato di polizia.

Gli armeni non finirono nelle camere a gas, a differenza degli ebrei. Trovarono la morte durante le lunghe marce dalle loro città e villaggi e fino al deserto. Erano sottopposti a ogni possibile angheria; tra stupri delle donne, uccisioni arbitrarie, decessi per stenti, a causa di fame o per mancanza d’acqua. Uno sterminio più artigianale quindi rispetto a quello degli ebrei. Ma uno sterminio che non sfuggì, ecco un’altra coincidenza, agli occhi dei tedeschi, alleati dei turchi (ne parla nel libro il russo Andre Mandelstam), tanto che servì a Hitler da esempio su come il mondo sia in grado di tollerare e dimenticare tutto.

Dice Raz Segal, 39enne storico dell’Università di Tel Aviv che da anni studia i paralleli e le differenze tra diversi genocidi: «Lo sterminio degli armeni segna il vero inizio del ventesimo secolo. È la pulizia etnica in nome della purezza dello Stato Nazione che con la violenza sradica qualunque diversità. La stessa idea i nazisti l’hanno declinata in un senso più ampio e ancora più radicale. Ma con la Shoah e la catastrofe degli ebrei quell’idea purtroppo non è morta in Europa. Basti pensare ai Balcani e alla strage di Srebrenica». Di quella strage, oltre 8mila musulmani inermi, ammazzati dai serbi, quest’anno cade il ventesimo anniversario. Un altro anniversario da ricordare, in questa giornata della memoria.